Skip to main content

Quando ero piccola ero convinta che quel vapore creato dalla mia mano a contatto con il vetro freddo fosse magia. Magia purissima. E in parte lo credo ancora, pur conoscendo un po’ meglio le leggi della fisica, anzi, forse a maggior ragione conoscendole: c’è qualcosa di inesplicabile in quei fenomeni che sì, hanno senz’altro una spiegazione razionale, ma che al tempo stesso sembrano concretizzarsi e manifestarsi così, come appunto per magia. Sono, di fatto, una di quelle persone che crede nell’esistenza della magia: non di quella epica tanto facile da rappresentare in libri e film e serie tv, con bacchette magiche e complessi rituali, ma di quella sottile che ha storicamente ingenerato il folklore, la spiegazione dell’inspiegabile attraverso miti e leggende minori, quella magia che passa per una parola, per un ramo, per una mano posata su un vetro freddo. Ho dunque, da sempre, amato le storie che parlassero di questo tipo di mondi e di trasformazioni. Gli anni della mia preadolescenza in questo senso mi hanno portato fortuna: evidentemente non ero la sola ad essere affascinata dai confini impalpabili, per cui ho avuto modo di incontrare numerosissime storie di streghe «della soglia» – ne cito qui solo due: La figlia della luna di Margaret Mahy e Streghe di Robin McKinley – che ovviamente avevano lo scopo di accompagnare le giovani donne in divenire nella loro fase di crescita e cambiamento più complessa, e di fare pace con tutti i dolorosissimi rivolgimenti interni, reali e metafisici, che iniziano a manifestarsi, dal sangue alle pulsioni sessuali, dai peli alla nascita di pensieri più complessi e talvolta oscuri. Libri per adolescenti, insomma, quella categoria che oggi finisce sotto l’egida/la definizione Young Adult o YA, e che spesso e nel mio caso quasi sempre erano caratterizzati dalla presenza del fantastico.

Le storie che però mi hanno conquistata per sempre e definitivamente, accompagnandomi dall’adolescenza all’età adulta – fisicamente, nel senso che in questo momento si trovano sugli scaffali della mia casa da persona adulta, in una sezione-quasi-altarino dedicata a loro, sono tre, e sono La bussola d’oro, La lama sottile e Il cannocchiale d’ambra, ovvero la trilogia Queste oscure materie di Philip Pullman. Il libro mi è caduto sulle gambe un pomeriggio qualsiasi di un qualsiasi giorno del 2003, grazie a mia madre che ogni tanto, «visto che ti piacciono queste cose» e nonostante lei invece non riesca proprio ad apprezzarle, tornava a casa con un libro che magari le era arrivato in biblioteca (sì, li leggevo prima della catalogazione) oppure che comprava appositamente per me dopo averlo visto esposto o segnalato. Harry Potter era già famosissimo, in casa avevamo tutti i volumi usciti fino ad allora e anzi c’era, tra me e mio fratello, una lotta ad armi impari per il privilegio della prima lettura. Vinceva lui perché era il più piccolo e forse anche quello più adatto quanto a target d’età, e io perdevo due volte, sia per il suo privilegio sia perché era infinitamente più lento di me nella lettura.

