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Gian Arturo Ferrari arriva alla Sala blu del Salone del Libro di Torino avvolto nel suo impermeabile burberry, impeccabile, in pieno stile british, un sorriso sornione, solare e ben disteso, come fosse in procinto di grandi bighellonate, di rimpatriate, un po’ di vino buono e qualche chiacchiera da bar. E forse è così che ha considerato il suo incontro durante la kermesse torinese in cui ha dialogato con Sandro Ferri, editore di e/o. Nelle vesti di moderatore, Mattia Carratello, editor di Sellerio che ammette immediatamente, quasi non riuscisse a tenersi più da giorni (con forse una retorica un po’ cattivista in voga anni fa e ora, per fortuna, in fase decadente), che vuole, in quella sede, dar vita allo scontro tra il bene e il male, tra il Ferri, editore di e/o e autore del pamphlet L’editore presuntuoso (e/o, Roma 2021) paladino impavido, innamorato dell’editoria indipendente che ce la fa – non importa come, ma ce la fa – e Dart Fener, interpretato dall’ottimo Ferrari, recentemente in libreria con la sua nuova fatica Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio, Venezia 2023).

Ferri e Ferrari non si conoscevano, così ammettono di fronte alla platea che assiste estasiata e divertita dall’impostazione di Carratello che si sfrega le mani per far partire l’incontro – l’impressione è che possa nascondere dei guantoni da qualche parte sotto al tavolino in truciolato, un gong e qualcuno che urli Adrianaaa al momento giusto – e dopo un’introduzione a metà tra il comico e il grottesco si dà il via al dialogo. All’arbitro-moderatore va tutto storto, nonostante perseveri nella sua arringa in salsa spade laser, Ferri e Ferrari sembrano come quelle capre costrette, nelle località di montagna una domenica all’anno, nei recinti improvvisati, a lottare. Il più delle volte, a tirarsele sono gli stessi pastori che ce le hanno portate, ubriachi come operai inglesi al pub. Le capre snobbano con indolenza il prestigioso riconoscimento di esemplare più bello dell’anno, non hanno nessuna voglia, lì, davanti a tutti, di dare spettacolo, le cornate preferiscono darsele quando vengono ammassate nel recinto comune, dove bisogna sgomitare per un po’ di erbetta, per un po’ di spazio. E forse anche F&F le bordate, le cornate, gli scontri più duri li hanno avuti in un altro tempo, quando dovevano procacciarsi la loro erbetta, pardon, i diritti dei loro libri, chissà, forse a Francoforte. Lì, sul ring, come un gesticolante Carratello continua a chiamare una anonima sala del salone, i due dormono, si danno qualche pacca reciproca, e cercano di uscire al più presto dal teatro in cui sono stati gettati.

L’argomento preferito in questi incontri è sempre il “livello generale in Italia” oppure il “gap con gli altri paesi” e “in America sono così, fanno così”, tutto un provincialismo che viene rivestito di grande internazionalità. Si dice, sicuramente a ragione, che è pieno di editori incapaci e scrittori di bassa lega, di gruppi che cannibalizzano il mercato, di indipendenti troppo fieri di una conquista che sembra più una condanna a uno status che una vocazione o un modus operandi. Ad ogni modo, man mano che ascoltavo, avevo un vago sentore, un serpeggiare strisciante che si è definito in una domanda spontanea, e ovvero: ma se siamo messi così male rispetto agli altri paesi come F&F non perdono occasione di affermare, esattamente, dov’è che stavano loro – che ci avrebbero potuti salvare, beninteso – nei trent’anni precedenti a queste dichiarazioni? Perché da quanto dicono, sono esattamente trent’anni che lavorano in questo ambiente e, immagino, da direttore editoriale del gruppo più grande in Italia, forse, credo io che non sono neanche mai stato a Segrate, forse, dico, qualcosina si poteva cambiare? Forse, ma figuriamoci non sono neanche mai stato geniale, con quattro case editrici sparse in tutto il mondo qualcosa per l’Italia si poteva fare? A quanto pare no, ma la Francia, signora mia, mio caro Ferrari, la Francia con i loro Gallimard che bella, si prostra Ferri agli amici d’Oltralpe, e l’Inghilterra, l’America, terre libere di proliferazioni di bestseller senza collanine o guinzagli intellettuali da snobini europei, si spertica il Ferrari. Emozionante, tutto emozionante. Alla fine, il pubblico torinese che non vede l’ora di applaudire questi due intellettuali di prim’ordine si spella le mani, qualcuno vicino a me addirittura urla un “Bravi!” come fossero trapezisti a cui è appena riuscito un esercizio spericolato. La notizia buona è che è finita.
Ne escono dignitosamente, con grande classe riescono a evitare le domande del pubblico, dannato tempo tiranno, e sorridenti se ne vanno a casa. Le domande, chiaramente restano, ma per fortuna, o purtroppo, gli editori in questo paese – e non solo – non si limitano più a pubblicarli i libri, ma tendono a scriverne. Da capire chi compri i libri sull’editoria se non gli editoriali stretti, ma tant’è, vuoi negare la pubblicazione a Gian Arturo Ferrari? Ferri, manifestamente presuntuoso fin dal titolo, il libro se l’è stampato da solo.
Ad ogni modo, pieno di domande dopo questo grande incontro che sicuramente non ho avuto modo di capire e comprendere io ed io soltanto, i libri li ho comprati, li ho letti e per quel prurito che prende quando si è a contatto con le ortiche, ahimè, ho anche scritto queste due righe qui.

