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Platone avvertiva giudiziosamente che i suoi scritti non andavano presi sul serio: che quanto aveva lasciato dietro di sé era meno il documento del suo pensiero che un gioco. La parola scritta, temeva Platone, non può rendere il pensiero come la parola pronunciata dalla bocca. Del resto, però, anche la parola pronunciata dalla bocca può essere solo con difficoltà reputata capace di tradurre a pieno il pensiero, il quale può essere anche tranquillamente reputato un fraintendimento della cosa pensata.

Chi scrive come chi parla, dunque, è sempre costretto a confidare nella perspicacia e nella pienezza della facoltà immaginativa di chi lo legge o lo ascolta; è costretto a confidare che costui sia felicemente cosciente che, quanto dirà, è solo un gioco, per quanto reale, per quanto violento: un gioco che coincide con la realtà.
Può sembrare un fallimento che chi scrive come chi parla debba fare più affidamento nell’intelligenza di chi assorbe pazientemente i succhi digeriti del proprio pensiero che nella propria capacità di essere chiaro: e, in effetti, un fallimento lo è, una linea discendente, un’ombra o una macchia bagnata nel tessuto di quelle relazioni, ideologie, ambizioni, mete e raggiungimenti conglomerati nei secoli attraverso il nostro linguaggio e che possiamo chiamare civiltà o, così come fanno alcuni, incubo. Questo fallimento, però, è vissuto come tale solo dalla civiltà quando è un incubo: quando la civiltà è questo sogno pauroso e stralunato, fatto a occhi aperti, fatto con gli occhi cancellati dalla luce chiarissima della ragione (una luce acida come quella di certe albe; gli occhi di una puttana drogata); quando, sto dicendo, la civiltà è questo arare, dissodare, fare fruttare, imballare, aprire strade, lavorare, costruire, crescere, arrivare, consegnare, contare quello che cresce è imballato, cammina sulle strade aperte, e poi contare, contare, dare i numeri, proprio come fanno i matti, non intendo altro che questo, dare i numeri come i matti e, poi, morire pazzi e infestati, con gli occhi sbarrati dalla troppa luce diffusa nel deserto che abbiamo con tenacia praticato.
Se la civiltà non fosse un incubo (ovverosia se l’uomo non fosse stato determinato dalla propria genetica a essere l’animale più curioso e razionale ma meno intelligente, meno capace di comprendere la realtà) riconoscerebbe in questo gioco di luci al neon intermittenti fra fulgide intelligenze notturne, in questa linea discendente, in questa ombra o macchia umida, non un fallimento ma la propria anima. Perché questo incubo ha un’anima: questa è la buona notizia. Questo incubo, la civiltà, secondo me ha un’anima. Questo è il meglio che possiamo trarre da questa catastrofe, e, quindi, ecco perché, a mio avviso, vale la pena di stare qui, e parlare, e cercare di essere anche il più chiaro possibile, conscio che questo non è davvero possibile.

Non si può dare facile accesso a una vissutezza che, attraverso le immagini della mente, risalgano a ciò che non ha nessuna immagine: per questo motivo abbiamo ritenuto utile accompagnare questi appunti con una serie di divaganti note suggestive, che suggeriscano, dunque, altre immagini ancora, mentali come visive, che suggeriscano rimandi, o forse sviamenti, o smarrimenti: nella speranza che il gioco non finisca.

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