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Ci sono messaggi che dividono, opere che vorrebbero parlare a tutti, ma quasi per condizioni di esistenza arrivano solo a metà. Non possono scalfire la scorza di chi si è già fatto un’opinione, di chi ha già in mente schemi e categorie sociali in cui incastonare tutto ciò che gli si presenta davanti.

Stiamo parlando di 13 Reasons Why, una serie a metà tra il thriller e il teen drama, e di alcune delle critiche, motivate o meno, che le sono state mosse. Il riadattamento tv di 13 di Jay Asher usa con efficacia l’arma dell’intrattenimento, di per sé un elemento ambivalente. D’accordo, uno standard narrativo mainstream può arrivare a un grande pubblico, ma rischia di grattare la superficie di argomenti molto complessi come il suicidio e il bullismo, senza portare a un’autentica riflessione.

«Volevamo iniziare raccontando la verità sugli effetti di questi eventi. Volevamo raccontare una storia non solo con correttezza, ma una storia che potesse far presa sui più giovani che non sempre ricevono una giusta dose di verità nell’intrattenimento.»

«13» di Jay Asher, Mondadori, traduzione di L. Borgotallo, M. C. Dallavalle

«13» di Jay Asher, Mondadori, traduzione di L. Borgotallo, M. C. Dallavalle

A parlare è Brian Yorkey, produttore esecutivo della serie. Due binari, dunque, evidenti ma sovrapposti, sono base fondante di questa storia: la finzione e la realtà. I due aspetti s’intersecano lasciando solo vagamente intuire dove finisce uno e dove inizia l’altro. È su questa doppiezza che il dibattito su 13 Reasons Why ha assunto sfumature grottesche.

Hannah Baker (Katherine Langford) si è uccisa. Diciassette anni, normale vita di liceo. Perché l’ha fatto? Clay (Dylan Minnette), amico, innamorato, è un timido nerd – vagamente asociale – con tutti i problemi dettati dalla sua adolescenza. Difficoltà a parlare con i genitori, a capire ed esternare le proprie emozioni, a fare amicizie, riuscire a trovare qualcuno, chiunque, che possa accettarlo per quello che è. Sette audiocassette (meraviglia analogica difficile da ricordare per i più giovani) gli vengono recapitate; sette cassette che riportano lato per lato, raccontati dalla stessa voce della ragazza, i tredici motivi che l’hanno portata a suicidarsi. E lui, Clay il nerd, è tra questi. I motivi diventano via via più pesanti, pressanti, ingestibili. Da liste che trasformano una persona in oggetto sessuale, all’indifferenza – non malvagia, solo sciaguratamente incosciente – nei confronti di una ragazza che prova ad aprire il cuore, la mente, l’anima, agli altri. Fino ad arrivare ai sensi di colpa di chi assiste a uno stupro, di chi si sente responsabile per una vita perduta e di chi, infine, lo stupro lo subisce.

I due binari non hanno lo stesso peso. Quello che sembra importare a registi e sceneggiatori è il messaggio. E arriva forte, emotivamente devastante, strappa lacrime, forse ricordi, forse rimorsi. Ma si nasconde. Dietro i dettagli narrativi, dietro i cliché forzati per tenere il pubblico sull’attenti, dietro la poca cura che si ha di certi elementi della trama, buttati lì e poi dimenticati; solo scavando sotto tutto questo si arriva al messaggio. Non sono importanti le cassette – l’assurda vendetta di una ragazza che ormai ha rinunciato a tutto – quanto le ragioni che Hannah vomita dentro a quei nastri. Non sono importanti le strampalate soluzioni che i colpevoli s’inventano per impedire a Clay di scoprire la verità, quanto la loro disarmata paura davanti a ciò che non riescono a comprendere e a gestire.

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Quello che sembrano suggerire è la paura di apparire fragili. Come se quello che accade a qualcun altro non li potesse riguardare, perché troppo presi dal dogma di apparire splendidi, brillanti, senza alcun tallone d’Achille, perché qualunque debolezza (anche fosse ridicola) è una macchia infame che non si può lavare via dai corridoi della scuola. È una paura che va al di là dei personaggi e diventa tratto caratteristico e universale dell’adolescenza. Pur di apparire forti e farsi accettare dal gruppo si sacrifica la ragione, si insabbiano scorrettezze o addirittura crimini.