Sono due libri diversi e insieme uguali. Quello di Ferri racconta soltanto (si fa per dire, l’epopea di e/o è e resterà per certi versi un unicum invidiabile nel panorama dell’editoria italiana), in modo totalmente celebrativo della sua casa editrice e del rapporto con gli altri paesi e gli inizi non proprio facili con i conti in rosso e le case ipotecate. Mentre il tomo di Ferrari, anch’esso in larga parte autocelebrativo, ha l’ardire di parlare della storia dell’editoria italiana, anche qui, il termine storia se l’è messo nel titolo. Certo, confidenziale, quindi una storia diminuita, personale, forse intima, ma sempre storia. Forse, e con questo non si vuole sminuire il ruolo di Ferrari e del suo libro che, depurato delle zone incensatorie, resta un ottimo documento, altroché, ma il Professore avrebbe potuto usare altri termini, ma evidentemente la gola miete vittime.

Ci sono poi i libri, le cose interessanti che ci si trovano dentro a voler insistere con la tigna di cui vuole imparare, e nella boscaglia si trova una frase di Valentino Bompiani che non vale il prezzo del libro, ma la fatica di averlo letto:

«I libri li scrive qualcuno, che non è lui. Li stampa, normalmente, un altro, che non è lui. Li vende un terzo, che non è lui. Di suo, di se stesso, l’editore ci mette l’amore. Questo sentimento accompagna l’editore nella sua giornata, lo guida nella scelta, lo distingue e lo sostiene. Di libro in libro va avanti, sempre illuso e sempre consolato, perché ogni volta l’emozione si ripete».

Nel libro del Ferrari, come si vede, c’è da salvare, c’è ciccia, si potrebbe dire con un’orrenda espressione sempre più usata nell’editoria, ambiente così avvezzo a rosicchiare sempre l’osso e quel (poco) che ne resta: c’è ciccia, quindi, c’è un accenno di storia, certo, la storia che interessa Ferrari, quella di Mondadori e Rizzoli di cui il nostro è stato supremo capo.
Leggendo si scopre che Mondadori e Rizzoli provenivano da una «miseria nera, che non si può immaginare» e mal si sopportavano l’uno con l’altro – temperamenti diversi e modi diversi di intendere il mondo – erano tipografi, operai che hanno intuito la possibilità di guadagno e da lì hanno espanso i loro rispettivi piani di sviluppo. L’editoria in questo paese non esisteva, o meglio, non esisteva l’editoria moderna, non c’era un’attenzione al publishing, non c’erano collane e altre categorie che conosciamo oggi, ma a maggior ragione, proprio perché era una materia viva, spregiudicata ed economicamente redditizia, tanto più era importante il fiuto, la rapacità, l’attacco in contropiede. L’editoria era un affare da pirati, qualcosa che veniva spartito tra due uomini che della cultura erano interessati limitatamente al profitto che potevano cavarci. E a guardarli oggi non sembra cambiato molto, con l’aggravante che le redazioni pullulano di chiari editor incensati, soprattutto da sé stessi, anche se, e di questo al buon Ferrari va dato atto, il numero uno di Mondadori disse, durante una riunione a Segrate: «Un po’ per far ridere, un po’ per ribadire il mio ruolo di Dart Fener, quando la tensione si allenta e vedo sguardi persi nel vuoto, lancio qualche provocazione. Colgo il primo pretesto e, ad esempio, dico: “Ma andiamo, editor come voi basta dare un calcio a una siepe e ne saltano fuori dieci”». Da capire chi possa ridere a una frase del genere detta dal capo dei libri di Mondadori, ma vuoi mettere ribadire che si è il Dart Fener dell’editoria? E son soddisfazioni, dai.
Molte le storie salvate e qui tramandate, ma moltissime altre quelle non inserite: non sono neanche menzionati editori che hanno cambiato la percezione della cultura in Italia, non si cita La Nuova Italia, non si cita Mursia, che ha tradotto dal francese e pubblicato tutti i russi fino a quel momento non disponibili per il pubblico che non conoscesse un’altra lingua oltre all’italiano, non si cita l’Astrolabio (nel libro c’è spazio soltanto per l’amata Boringhieri), non si parla del lavoro delle Edizioni di Comunità, citata a memoria solo un paio di volte per parlare di Adelphi, Bazlen e Foà, tutte creature olivettiane.
Ferrari preferisce raccontare le serate a Francoforte, le cene con Mrs Mondadori (lui chiaramente è Mr Mondadori, lo chiamavano così sulla Quinta strada) restituendo al racconto le tinte di un Fleming invece che di un Tacito. Ma, d’altronde, Marsilio o lo stesso Ferrari hanno preferito inserire questo libro nella collana Romanzi.