Col tempo ho recuperato moltissime storie, scoprendo che alcune, straordinarie, esistevano da ben prima della mia preadolescenza, ma anche che non necessariamente le storie di magia sono e devono essere rivolte a un pubblico giovane o giovanissimo. Di fatto i due libri che ho citato prima li ricordo bene non solo perché li ho riletti di recente, ma perché tolto loro il packaging esplicitamente rivolto a giovani donne in crescita potrebbero essere considerati titoli fantastici per tutte le età. Il passaggio successivo è stato proprio questo, la scoperta del marketing, dei target, delle categorie librarie per le quali molti dei libri che tuttora amo leggere finiscono negli scaffali per ragazzi. Nella molto discussa mostra «Tolkien, Uomo, professore, autore» erano esposte anche le lettere di valutazione di Mondadori sul Signore degli anelli. Uno, emblematico, è questo, del ’62 (si tratta di una seconda ipotesi di acquisizione, successiva a una negativa del ’55): «Per qualche strano equivoco (forse perché Tolkien ha scritto un libro per ragazzi dal titolo The Hobbit) la trilogia è ormai da mesi in esame nel Settore Ragazzi». Ora, addentrarsi nella ricerca delle motivazioni di questo «strano equivoco», che nella lettera coinvolge appieno anche il povero Lo Hobbit, pubblicato poi da Adelphi, sarebbe un’impresa davvero degna di Tolkien stesso. Cerco di riassumerla un po’ a colpi d’ascia. Innanzitutto, nel fantasy si parla di storie di invenzione in cui intervengono elementi del tutto irreali – al contrario della fantascienza dove idealmente sono cose che potrebbero avvenire, tecnologie che potrebbero esistere, qui si tratta di draghi o alberi parlanti o persone che agitando una bacchetta fanno apparire e sparire cose – e il regno dell’irrealtà e della fantasia generalmente non si addice alle persone adulte, che devono invece rimanere coi piedi ben saldi nel presente. C’è poi un’altra questione, piuttosto spinosa, che ha a che vedere con l’egemonia culturale: in Italia – parlo di Italia, qui, non mi arrischio a scavare le egemonie culturali delle altre nazioni – la linea letteraria che si è imposta, studiata, cercata, ha sempre guardato al verismo, al naturalismo e all’impegno politico, lasciando molto poco spazio per gli scarti onirici e stravaganti, che dunque anche editorialmente confluivano nelle pubblicazioni di nicchia o minori – fatto salvo il caso della fantascienza perché molto spesso esplicitamente politica, non a caso la medesima Mondadori che alla fine non ha mai pubblicato Tolkien ha invece sempre avuto un bellissimo catalogo sci-fi, non soltanto negli Urania ma anche nella più prestigiosa Medusa di Elio Vittorini, dove si rinvengono molte opere di Aldous Huxley, per esempio. Tant’è che, appunto, Lo Hobbit uscirà nella Biblioteca Adelphi, dove evidentemente non stettero troppo a interrogarsi sulla questione dell’età.

In Italia la saga Queste oscure materie è pubblicata, assieme a quasi tutte le opere di Pullman, da Salani, che per moltissimo tempo ha primeggiato nella letteratura per ragazze e ragazzi – e ha il merito di aver portato in Italia anche il benedetto mago con la cicatrice a fulmine. Ma non solo le Oscure materie e la sua prosecuzione (ancora in corso: Philip caccia il terzo libro!): Salani di Philip Pullman ha pubblicato anche tutta la, altrettanto straordinaria, saga di Sally Lockhart, più un po’ di storie sparse. Io però conoscevo già il nome dell’autore proprio grazie a Mondadori, che negli Oscar Junior aveva pubblicato abbastanza acriticamente un libro chiamato Un rubino nel fumo, che mi era piaciuto molto anche se non avevo capito proprio tutto, specie per la protagonista Sally, una vittoriana un po’ maschiaccia. Forse anche per quello insomma mi è arrivata La bussola sulle ginocchia, perché il Rubino lo leggevo e lo rileggevo (ma non ci ho capito nulla fino a che non l’ho affrontato dopo i trent’anni, quando ho deciso di riprendere tutta la saga, appunto, di Sally Lockhart e le sue avventure tra fumerie d’oppio, traffici internazionali e rapimenti di bambine). Fatto sta che nell’istante in cui l’ho aperto ho capito che non soltanto lo avrei amato per sempre, ma non me ne sarei più separata. Nel 2003 avevo diciassette anni ed ero decisamente fuori dal target giusto: il romanzo infatti racconta le avventure di una ragazzina undicenne, che poi diventa una tredicenne, e infine una quindicenne. Ma il libro, l’ho scoperto dopo, era uscito in Italia nel 1996, un anno prima di Harry Potter e la pietra filosofale; quando io avevo proprio l’età giusta per immedesimarmi in Lyra Belacqua, la protagonista di Queste oscure materie. Eppure, nonostante le numerose ristampe avvenute, la trilogia di Pullman non ha ottenuto qui in Italia nemmeno metà del successo clamoroso che ha ricevuto in Inghilterra, né un briciolo della notorietà del suo coetaneo con la cicatrice a fulmine. Probabilmente anche colpa di un adattamento cinematografico particolarmente malriuscito, mi sono detta quando ho iniziato a domandarmi perché fossimo in così poche (il femminile sovraesteso qui è voluto, ma ci arriveremo) a conoscere Lyra e il suo mondo. Poi però BBC e HBO hanno prodotto congiuntamente una serie tv sulla quale senza ombra di dubbio sono stati investiti molti molti soldi (stando a Forbes è stata, nel 2019, la serie più costosa della BBC di tutti i tempi), sia per gli effetti speciali, necessari per la rappresentazione, che per il cast decisamente importante: tra gli interpreti principali ci sono James McAvoy, Lin-Manuel Miranda, Andrew Scott, Bella Ramsey. Lyra Belacqua è interpretata da Dafne Keen, la X-23 di Logan e prossima giovane Jedi in The Acolyte. Insomma, quando è uscita la serie ho pensato dài che ci siamo. Dài che finalmente Lyra fa il botto.

