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Il debutto della regista gallese Prano Bailey-Bond è una lettera d’amore agli horror in VHS

«La gente pensa che io crei l’orrore, ma non è così. L’orrore è già nel mondo reale, dentro a tutti noi» [Frederick North]

Negli ultimi anni il cinema mondiale sta riscoprendo il genere horror, che a colpi di successo sta mutando in un vero e proprio linguaggio capace di raccontare storie complesse e metafore sociali senza fare affidamento ai soli jump scare necessari a giustificare l’inserimento nella categoria. Così sono arrivati successi commerciali e di critica come Get Out di Jordan Peele, Hereditary e Midsommar di Ari Aster, It Follows e molti altri; a fianco di queste grosse produzioni abbiamo la fortuna di avere film come Censor, primo lungometraggio della regista gallese Prano Bailey-Bond.

Presentato al Sundance Film Festival del 2021, Censor è un omaggio non solo agli autori e ai film horror, ma anche all’estetica propria dell’epoca delle VHS. Ambientato in Gran Bretagna tra la fine del 1984 e l’inizio del 1985 (un televisore è sintonizzato sul discorso del 12 ottobre 1984 di Margaret Thatcher dopo la bomba al Brighton Hotel) è stato scritto dalla regista e da Anthony Fletcher. I fatti si svolgono durante il periodo di panico creato attorno ai “Video nasty” (tradotto nel film come “Video osceni”), ovvero un allarmismo finalizzato alla richiesta di censura di film horror e non solo, che secondo parte dell’opinione pubblica avrebbero portato a una crescita della delinquenza e al decadimento morale soprattutto dei giovani. L’indicazione di questo capro espiatorio ovviamente andava a nascondere elementi più concreti ma difficilmente contrastabili nell’immediato, come la disoccupazione (cresciuta molto all’inizio del decennio e poi calata) e le politiche di smantellamento del welfare state messe in atto dai governi Thatcher, che alimentavano crescenti disuguaglianze sociali.

Questa è la cornice all’interno della quale l’addetta alla censura Enid, interpretata dall’attrice irlandese Niamh Algar, lavora meticolosamente e orgogliosamente. Lavorando per conto di una non specificata agenzia che dovrebbe però essere la British Board of Film Classification (BBFC), sente di proteggere il pubblico dalle scene più cruente che gli capita di esaminare. Il senso del dovere è amplificato dal senso di colpa per la scomparsa della sorella in circostanze mai chiarite, circa vent’anni prima. Quando a Enid viene assegnata la censura del fittizio Non entrare in quella chiesa riconosce la sorella nella protagonista Alice Lee, decidendo di investigare sul misterioso regista Frederick North e sul viscido produttore Doug Smart. Nel terzo atto assistiamo al progressivo intreccio tra vita, ricordi e film, a discapito della sua salute mentale, perché come le dice un collega «È sorprendente come il cervello modifichi le cose quando non riesce a gestire la verità». Senza accorgercene ci ritroviamo a vedere un film le cui proporzioni si sono ristrette lentamente dal formato 2.35:1 Widescreen Cinemascope, a un quasi quadrato 1.33:1, proporzioni utilizzate nei VHS. Riuscirà Enid a creare il suo lieto fine? Il terzo atto lascia allo spettatore vari piani di interpretazione, così da lasciare spazio di riflessione e discussione.

Niamh Algar in CENSOR, a Magnet release. ©CPL/SSF. Photo credit: Maria Lax. Photo courtesy of Magnet Releasing.

Ispirazione e realizzazione

La regista e co-sceneggiatrice Prano Bailey-Bond ha dichiarato che l’ispirazione per il film è scaturita dalla lettura di un articolo sull’era dei film horror della Hammer – casa produttrice che tra gli anni ’40 e ’70 ha sfornato parecchi cult del genere, spesso con Peter Cushing e Christopher Lee come protagonisti (La maschera di Frankenstein, Dracula il vampiro e La mummia per citarne alcuni) – e da un commento sul fatto che gli addetti alla censura dovessero cercare e tagliare scene in cui c’era sangue sul seno delle attrici, perché la vista di tale scena avrebbe avuto come effetto un aumento delle violenze sessuali da parte degli uomini. Chi doveva censurare i film aveva il compito di eliminare le scene troppo violente o in generale problematiche perché avrebbero scatenato nel pubblico pulsioni violente; da qui il paradosso: se questi film erano tanto pericolosi, cosa accadeva a chi li doveva censurare?

