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Leggere di saggistica richiede una precisa postura, un modo di accogliere il testo che condivide tutto e niente con la narrativa: entrambi sono trampolini, rampe di lancio per un nuovo pezzo di mondo, ma mentre la narrativa è per eccellenza lo strumento attraverso cui andare altrove, la saggistica invita a restare, a osservare il mondo che già abitiamo.

Come pensano le foreste di Eduardo Kohn, pubblicato in Italia da Nottetempo e tradotto da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, fa esattamente questo: invita ad assumere, per l’appunto, una precisa postura, una che implichi un punto di vista sconosciuto su un mondo già conosciuto – una da cui sia possibile, alla fine, concepire che una foresta abbia l’abilità di sviluppare a tutti gli effetti una forma di pensiero e comunicazione. Per farlo, Kohn ci affida uno strumento inedito che chiama «antropologia oltre l’umano».    

Questo approccio si basa su un concetto fondamentale, ovvero che anche le forme di vita non umane hanno rappresentazione del mondo. Avere rappresentazione del mondo significa essere coscienti di cosa esiste, vive e si trasforma attorno a noi. Non solo, significa anche poter rivendicare e far riconoscere la propria presenza, il proprio sé. Ora, date le premesse, come spiega Kohn «questa concezione più ampia della rappresentazione è difficile da afferrare perché la nostra teoria sociale […] assimila la rappresentazione al linguaggio». In altre parole, il nostro immaginario respinge – o accetta con fatica – l’idea che una forma non umana possa avere rappresentazione del mondo, perché in quanto umani leggiamo, decifriamo e comunichiamo attraverso il linguaggio. Siamo abituati a indicare e a indicarci attraverso le parole e attraverso i significati convenzionalmente a loro attribuiti. Questa forma di comunicazione è propria e unica degli esseri umani e seguendo la terminologia di Charles Sanders Peirce, ampiamente citato nel saggio, si definisce come simbolica. «Ma i simboli, […] che sono una forma di rappresentazione distintamente umana e le cui proprietà rendono possibile il linguaggio umano, emergono in realtà da altre modalità di rappresentazione a cui sono collegate […] queste modalità non simboliche di rappresentazione pervadono il mondo vivente – umano e non umano – e hanno proprietà inesplorate che sono totalmente distinte da quelle che rendono speciale il linguaggio umano». Le modalità a cui si riferisce Kohn, chiamando ancora in causa Peirce, sono iconiche e indicali. Considerarle come parti strutturali della comunicazione ci porta a quello che è il tema portante di tutto il saggio: la vita è costitutivamente semiotica.        

Proviamo allora a fare un passo indietro e a mettere in ordine. Le forme di vita, anche non umane, hanno rappresentazione del mondo. Questo è possibile grazie alla percezione, lettura e interpretazione dei segni (simbolici, iconici e indicali). È sempre attraverso i segni che ci poniamo nel mondo, vale a dire che è attraverso la comunicazione che riusciamo a identificarci e a comunicare. Da qui, «ciò che condividiamo con le creature viventi non umane, quindi, non è la corporeità […], ma il fatto che viviamo tutti con e attraverso i segni». Ecco che il “noi” umano non è l’unico esistente – ed è qui che si espande il pensiero, che si tracciano nuovi tragitti sulla mappa – perché anche le foreste sono un “noi”, una vera e propria ecologia di sé, in cui le forme di vita interpretano i segni degli altri.

Tutto ciò, nel saggio di Kohn, prende corpo in un luogo ben preciso: le foreste dell’Alta Amazzonia attorno ad Ávila. L’intero libro è il risultato di quattro anni di lavoro nel territorio ecuadoriano, a contatto con i Runa, la popolazione del luogo, che instaura dei veri e propri rapporti comunicativi con uccelli, scimmie, cani (a cui vengono addirittura somministrate delle droghe psichedeliche chiamate tsita per alimentare la loro abilità di connessione con gli umani) e, ovviamente, con le foreste.