E invece no. Non riesce a generare quel tipo di hype, quell’attesa collettiva e spasmodica, quel bisogno di parlarne collettivamente e di condividere fan fiction e visioni e narrazioni. Ma perché? Mi sono interrogata molte volte sulla questione, e sono arrivata a molte conclusioni diverse e tutte incomplete. D’altra parte i successi e gli insuccessi editoriali sono davvero imprevedibili nel loro corso. Però credo che il libro stesso, in un certo senso, non aiuti, ed è per questo che ho fatto quel preambolo infinito sul target e sull’età, più su: La bussola d’oro, e a incrementare i suoi due seguiti, sono libri difficili, tanto che, detrattori a parte, nemmeno la critica britannica si è espressa più di tanto sui libri – certo, ci sono le recensioni di Kirkus, ma nemmeno un critico autorevole si è speso. Ho trovato soltanto un lungo articolo, molto bello, sul New Yorker; mentre nel frattempo la saga mieteva premi e onorificenze: il prestigiosissimo Astrid Lindgren Memorial Award for Children’s and Youth Literature, la Carnegie Medal nel 1995 per La bussola d’oro e il Whitbread Book of the Year nel 2001 per Il cannocchiale d’ambra, tra i molti. Nel 2003, la trilogia si è classificata terza nel sondaggio The Big Read della BBC; Philip Pullman nel 2004 è stato nominato Commander of the Order of the British Empire e, stando al sito del suo editore, Penguin Random House, «è uno dei più noti e venduti autori ancora in attività».

