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Come recita un vecchio adagio dei quartieri del piacere, la menzogna preferita di una cortigiana era «ti amo», quella del cliente «ti sposerò». Il mondo dei fiori e dei salici, il «mondo fluttuante» o ukiyo, in giapponese, è la cornice in cui Moyoco Anno ambienta il suo intenso e colorato manga Sakuran, uscito a febbraio 2019 per Dynit, tradotto da Anna Specchio. Il fumetto racconta la vita di Kiyoha, oiran o cortigiana di alto rango del quartiere del piacere Yoshiwara di Edo (la Tokyo odierna), il fiore più bello e ricercato della casa da tè Tamagiku.

Kiyoha viene ceduta alla casa da tè ancora bambina, destino comune per le molte cortigiane e prostitute dello Yoshiwara; inizia il suo apprendistato come kamuro o attendente e cameriera delle oiran, prendendosi cura delle necessità ma soprattutto delle richieste malevole e bizzose delle cortigiane, subendo punizioni dure senza piangere mai, fino a diventare hikkomi e dunque shinzō, o apprendista oiran, immersa ormai in un mondo chiuso fatto di pesanti sete colorate, kimono, metalliche note pizzicate sugli strumenti tradizionali come shamisen e koto, cerimonia del tè e calligrafie. È in questa gabbia che Kiyoha crescerà, prigioniera bellissima come farfalla in una scatola, proprietà della casa da tè e balocco di lusso per uomini d’affari e daimyō, fino a scalare le gerarchie e diventare una cortigiana di primo livello, la più richiesta dello Yoshiwara. E l’amore? «Amare è l’inferno. Essere amati è l’inferno. Ma che senso avrebbe vivere senza i colori dell’amore?». Prima regola dei quartieri di piacere: giocare con l’amore, ma non innamorarsi mai.

Anno nel suo manga riesce a far girare la storia con successo sulla vita all’interno della casa Tamagiku, senza mai far scontare al racconto la claustrofobia di un set così limitato, i giorni e le lunghe notti nella casa da tè con le altre cortigiane, le kamuro, le hikkomi, i clienti, una vita intera spesa per il piacere di altri, lavorando per un debito da non si potrà ripagare mai a meno di incontrare l’uomo potente e ricco che riscatti la oiran, mai davvero proprietaria del proprio corpo e del proprio tempo.

La cortigiana di rango più elevato, nel Giappone feudale, porta il nome di tayū e può essere considerata antesignana delle geisha. Ma mentre le geisha, dalla loro nascita e fino a oggi, sono abili ballerine, maestre di shamisen e strumenti a percussione e canto, le tayū e le oiran sono esperte in altre arti: la composizione di poesia waka, la cerimonia dell’incenso e del tè, la cetra classica, la musica del koto, la calligrafia. Una tayū, dal corpo minuto e volto imbiancato sarebbe entrata in silenzio nella sala facendo frusciare le sete sui tatami, con gli occhi e le sopracciglia bistrati di nero e il labbro inferiore rosso come un petalo di peonia. I capelli lunghissimi in acconciature complicate e voluminose facevano da nido a copricapi d’argento e tartaruga, fiori di seta e madreperla. Avvolta in preziosi strati di kimono antichi, lunghi fino a terra, portava un pesante obi di broccato di seta, la fascia a stringerle i fianchi, annodato sul davanti e con i due capi del nodo a lambirle le ginocchia in ampie volute: quel grosso nodo sul davanti (e non dietro come comunemente si usa indossando il kimono) rappresentava il simbolo della sua disponibilità, anche se solo pochi, abbastanza fortunati o abbastanza ricchi, potevano permettersi di scioglierlo.
Il mondo delle tayū e delle oiran, rispetto a quello delle geisha, era un mondo più buio, fatto di penombra, un mondo «shibui», parola che evoca la sobrietà, la bellezza nascosta associata all’oro vecchio, alla ruggine e alle ombre fugaci. Non a caso, l’ombra nell’estetica giapponese occupa un posto d’onore; «Per prima cosa i nostri antichi ricavarono, nello spazio illuminato dalla luce solare, una chiusa nicchia d’ombra; posero poi, proprio al centro dell’ombra, l’essere più chiaro che conoscevamo: la donna. Perché biasimarli? La chiarezza della pelle era, per loro, il sigillo della beltà femminile. Solo l’ombra poteva proteggerla e darle risalto», dice Tanizaki Jun’ichirō nel suo Libro d’ombra (Marsilio, 2022).

La tayū Sakuragi della casa Wachigaiya di Kyoto. Le tayū, benché pochissime, esistono ancora oggi e, come artiste di grande talento, portano avanti le tradizioni secolari della propria arte, senza prostituirsi più.