Sono popolazioni abituate a condividere la propria esistenza con forme di vita non umane, di conseguenza, per interagire con loro, hanno costruito una precisa semiotica. Kohn descrive ad esempio come sia fondamentale dormire nella foresta a faccia in su, postura di difesa contro i giaguari, i quali, pensando di avere davanti una preda sveglia, e quindi capace di contrattaccare, si allontaneranno invece di aggredire. In quel momento il giaguaro sta avendo una rappresentazione della realtà e sta leggendo un segno (in questo caso indicale) inviato da un umano. Ancora, durante una battuta di caccia, Kohn racconta nel dettaglio come i suoi due accompagnatori usino la foresta per far spostare le scimmie esattamente nei punti a loro necessari, facendo cadere rami o spostando le liane a loro piacimento. Anche questo è un linguaggio, perché si tratta ancora una volta di segni che vengono percepiti e intesi in un modo ben preciso. La differenza è che non sono le parole ad avere significato, ma un’immagine, un gesto, un accadimento. Inoltre, i due cacciatori riuscivano a controllare i movimenti dei primati anche pronunciando suoni onomatopeici che imitavano il suono del taglio di una palma con un machete, in questo caso, invece, siamo davanti a un’icona.

Non è quindi insolito che i Runa abbiano imparato a distinguere i guaiti che i cani emettono durante il sonno, che sappiano ricollegarli a un certo stato d’animo o fisico dell’animale, o che abbiano imparato ad anticipare i movimenti delle formiche alate attraverso le condizioni meteorologiche e la fruttificazione, indovinando il momento esatto per catturarle.

Quello che fanno ha sicuramente a che vedere con l’adattamento, nel senso che nascere e crescere considerando la natura la principale fonte di sostentamento implica necessariamente anche imparare a viverla, gestirla e – per l’appunto – ascoltarla. Diventare parte di un’entità più grande è necessario in una popolazione come i Runa, perché è da questa che dipende la loro stessa vita. Di conseguenza, questa simbiosi con il non umano è per loro innata e inevitabile. Questo modo di comunicare con le altre forme di vita è chiamato da Kohn pidgin trans-specie e prevede un assunto ben preciso: il mondo «oltre l’umano» comunica a prescindere dall’umano. Ciò che succede in una foresta non ha bisogno degli uomini per trovare un significato, non ha bisogno della nostra interpretazione. Una foresta pensa semplicemente perché è viva. In quanto viva può leggere e inviare segni. Questi segni vengono assimilati dai Runa, che imparano quindi a entrare in contatto con la foresta, a usare un linguaggio che non ha nulla a che vedere con il simbolico, semplicemente perché il simbolico qui non funzionerebbe. Succede, alla fine, che queste popolazioni non solo danno per scontato che le foreste pensino, ma iniziano a pensare insieme a loro. È un movimento che prevede un cambio di vista netto: «ci invita a provincializzare il linguaggio per fare spazio a un altro genere di pensiero – un pensare più vasto che abbracci e sostenga l’umano: il pensiero delle foreste, il pensare che pensa attraverso le vite di chi, come i Runa (e altri), interagisce intimamente con gli essere viventi della foresta in modalità che amplificano le leggi distintive della vita».   

Se la saggistica invita quindi a restare, Come pensano le foreste altro non è se non una richiesta di fiducia, ci chiede di essere disposti ad accogliere, stupirci, calpestare un terreno a cui siamo abituati con un passo mai imparato prima, così da poter concepire più di una strada percorribile, più di un’angolazione da cui osservare, per amalgamare poi le nuove informazioni alle convinzioni più radicate, modificandole.

Eccola, allora, la nuova postura. Una con cui Eduardo Kohn ci invita a fare due movimenti, uno al di fuori, quello dell’antropologia oltre l’umano, e uno verso l’interno, che torna all’umano stesso. Come pensano le foreste è un saggio sì antropologico, ma anche profondamente ontologico. Ci invita a ripensarci attraverso il pensiero di ciò che è oltre di noi, a indossare l’abito di una foresta, e in maniera più estesa di tutto ciò che non è “io”, per indagare l’io stesso.