La trama, riassunta alla buona, è questa: c’è una ragazzina, Lyra Belacqua, che vive in un mondo parallelo al nostro, uguale se non per alcune sottili differenze di carattere culturale o tecnologico, a parte una, madornale: Lyra, come tutte le persone del suo mondo, è sempre accompagnata da un animale, un daimon, che muta forma fino al sopraggiungere della maturità della sua persona, quando si stabilizza. Il daimon è del genere opposto alla persona con cui è accoppiato, e le è indissolubilmente legato, ne condivide pensieri e paure. Lyra vive in una Oxford vagamente vittoriana, ospite del Jordan College, un’istituzione accademica in cui lei è l’unica bambina a eccezione dei figli dei lavoranti. Non è orfana, ma è sola (delle ragioni per cui si trova al Jordan si parla in Il libro della polvere, quella trilogia che prima o poi Sir Philip avrà la grazia di completare, nel primo volume, La belle sauvage) ed è una bambina un po’ selvatica, molto avventurosa, incline a sbucciature di ginocchia e spavalderie di ogni tipo. Quando il suo compagno di scorribande, Roger, scompare misteriosamente, lei si mette alla sua ricerca: una ricerca che la condurrà in luoghi sempre più oscuri, e la porterà forse a crescere più rapidamente di quanto sarebbe stato giusto. Solo nel primo romanzo, per dire, il migliore alleato di Lyra è Yorek Byrnison, un orso polare distrutto dalla vita, alcolizzato e depresso, che Lyra aiuterà a rimettersi in sesto permettendogli, in una scena estremamente cruenta, di riprendersi il suo regno. È Yorek che darà a Lyra il suo soprannome, Linguargentina, che lei terrà per sempre sostituendolo al proprio cognome, legato a una figura paterna quantomeno problematica. Sulle tracce di Roger Lyra finisce infatti per ritrovare il padre, un accademico ossessionato dalla scienza (perché sì, l’ambientazione è a tinte vittoriane, ma ha qualcosa dello steampunk) e in piena rivolta contro la divinità e contro il Magisterium, l’ente religioso preposto di fatto al controllo della società e sventa un terribile piano ordito per separare le persone – letteralmente – dalle loro anime. E questo è solo il primo libro: la trilogia prosegue con l’incontro con Will, giovane che appartiene alla «nostra» Oxford del presente, e che è in possesso di un coltello capace di tagliare il velo che separa i diversi mondi, che ha una storia altrettanto traumatica e dura, e che con Lyra viaggerà nel multiverso alla ricerca del proprio, di padre, e forse anche del proprio scopo, di un obiettivo che gli permetta di andare avanti. Il terzo libro non si può raccontare troppo: ha molto a che fare con Mary Malone, una ex-suora e ora scienziata appassionata di I-Ching che appartiene al nostro mondo ma che non stenta a credere a una ragazzina che le spiega ciò che le sta succedendo, e sceglie di aiutarla anche per vivere una sua avventura personale, che ovviamente andrà ad affluire con quelle di Will, e Lyra, e dei suoi genitori, e di tutta l’infinita serie di comprimari, alleati o avversari, destinati più o meno a rimanere nel cuore di chi legge. Quello che si può dire è che il tema della crescita e dell’abbandono traumatico dell’infanzia è trattato attraverso una storia lancinante, e che il libro culmina in una spettacolare battaglia dell’umano contro il divino – che non è però il finale, perché Pullman, memore della lezione di Sam Gamgee, sa che bisogna accompagnare i propri personaggi nel dopo. Ed è un dopo dolceamaro, doloroso, che prevede una decisione inaccettabile per chi legge.

E poi ci sono appunto le «oscure materie», che non sono solo un titolo altamente evocativo e metaforico: l’originale inglese è «dark materials», materiali oscuri, che nel caso della trilogia si traducono in quella che verrà poi denominata «polvere», ovvero una sostanza di inaudito potere che determina… la libertà di arbitrio? Il contatto con la divinità? La stessa umanità e varietà del mondo? La polvere è al tempo stesso una sostanza tangibile e una materia metafisica, è una scintillante polverina che si vede solo attraverso le lenti del cannocchiale d’ambra, ma la si può anche interpretare con gli I-Ching, con il computer o con l’Aletiometro (dal greco aletheia, verità), la bussola d’oro del primo libro, una specie di bussola che però punta dei simboli con i quali, se si è capaci, si può leggere il futuro o il presente. Lyra ne è capace naturalmente, almeno finché non avviene un passaggio specifico; dopo bisogna studiare. La polvere è l’oggetto del contendere di tutta la trilogia, e da ogni personaggio o fazione è avvertita in modo diverso. È pericolosa o non lo è? È il serpente tentatore nell’Eden o è la mela che libera l’uomo? Lyra, dunque, è sul cammino per diventare Eva o Lilith? E chi delle due è buona, e chi cattiva? Ma in fondo, esiste davvero un buono o un cattivo?