Una donna bellissima e agghindata come una bambola, o una regina, con pochi dettagli appena scoperti, un polso, un piede, una piccola porzione di pelle nuda sulla nuca, a ricordare che sotto il pesante strato di kimono si cela una persona; fatto rilevante se si pensa che, in passato, nonostante i lussuosi vestiti, la biancheria di velluto e damasco, i migliori parrucchieri, le cortigiane non erano altro che merce di scambio. In questo mondo di fiori e di salici, per le donne non c’erano bei sogni; ci vivevano e lavoravano, e quando decidevano di andarsene constatavano con rammarico di essere degli uccellini in gabbia. Erano state cedute e portate lì da bambine, cresciute in un caravanserraglio fatto di donne: della vita non conoscevano altro. Nonostante lo sfarzo, erano schiave, vincolate da un contratto alle case da tè e ai bordelli.

Come Kiyoha in Sakuran, molte bambine provenienti da famiglie povere, di contadini o mercanti caduti in disgrazia, venivano cedute o affittate alle case da tè all’età di circa sei anni, ricordando quindi poi molto poco della vita fuori dai quartieri del piacere. Se i contadini erano fortunati ad avere del miglio in tavola, le bimbe dello Yoshiwara mangiavano riso bianco, indossavano costosi kimono e imparavano a conversare di arte nel gergo volutamente affettato tipico del quartiere. In questo modo, però, se una bimba riusciva a scappare, il suo modo di parlare era così facilmente riconoscibile da essere subito identificata e rispedita indietro. Le ragazzine erano di proprietà dei tenutari delle case, arrivando già con il debito della cifra sborsata alle famiglie d’origine. Cibo e vestiario erano forniti dal bordello, ma ogni chicco di riso e ogni rotolo di seta andavano ad aggiungersi al debito iniziale. Quando diventavano cortigiane e iniziavano a lavorare, le ragazze avevano un debito talmente alto da essere costrette a lavorare giorno e notte nel disperato quanto improbabile tentativo di affrancarsi. Cominciare a lavorare coincideva per una ragazza intorno ai tredici anni col mizuage, la deflorazione rituale da parte di un cliente, che per assicurarsi tale privilegio pagava profumatamente.

Il mizuage di Kiyoha segue lo stesso rito: un anziano ed esperto cliente (sì, esistevano esperti in deflorazione, che aiutavano le ragazze a perdere la verginità in modo che ci si aspettava fosse meno traumatico rispetto al rapporto con un giovane irruente e meno delicato) comprerà il suo mizuage per avviarla verso lo tsukidashi, il suo debutto ufficiale; «Il patrono di casa Konō è un cliente affezionato, viene a divertirsi da noi da quando era giovane. Non hai di che preoccuparti» dicono alla giovane le altre abitanti della Tamagiku, «dovrai solo chiudere gli occhi», la stessa oiran che si prende cura di lei, Mikumo, le raccomanderà: «Dovrai solo stare ferma e lasciare fare tutto a lui». I personaggi femminili delle opere di Anno sono eroine capricciose che presentano tratti sia forti sia vulnerabili. Caricano a testa bassa nella vita, avvicinandosi al lavoro e all’amore con uguale zelo, e si rialzano sempre.

La storia di Kiyoha è narrata abilmente attraverso i dialoghi e gli splendidi disegni di Anno Moyoco, mangaka e giornalista giapponese; basato su Sakuran è uscito un live action movie nel 2007, con Anna Tsuchiya nel ruolo della protagonista.

Nata a Tokyo nel 1971, Anno ha iniziato a disegnare manga durante il terzo anno di scuola elementare. Trae ispirazione dal mondo della moda, riempiendo i suoi lavori di abiti eleganti e accattivanti accessori. Le sue illustrazioni si distinguono per l’attenzione ai dettagli, combinando moda popolare e elementi caratteristici dei personaggi, soprattuto nel caso di Kiyoha e della casa da tè.

Anna Tsuchiya nel ruolo di Kiyoha.

In Sakuran, Anno crea abilmente la sua versione dello Yoshiwara disegnando acconciature, vestiti e scenografie, con dettagli magnifici che esaltano la storia senza appesantirla.

L’edizione italiana del fumetto, volume unico per Dynit, nella collana Showcase, sfoggia un elegante formato brossurato di 308 pagine, con le prime tavole a colori; rispetto all’edizione giapponese vanta una dimensione maggiore ma perde purtroppo le tavole colorate all’interno del manga, rese con meno efficacia in scala di grigi, mancando quel forte impatto cromatico che hanno le illustrazioni originali. Un valore aggiunto sulla cura di questa pubblicazione è il ricco glossario dei termini giapponesi, numerosi all’interno del testo.

Sakuran è un fumetto che consente di scoprire scoprire l’asprezza e la ferocia che si cela nel mondo misterioso e ancora poco conosciuto dei quartieri di piacere; il «mondo fluttuante» tanto caro ai poeti, che faceva dimenticare la realtà della vita da samurai, in cui, come scriveva Asai Ryōi nel 1662 nella sua opera Ukiyo Monogatari («Racconti del mondo fluttuante»), «vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sakè, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua: questo, io chiamo ukiyo».

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