Oltre il mascherone dell’intrattenimento, Hannah è il prototipo di una creatura giovane e fragile che assume connotati tragici. Guardandola sotto una lente superficiale – magari involontariamente suggerita dal taglio pop della serie – può verificarsi quello che una grossa parte del mondo social sta alimentando: l’idea che Hannah Baker, alla fine, a parte per lo stupro subìto, si è uccisa per cose da nulla. La stessa creazione di meme in cui si associa qualunque piccolezza alla scritta «Benvenuto nella tua cassetta» è sintomo di questa prospettiva ottusa. Minimizzazione, indifferenza, svilimento. Proprio i motivi per cui Hannah si uccide. Trasformare tutto in sciocchezza, gioco, non riuscire a empatizzare con la sofferenza è un’operazione pericolosa, talvolta letale. Una diciassettenne non si suicida perché è debole. Sotto 13 Reasons Why scorre la critica a quella visione che si traduce in una sorta di legge della giungla, logica del più forte che vince solo calpestando chi non vive nella stessa inossidabile traiettoria del vincente.

È di queste settimane la fake news del gioco online del Blue Whale. Si tratterebbe di un app per adolescenti che li spinge al suicidio dopo alcune prove. Nei giornali italiani e stranieri che riportano la notizia come vera (ingigantita da un discutibile servizio delle Iene, poi rinnegato dal programma stesso) i commenti sono impietosi. Qui non stiamo più parlando di fiction; o meglio, stiamo parlando di falsità prese per vere dagli utenti. Se molti commenti arrivano quasi a criminalizzare i ragazzi suicidi come persone insicure a cui mancano valori solidi, l’idea di fondo è sempre quella: se non sei forte, se ti fai problemi per delle cazzate invece che riderci sopra, allora forse un po’ ti meriti quello che è successo. È proprio questo banale e quotidiano fraintendimento che la serie cerca di mettere in luce chiaramente, pur senza mai usare l’espressione: Hannah è depressa. La depressione non è semplicemente tristezza o malinconia e non si cura solo con battute tra amici, con un po’ di sesso, con l’alcol, con qualcuno che ti vuole bene. Hannah Baker non si uccide perché ha il coraggio di affrontare la morte, ma perché non ha altra strada. Non si uccide perché è debole, angosciata, impaurita; lei non sente né allegria, né angoscia, né tristezza o paura o speranza. Non sente nulla. Ha la sensazione che la realtà non sia vera, che non può sfuggire a questa mancanza di senso che permea ogni cosa.

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Un adolescente non ha gli strumenti per comprendere la temporaneità del dolore. Per chi ha sedici anni, ogni cosa è assoluta e senza tempo; non si ha la razionalità che permette di relativizzare ciò che accade. Non c’è, né in Hannah né negli altri personaggi, la comprensione che siamo tutti vittime e carnefici, che non ci sono mostri né eroi, che gli atti compiuti non sempre sono definitivi. E questo è senza dubbio uno dei punti forti della serie. La stessa vendetta di Hannah, l’atto stesso di mandare le cassette, non è da leggere (superficialmente) come positivo. C’è anzi un occhio critico che pone la protagonista sullo stesso livello di chi l’ha portata a suicidarsi. Con la stessa superficialità, la stessa incoscienza.

Per comprendere 13 Reasons Why bisogna andare al di là degli aspetti narrativi più evidenti, dimenticare cassette, suspence, cliché adolescenziali o genitoriali e tutti quegli escamotage-entertainment che contribuiscono a rendere la confezione appetibile per un vasto pubblico (anche molto variegato anagraficamente). La stessa scelta – criticata stupidamente a gran voce – di mettere in scena il suicidio in modo così violento, crudo, reale, si stacca da una visione patinata, retorica ed epica delle tragedie adolescenziali. Uccidersi è cosa vera, vicina, angosciante, anche banale, ma non per questo da prendere con leggerezza. Sono proprio le piccole banalità che hanno creato la drstica catena di eventi di Hannah. E questa è una cosa che lo stesso protagonista Clay fatica ad assimilare. Nell’amara chiusura delle storie di Alex e Tyler, si spezza il sottile filo di un lieto fine. Non è una resa all’inevitabile, solo una piccola verità: c’è un po’ di Hannah Baker in ognuno di noi.

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