Questa è la trama in breve, ed è davvero in breve, e forse inizia a dare l’idea di quanto possa essere un po’ strano pensare alle Oscure materie come un libro fanciullesco, o un libro su cui far funzionare i classici meccanismi che condurrebbero inevitabilmente a un’enorme fama planetaria – nemmeno i daimon possono essere commercializzati, visto che possono trasformarsi, almeno fino all’età adulta, e poi io non voglio il daimon di Lyra, voglio il mio. Chiariamo: non credo assolutamente che i libri per bambine e bambini debbano essere piani o edulcorati, credo però che il mercato, come accennavo prima, faccia fatica a collocare libri di questo livello di difficoltà. Tutto dà a intendere «libro per ragazzine», infatti, e qui torna il femminile sovraesteso: la protagonista è una ragazzina, c’è di fatto una storia d’amore che si sviluppa, ci sono i mondi diversi, le streghe (sì, ci sono anche le streghe, e che streghe! Quanto ho amato Serafina Pekkala credo che lo sappia solo lei), gli animali parlanti, gli angeli, gli spiriti che ti svuotano dalla voglia di vivere e ogni sorta di stranezza meravigliosa. E però c’è una protagonista che porta il cognome di un personaggio dell’Inferno di Dante, e una saga il cui titolo è mutuato dal Paradiso perduto di Milton («… Finché il creatore onnipotente ordini loro / Da queste oscure materie di creare altri mondi…»). C’è il sangue, tantissimo sangue, c’è tantissima morte, e ci sono due genitori che, usando categorie contemporanee, a stento possiamo definire morally grey, e ci sono le scelte di Lyra, non sempre sane, e c’è un linguaggio difficile, che bisogna imparare a conoscere lentamente, talvolta anche dopo più letture – io credo di averne impiegate due e il liceo in cui andavo molto male a fisica per capire che cosa effettivamente fosse la «luce ambarica»: Philip non lo spiega. Philip non spiega nulla. Dispiega tutto, davanti agli occhi di chi legge, dissemina indizi, è arguto e pulito (non è una scrittura difficile o oscura, semplicemente il mondo che lui crea esiste, e di conseguenza non va spiegato, va scoperto). E c’è un’architettura teorica, alla base del libro, che lo rende un libro fortissimamente politico e letterariamente altissimo: se come dichiarato dal cognome di Lyra la base dell’impalcatura è la Divina Commedia e l’architrave è il Paradiso perduto, il risultato, se trattato con cura e attenzione, è una storia stratificata, che certamente si legge, da giovani, tremando per le sorti di Lyra e di Roger, ma che da grandi si legge con l’esaltazione di chi riconosce, lì dentro, il pensiero di una persona che mette in guardia da due cecità complementari, quella dell’assoluta fede nella scienza e quella dell’assoluta fede nel divino, che ricorda che la virtù sta nel mezzo, nella capacità di trasformarsi, di saltare tra i mondi, di porgere la mano e, quando necessario, richiudere anche l’ultima porta.

Ho lungamente citato Tolkien prima, per via della sua incollocabilità di settore, ma l’Inkling che va direttamente citato, nel caso di Philip Pullman, è C. S. Lewis: la critica anglosassone, la poca che ho trovato, ha rilevato più volte come la costruzione dei libri sembri in qualche modo ribaltare quella delle Cronache di Narnia, con il mondo «abituale» che diventa Narnia, e il nostro è il mondo strano in cui si arriva superata la soglia – lì un innocuo armadio, qui una più rischiosa fenditura; ma soprattutto al contrario di Narnia questo è un mondo in cui la morale non è semplice, in cui i ragazzi sono soli, orfani o quasi, decisamente poco amabili, e se non hanno il trauma della guerra mondiale sulle spalle hanno senz’altro svariate altre oppressioni da cui guardarsi. Insomma, in questa chiave il corrispettivo del cristologico leone Aslan sarebbe l’alcolizzato e sboccato Yorek: io lo preferisco mille volte, ma capisco anche che non è esattamente un grande esempio di virtù.

