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In occasione della fine di Skam Italia 3 abbiamo intervistato il regista Ludovico Di Martino, classe ’92, parlando delle sue esperienze lavorative tra film indipendenti, serie tv e la sua partecipazione al film evento Il primo re, che si sta facendo strada in questi giorni nel mercato internazionale.

Quasi tutte le tue opere hanno in comune il fatto di avere dei protagonisti giovani: Roles, Pipinara, Il nostro ultimo e ora Skam Italia 3. Fra i vari meriti che si leggono in giro, di Skam viene spesso apprezzata la realisticità dei dialoghi: un tratto poco comune, soprattutto per una serie italiana. La qualità del linguaggio in Skam Italia è dovuta al fatto che la serie è scritta da giovani che per una volta hanno avuto la possibilità di autorappresentarsi, o credi sia riconducibile a qualche altro fattore?

In parte è per quello. Innanzitutto Skam Italia è un remake, quindi se parliamo di linguaggio stiamo parlando del processo di adattamento. Il fatto che la sceneggiatura l’abbiamo adattata io, che di anni ne avevo 26, Alice Urciolo (24), supervisionati da Ludovico Bessegato (34), e che ha diretto le prime due stagioni, avrà sicuramente avuto un suo peso. Poi ci siamo affidati molto ai ragazzi, gli attori, che sono stati fondamentali. Ma io credo che in questo caso il grande punto di forza sia stata l’elasticità del network: quando tutto quello che scrivi e giri deve comunque essere letto e approvato da chi ha più di cinquant’anni, è difficile risultare autenticamente giovanili. Noi abbiamo avuto una supervisione intensa e strutturata, siamo stati seguiti da vicino, ma TimVision ci ha dato tantissima fiducia. Come regista, ho avuto delle libertà che non avevo neanche immaginato di poter avere. La stessa operazione, se la metti in mano a un network più grande, non funziona nello stesso modo, perché è l’indipendenza della piattaforma a concederti quella libertà.

Hai lavorato e continui a lavorare con Groenlandia, la casa di produzione di Matteo Rovere. In particolare, hai seguito le riprese del Primo re, di cui, tra le altre cose, hai girato il making of. Com’è stato lavorare al progetto e cosa, secondo te, permette a Groenlandia di produrre un certo tipo di film – e non sto parlando solo del Primo re – che in Italia non si vede spesso?

Il primo re l’ho seguito parecchio; fra preparazione, realizzazione di alcuni effetti speciali e trasferte a Milano e in Ungheria ho partecipato molto al processo di produzione. La mia impressione è che la forza caratteristica di Groenlandia sia la conoscenza del sistema produttivo e non solo il concetto di fare film diversi da quelli delle grandi produzioni italiane, perché in realtà sono molte le case di produzione che provano a fare film del genere; nella maggior parte dei casi, però, questi film non vengono visti o, peggio, nemmeno finiti. Quando senti parlare di Groenlandia, quando uno dice «questi fanno cose nuove», pensi a dei matti che stanno lì e fanno come gli pare, e invece conoscono molto bene il mercato cinematografico italiano; sanno quello che fanno e per questo possono convincere major come la 01 a finanziare film complessi e innovativi. Non lo girano con indipendenti e mercati dei film festival a botte di contributi e fondi pubblici: loro convincono la Rai a fare un film in latino. È interessante quando fanno un film come Il primo re, ma anche quando fanno la commedia intelligente, lavorata bene a partire dalla scrittura. Questo è un altro enorme punto di forza: il processo di scrittura dura moltissimo, è molto curato e non è da tutti.

In Skam e in molti dei tuoi lavori precedenti fai largo uso di inquadrature che invitano all’immedesimazione; non parlo solo di soggettive, ma soprattutto di movimenti di camera che sembrano rispecchiare lo stato d’animo dei protagonisti. Pensi che questo sia un tuo primo tratto distintivo come autore e regista?