«America, America! Ci sono già stato diverse altre volte, sempre per lavoro, ma adesso, da capo editoriale della Mondadori, è tutta un’altra cosa. Finito il peregrinare negli ufficietti dei piccoli agenti, alla ricerca di improbabili primizie, vado in visita pastorale dai grandi. Sono anche ricevuto dai publisher delle maggiori case editrici, miei colleghi. Almeno in teoria. Oltre che da editor selezionati. […] Quasi sempre nei miei tour di Manhattan sono accompagnato da Claudia Scheu, capo, per stare alla qualifica ufficiale, della segreteria editoriale e dei contratti, in pratica nostro ministro degli Esteri. È una donna bella ed elegante, con un inglese perfetto e un’aria da ragazza. Il che non manca di giovare. Bella è anche la coppia che formiamo, per gli americani diventeremo in breve Mr and Mrs Mondadori. Ci assimiliamo con facilità ai costumi dell’élite editoriale americana, a quel cordiale intreccio mondano dove non è mai assente l’aguzzarsi dell’ingegno. E, più nascosto, il richiamo dell’interesse».

Graziosi e ben tagliati sono i profili che il Ferrari abbozza sugli attori dell’editoria: Silvio Berlusconi e le sue – almeno – due fasi, prima e dopo l’ingresso in politica, quando perde completamente il suo charme di fronte a librai ed editoriali, Leonardo Mondadori e la sua eterna necessità di affermarsi, Paolo Boringhieri e la devozione di Ferrari. Pagine su pagine per Giulio Einaudi, la sua capacità di non cedere mai, se non quando necessario, alle lusinghe del mercato (quanto manca quella Einaudi, chissà dov’è finita, ora nuota in acqua molto libere, chissà che non sia uno stile). Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli, Roberto Saviano, Giuseppe Pontiggia, Alberto Bevilacqua. E giù fino a Giovanni Agnelli, le sue conferme e i suoi dinieghi sull’eventualità di pubblicazione di un autore, Roberto Calasso e la sua eruttività e aggressività, la grande considerazione di sé, la delusione quando perse il suo premio Strega con Le nozze di Cadmo e Armonia per tre soli voti (prima del Ninfeo aveva il liquore in tasca, poi da quanto riporta Ferrari la quota Newton Compton è riuscita a creare un crepa che si è evoluta in frana… pensa essere Calasso e perdere lo Strega per Newton Compton… A forza di pensare agli altri come scemi si finisce per farne la figura, sembra essere la legge che ne estrapola il Ferrari).

Un discreto rammarico mi ha colpito una volta girata l’ultima pagina di un libro che avrebbe potuto essere e che non è stato; la classica, quasi banale, occasione mancata. Per Ferri, invece, quello di Ferrari è un grande libro, tanto da “intimare” alla sua redazione di andare di corsa a comprarlo per imparare qualcosa. Forse, in fondo in fondo, nel nostro inconscio, vogliamo tutti essere Dart Fener.

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