Ho sempre guardato alle Oscure materie come ai libri cui ispirarsi per scrivere romanzi fantastici, la scrittura di Pullman ha fissato molto in alto la barra di quello che richiedo a una storia fantastica; e non è un caso che la cosa più vicina al fantasy (e Pullman stesso afferma che lui «non scrive fantasy, ma che usa il genere per raccontare storie vere», un po’ come Le Guin o Atwood, insomma) che pubblica la mia casa editrice abbia quel medesimo afflato, quello di raccontare non per stupire ma per indagare, per esplorare. Oltre a Maria Gaia Belli, solo un’altra autrice italiana conosco in grado di replicare in me l’incantamento che mi regala Pullman a ogni libro, ed è Francesca Matteoni. Sono libri appassionanti, scritti magistralmente, intelligenti, complessi: Queste oscure materie è un’impalcatura delicata che si regge su molti piani narrativi, molti mondi paralleli, personaggi che non hanno un impianto morale schematico, che non hanno nemmeno la netta percezione di fare qualcosa «per il bene»: agiscono per sopravvivenza. Questo, certo, è un topos del genere: le scelte che segnano la crescita, la dimensione della soglia. Tuttavia c’è, nelle Materie, qualcosa di mobile, oscuro e impalpabile che tocca davvero profondamente le corde di chi sta crescendo, o di chi si ricorda com’era, vivere in quell’età. Dove a volte sì, è tutto bianco accecante o nero di tenebra, ma ci si muove in un mondo di adulti, di zone grigie, in cui districarsi cercando, contemporaneamente, di costruire il proprio destino. Le scelte di Lyra e Will, anche quando epocali, persino quando dolorosissime, non vengono presentate come profonde, mature e coscienti ma, appunto, necessarie per quel momento, per quella evoluzione. Sono scelte di cui ci si può pentire. E questo vale anche per gli adulti, irrisolti e umani, che siano streghe o preti o scienziati o angeli.

Queste oscure materie è una saga in cui i conflitti di genere, di classe, di politica e di religione – quest’ultimo ha peraltro fruttato ai romanzi diversi tentativi di censura, che si riassumono in questo spassoso commento su Goodreads: «Satanism in children’s book disguise. Do not read.» – si riverberano continuamente sulla trama, sui personaggi, anche adolescenti, che sono del tutto immersi nelle circostanze del mondo in cui vivono. Non saprei trovargli una chiave semplice, che lo riassuma in due battute, ed è forse questa la ragione per cui per scrivere questo articolo ho impiegato quasi un anno. E, se non per quello snobismo italiano nei confronti del genere e forse in particolare del genere fantastico, non riesco a trovare una reale risposta alla spiegazione della così scarsa notorietà di Philip Pullman in Italia. Vorrei pensare che è una mia percezione falsata in un immaginario praticamente monopolizzato da quello di Hogwarts, con le problematiche sulla sua spregevole autrice annesse e connesse, e so anche bene che, per quanto a me sembri relativamente poco, le vendite di Philip Pullman in Italia traslate sulle vendite dei nostri libri ci farebbero stappare un paio di bottiglie buone (la trilogia è comunque salda in alto nella top 100 dei più venduti Amazon e in un articolo del 2015 si riporta un 15 milioni di copie vendute in Italia, molto sotto i 450 della Potter Saga però vabbè), però non mi basta, vorrei che se ne leggesse di più, vorrei che se ne parlasse di più, vorrei che finalmente gli si riconoscesse lo statuto di grandissimo, magistrale classico contemporaneo qual è. Questo pezzo perciò si chiude con un duplice invito: a chi legge alto e letterario, di leggere Pullman perché è letterario e alto; a chi legge fantastico, perché Philip Pullman è fantastico.


Illustrazione di Alex Baxter / DeviantArt.

Leave a Reply