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La Brianza è un’entità che riconosci al primo sguardo anche se non l’hai mai vista. Quando hai passato Milano e sali su, in macchina o in treno, capisci immediatamente dove inizia quella terra di “mobilieri e tessili” che ha avuto da qualche anno l’onore di una sigla provinciale ma che è ben al di fuori, al di sopra e al di qua di un territorio circoscritto, laddove il collante non è la geografia ma una mentalità comune, modellata sul lavoro, il senso di sacrificio, il nome sul capannone più grosso e visibile dalla superstrada, un nome che da maschio a maschio si tramanda e lascia le femmine sul ciglio della strada. “Non è una provincia come le altre, come le vostre lì al centro, che voi avete montagne, mare e colline. Qui non c’è niente, neanche più la nebbia”, me lo hanno ripetuto decine di persone nel 2018, quando mi sono trasferita in una delle cittadine che fanno da scenario a Quasi niente sbagliato di Greta Pavan (Bollati Boringhieri, 2023).

Margherita, la protagonista, è nata nel 1990. Per tutto il romanzo (ma è davvero un romanzo?) il calendario scandisce i capitoli in ordine asincrono. Iniziamo a conoscerla nel Duemilauno quando ha undici anni e già saltiamo indietro al 1998, quando di anni ne aveva 8. Queste tappe raccontano la sua crescita e il suo rifiuto, la sua lotta inerme e gli sconquassi interiori. Margherita è femmina e nasce dunque già con una colpa e una menomazione che suo fratello Riccardo, l’atleta, il vincente, non ha. Su questo fratello s’addensano aspettative: di ricchezza, di nome, di prestigio. Su Margherita nessuno scommette, non c’è molto che debba fare: se proprio vuole può diplomarsi, poi dovrà andare alla ricerca di un lavoro stabile, fisso, a tempo indeterminato. E su questa capacità di trovare un lavoro, che corrisponde al tuo posto nel mondo e nella società, evolve il personaggio di Margherita, figlia della precarietà che nei primi anni del Duemila ha colpito perfino la ricca Brianza. Per lei non esistono speranze, inclinazioni, aspirazioni, Margherita non viene cresciuta per averne e, se ne ha, sono pretese. Di fatto non vive la pressione di “diventare qualcuno” e dare lustro al nome di famiglia, vive la costante frustrazione di non riuscire ad inserirsi in un sistema che la disgusta, provocando lo sconcerto di chi le sta vicino. Non ti si chiede nulla, Margherita, solo sorridi un po’, fatti una risata, smetti di polemizzare con lo zio Lott e vedi di non farti bocciare a scuola.

I nonni veneti in Brianza si sono portati dietro l’unica cosa che sapessero fare: lavorare. E l’hanno fatto finché hanno avuto di che respirare. Il padre di Marghe è un sindacalista sempre più frustrato e disilluso, perfetta rappresentazione di quella sinistra a metà anni Duemila incapace di mollare gli anni ’70 e al tempo stesso orfana di qualunque nuova linfa vitale. La madre lavora, fatica, annaspa, dopo la separazione dal marito tutto il peso della cura ricade su di lei. Margherita li osserva ed è l’unica che vede, nota e già che c’è annota: la madre che cerca di dimagrire, il padre che ha ancora l’orecchino come un ragazzo di vent’anni, il fratello che vorrebbe mollare il ciclismo ma resta a recitare il suo ruolo di primogenito promettente, lo zio prepotente, ignorante, fascista di impostazione seppur non per cultura, quel fascismo delle brave persone, insomma, quello che passa per buonsenso o esasperazione, a seconda di quanti immigrati  siano stati aggrediti nell‘esprimerlo.

Eppure Margherita un’aspirazione ce l’avrebbe: vuole fare la giornalista e vivere a Milano. E avrebbe anche una professoressa al suo fianco, pronta a guidarla nella tentacolare città, nella scelta obbligata dell’unica università pubblica in cui poter studiare Lettere. Nell’ultimo capitolo, Margherita “ha ventidue anni nel duemiladodici” e lì la sua storia si ferma in maniera secca ma non imprevedibile, in maniera violenta e drammatica come solo una storia di provincia che esplode in città può chiudersi.

Quasi niente sbagliato non ha bisogno di molto aggettivi: è un bellissimo romanzo. È costantemente avvolto in una patina appiccicosa e nauseante che ricorda i cieli brianzoli in piena estate, quando l’afa non cala neanche di notte e non c’è un solo angolo in cui la violenza dell’ambiente non ti raggiunga. La storia di Margherita ha la stessa metafora di base: ovunque andrai, avrai quella patina. Estranea in casa tua perché quei valori declamati sono per lei feroci assetti sociali in cui è impossibile vivere; estranea nella metropoli milanese, perché “quelli che vengono da fuori li riconosci subito”, anche se quel “fuori” dista appena 25 km. La provincia paranoica ti segue sempre. Tuttavia, sarebbe troppo semplice derubricarlo a romanzo su quella provincia disumanizzante «a venti chilometri in automobile dal lavoro e dal supermercato» come l’immaginaria Cortesforza dell’Ubicazione del bene di Giorgio Falco. Qui non c’è finzione che tenga, abbiamo un racconto in cui l’autenticità dei luoghi è centrale e la sensazione di oppressione schiacciante. Realtà più che realismo, e se anche dovesse trattarsi di romanzo provinciale, allora dovremmo concordare con Berardinelli quando sostiene che «la migliore narrativa è quasi sempre provinciale, anche Don Chisciotte e I fratelli Karamazov, anche Faulkner e García Márquez raccontano storie di provincia».

Non è solo una questione di luoghi ma di cultura profondamente radicata nella terra che calpesti e nell’aria che respiri; come dice la mamma di Margherita, in una delle rarissime reazioni all’ottusità da possidente del cognato Lott, che lamenta di dover concedere ferie e permessi ai suoi operai e deve costantemente controllare che non usino più carta e sapone del dovuto “Ci sono questioni che non sono tue. Non sono tue e non puoi capire, cosa voglia dire cercare un compromesso. Perché tu sei nato quadrato e per te il mondo è quadrato. Ma se fossi nato cerchio. Se fossi nato cerchio”.  È l’unico momento in cui madre e figlia vocalizzano nello stesso momento e nello stesso modo un malessere strutturale, in cui il problema non è la mentalità, il luogo, la provincia, il lavoro, l’educazione ma tutto questo mescolato insieme.

Greta Pavan è un talento vero. Si trova un’eco di Claudia Durastanti ma laddove Durastanti trova pace e tenerezza con le sue radici, Greta scava e soffre. La scrittura di Pavan è drammatica ma mai disperata, ogni capitolo potrebbe essere l’incipit di altrettanti romanzi. Abbiamo davanti una scrittrice vera, si intuisce lo studio e al tempo stessa la naturalezza nella scelta delle metafore, dei termini, un dosaggio chirurgico eppure schietto, vero, reale. Tutto il romanzo è attraversato da una severità inedita per i tempi svogliati che viviamo. Pavan scrive non una parola di troppo, non una di meno. Non un solo personaggio superfluo, non un solo brano che potesse essere lasciato fuori. Nessuna nota ridondante, come in Brianza.

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