Diciamo che è una cosa a cui tengo abbastanza. C’è una scena, nella terza stagione di Skam, in cui la protagonista è in uno stato psicofisico che non le permette di avere una visione lucida di quanto le sta accadendo. In quella scena non sono solo i movimenti di camera a lavorare per darti la sensazione che volevo ricostruire: il nero, il montaggio, la macchina a mano, i suoni e i silenzi sono vari elementi che mi diverte tirare in ballo, perché significa usare tutto quello che hai a disposizione – sonoro, attore, musica, immagini, camera – per cercare di restituire la stessa esperienza vissuta dal protagonista. Ho avuto molta fortuna perché Skam è di per sé una serie molto soggettiva: ogni stagione racconta la storia di un personaggio e quel personaggio è sempre in scena. Tutto quello che avevo girato fino a quel momento aveva la stessa prerogativa; è un caso che anche Skam sia così, ma è un caso che per me ha rappresentato un vantaggio. Ci ho pensato anche dopo, a cose finite. Tracciando una linea comune di tutto quello che ho fatto rilevi due caratteristiche: protagonista sempre in scena e arco temporale ristretto – che probabilmente mi serve per essere abbastanza vicino al protagonista. Nella maggior parte dei film si vedono salti temporali, scene senza il protagonista, mentre se lo tieni sempre d’occhio è più facile raccontarlo da vicino e far provare le sue emozioni al pubblico. Per quanto riguarda la tecnica, pensala così: in letteratura l’empatia la costruisci con le parole; in un film hai a disposizione molti strumenti diversi e non devi mai dimenticarti di usarli. Una delle cose belle, per esempio, del Primo re è che ha un sonoro pazzesco. Questo si ricollega al discorso di prima: produrre film in modo diverso non significa fare solo film di genere; significa ricordarti che hai una serie di strumenti a disposizione e che devi sfruttarli tutti, anche perché se non lo fai la sala muore. Se continui a fare affidamento solo su parole e immagini mi stai autorizzando a vedere tutti i film a casa. Non lo devi fare. Poi è vero che oggi con trecento euro puoi avere un piccolo cinema in camera tua, ma è per questo che devi trovare un modo di lavorare su piani inaspettati, cercare di colpire l’inconscio, amplificare le emozioni del pubblico. Tira fuori un film che merita, chiede e pretende di essere visto al cinema e la gente continuerà ad andarlo a vedere in sala.
Di questo ne sono certo.

Per essere un regista giovane, hai già avuto modo di confrontarti con molti sistemi di produzione diversi. Rispetto a quello che è venuto dopo, ai lavori con Groenlandia e TimVision, lavorare a un film indipendente e autoprodotto come Il nostro ultimo ti ha insegnato qualcosa?

È stata la mia prima esperienza di set lungo, per me e per tutti quelli che ci hanno lavorato, se escludi Guglielmo (Poggi, ndr), che praticamente recita da quando è nato, e pochi altri attori. I soldi per produrlo li abbiamo raccolti con una cena-crowdfunding e andando in giro a chiedere sponsorizzazioni, oltre a metterceli noi. Io già allora dicevo che quello è un genere di operazione che idealmente non dovresti fare. Poi l’ho fatta lo stesso e ne sono contento; se non avessi girato Il nostro ultimo non avrei iniziato a lavorare così presto. Andrea Paris e Matteo Rovere di Ascent e Groenlandia sono venuti a vederlo quattro anni fa e in quel momento è nato un rapporto con un produttore che negli anni mi ha dato fiducia e con loro adesso sto preparando quella che si spera essere il mio prossimo film. Anche Skam, non l’avrei fatto se non fosse stato per Il nostro ultimo. Aver lavorato a un lungometraggio, anche se imperfetto – principalmente perché immaturo sotto alcuni punti di vista – ti dà un minimo di curriculum che vale più di un paio di corti. Fallo e buttalo, ma almeno hai fatto qualcosa. Basta montare una roba di 90 minuti, invece di un corto di 15, e senti un’enorme differenza. Io mi ricordo tre mesi passati in studio a montare e a riguardare un’ora e mezza di film che sapevamo a memoria, a prendere appunti per capire come migliorarlo giorno dopo giorno. Significa confrontarsi con qualcosa di spaventoso. Questo, però, è un film che andrebbe fatto una volta nella vita. Non dico mai, perché è uno step quasi inevitabile, ma una volta sola; non può essere un modo per fare cinema: non puoi stare tutta la vita a fare film con trentamila euro perché nessuno te ne ha dati di più o perché non ti andava di aspettare i bandi del ministero. Quando portavamo Il nostro ultimo ai festival c’era chi stava già al terzo o al quarto film prodotto in questo modo.  Per me ha senso se lo fai una volta e lo fai subito, quando sei ancora così giovane da essere non dico inattaccabile ma quasi; quando puoi sbagliare senza essere condannato; hai provato a fare qualcosa e a ventiquattro anni va bene così, perché è un primo tentativo. Se poi vuoi continuare a fare cinema, però, devi imparare a confrontarti con le regole del sistema produttivo, anche solo per trasgredirle in modo più consapevole. Torniamo a Il primo re. È interessante perché si tratta di un film prodotto con tanta libertà creativa, ma è una libertà che Rovere in primis si è guadagnato: è il quarto film di un regista che ha anche una grande esperienza come produttore, con un percorso alle spalle che gli ha permesso di convincere le grandi produzioni. Se uno studente appena uscito dal centro sperimentale fosse andato a proporre un film in costume, in protolatino, alla Rai, probabilmente gli avrebbero riso in faccia. Ma questa è la cosa importante: guadagnarsi la fiducia del mercato per poi osare gradualmente sempre di più.

Sia Skam che Il nostro ultimo fanno molto affidamento sulla colonna sonora, e in entrambe le opere ci sono scene in cui fai cantare gli attori. Che ruolo ha la musica nei tuoi lavori?

Il fatto che anche in Skam ci sia una scena in cui qualcuno canta è una coincidenza; c’era anche nell’originale – anche se nella prima versione è la protagonista a cantare: noi abbiamo invertito i ruoli. Con la colonna sonora di Skam mi sono divertito molto, c’è di tutto: dai Blink, a Nick Cave, ai The Blaze, fino a Salmo e Fabri Fibra. Ci sono persino tre brani che ho prodotto io, firmandomi con lo pseudonimo di Vincent Vega. Una delle cose belle di Skam è che ha un grande budget per la musica, quindi puoi usare tutto quello che ti passa per la testa. In più, oltre la musica diciamo edita, per la terza stagione ho proposto di collaborare con i Prod By Enemies – i produttori di Ultimo, Mostro, Gianni Bismark e altri – che fanno musica elettronica e con cui abbiamo prodotto più di trenta brani originali per implementare la colonna sonora. Conoscevo Skam e loro mi sembravano avere lo stile giusto, anche se non avevano mai fatto colonne sonore; quindi abbiamo lavorato insieme per tre mesi, producendo trenta pezzi, anche brevi, scritti da loro appositamente per le scene della serie. Spesso sono dei brani così elettronici e confezionati da non sembrare scritti per Skam; invece in quasi tutte le scene alle feste non ci sono pezzi radiofonici. Il nostro ultimo ha solo materiale originale. In quel caso è stato tutto molto complicato, anche per mancanza di soldi. Per Pipinara avrei voluto usare musica edita, invece di nuovo ho passato un periodo a produrre io stesso delle tracce, insieme ad un altro ragazzo che si chiama Giacomo Spaconi. Il mio unico vero momento di sofferenza fisica, durante la lavorazione di un film, è sempre stato quello in cui inizio a pensare alle musiche; entro nel panico. Ho studiato e fatto, forse, più musica che cinema ed essendo una cosa che sento in modo così profondo non ho mai la sensazione che il lavoro sia finito, non so mai quando fermarmi.

Uno degli aspetti caratterizzanti di Skam è il messaggio politico-sociale. Quanto è percepita, sul set e in fase di scrittura, l’importanza di avere una serie come questa in Italia?

Secondo me la cosa intelligente – e questo è Skam Norvegia ad averlo insegnato – è che tutte le tematiche che affronta Skam sono raccontate come qualcosa che esiste nella nostra società, senza dover esprimere un giudizio. Siamo abituati al fatto che se vuoi parlare di omosessualità fai una storia che parla solo di omosessualità, oppure se vuoi parlare di integrazione fai una storia che parla solo di integrazione. Skam parla di ragazzi che, vivendo nel nostro mondo, sono circondati da una serie di cose; quindi sì, racconta una storia e affronta delle tematiche, ma ogni tema è posto come un elemento concreto della realtà e non come qualcosa da analizzare o di alieno. Prendi la seconda stagione: il protagonista è un ragazzo che capisce di essere omosessuale. Sì, lui deve fare i conti con pregiudizi e discriminazioni, ma non hai la sensazione che qualcuno abbia detto «adesso parliamo di omosessualità». È una storia d’amore, punto. Se oggi vai in una scuola è normale che in un gruppo di una decina di ragazzi ci sia qualcuno che ha fatto outing, qualcuno che è di religione musulmana e qualcuno che magari ha genitori stranieri ma è nato e cresciuto in Italia e parla romano; racconti questo, racconti l’insieme di tutte queste cose.

Ultima domanda, scontata e irritante: progetti futuri? Cosa puoi dirci?

Posso dirti che sto lavorando a questo film di cui però non posso dirti niente. Frase che odio. Scrivilo. Scrivi che ho detto che è una frase che odio e che quando qualcuno la dice sono il primo a detestarlo. Però è vero, non posso dirti niente, se non che abbiamo appena finito di scrivere questo film, il cui processo di scrittura è stato molto lungo, e per cui ora dobbiamo iniziare a prepararci. Sto studiando parecchio, ma credo che ne valga la pena.

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