Dalla visione di Censor traspare che Prano Bailey-Bond è riuscita a creare una fusione tra i due principali modi di fare horror dell’epoca: quelli più tendenti al giallo-poliziesco europei e gli slasher ambientati nelle campagne che spopolavano negli Stati Uniti. Un’operazione possibile solo a una regista appassionata del genere, con un contributo fondamentale della direttrice della fotografia Annika Summerson, della production designer Paulina Rzeszowska e della costumista Saffron Cullane che contribuiscono alla riuscita creazione dell’ambientazione negli anni ’80. Non sorprende che la regista abbia citato Dario Argento, Lucio Fulci e Sam Raimi tra i registi di cui ha ammirato le opere crescendo, interessata anche al clamore che suscitavano i loro film.

Prano Bailey-Bond, director of CENSOR, a Magnet release. © CPL/SSF. Photo credit: Maria Lax. Photo courtesy of Magnet Releasing.

Niamh Algar e l’evoluzione di Enid

In origine Prano Bailey-Bond aveva pensato a un protagonista maschile, ma come dichiarato al podcast Evolution of Horror, questa opzione avrebbe legato il film più a una violenza di tipo sessuale «che penso sia uno spazio molto interessante da esplorare, ma non era quello che intendevo esplorare io». Fortunatamente la parte è andata a Niamh Algar, già parte del cast di film come L’ombra della violenza e Il prodigio, e delle serie Pure e Raised by Wolves. Protagonista e regista si erano già incontrate nel 2018 perché entrambe nominate Screen International’s Stars of Tomorrow ma non avevano ancora collaborato.

La personalità di Enid e la sua evoluzione vengono costruite minuziosamente da Algar, aiutata dall’impeccabile costumista Saffron Cullane e dalla truccatrice Ruth Pease: inizialmente Enid è molto precisa, con capelli sempre a posto e vestiti sobri, con colori che sembrano mimetizzarsi nell’ambiente di lavoro. Enid è sola, non ha amici e non ha un gran rapporto con i genitori a causa di quello che non riesce a ricordare del giorno della scomparsa della sorella. Mette tutta sé stessa nel lavoro e a pranzo con i genitori è molto chiara: «Non è un gioco mamma, io proteggo le persone». È sempre calma, e nonostante le macabre scene che deve vedere, non traspaiono mai emozioni. Altri colleghi sono preoccupati o colpiti dai video che devono analizzare, cosa che emerge nel dialogo con Anne, «Che problemi hanno questi registi?» chiede. «Inadeguatezza maschile, vendetta e catarsi» risponde sorridente Enid come se avesse la risposta pronta da tempo. «Non ti dà fastidio? Certe scene erano veramente eccessive» insiste la collega, ma «Voglio fare bene il mio lavoro, non riesco a pensare ad altro» conclude Enid. La sua compostezza dura fino a quando crede di vedere la sorella scomparsa in uno dei film che deve controllare. In quel momento gli occhiali, che fino ad allora erano un filtro, una maschera che l’aiutava a mantenere la distanza e uno sguardo obiettivo sulla realtà, vengono tolti e non verranno più rimessi. L’elemento del vestiario più rappresentativo diventa ora il cappotto che indossa come un’armatura e richiama quelli di detective famosi, perché ora è alla ricerca di informazioni sul produttore e sul regista del film in cui ha visto la sorella. Algar tiene a freno le nevrosi di Enid per tutto il tempo necessario, lasciando trasparire il nervosismo stuzzicandosi le pellicine delle dita con le unghie ed evidenziando quando è il momento di ricalibrarsi e ripartire, rimettendo in ordine la camicetta sulle spalle.

Con il declino delle condizioni mentali della protagonista il suo mondo sta collassando, e questo si riflette sul suo aspetto esteriore: le occhiaie si fanno sempre più marcate, i capelli sempre più disordinati e i vestiti più informali, i capelli sembrano scurirsi in contrasto con la carnagione che è progressivamente più pallida. Alla fine del film l’io di Enid è in pezzi e lei rimane con una vestaglia sporca di sangue e fango, con i capelli disordinati, una persona completamente diversa da quella di inizio film.

Niamh Algar in CENSOR, a Magnet release. © CPL/SSF. Photo courtesy of Magnet Releasing.

Cosa sono i “Video nasty”

“Video nasty” è un termine reso popolare dalla National Viewers’ and Listeners’ Association (NVALA) britannica in riferimento a film, in maggioranza horror, spesso a basso budget, in particolare di genere splatter ed exploitation, caratterizzati da violenza ritenuta inaccettabile da associazioni religiose e da parti della politica e della stampa. Durante Censor ci vengono mostrati i titoli dei tabloid fittizi che legge Enid: il London Reporter titola «Crime on the rise: Video nasties to blame» (Criminalità in aumento: è colpa dei Video osceni) mentre il Weekly Gazzette titola «Censors to blame? Video nasty inspires gruesome murder» (La colpa è dei censori? Video osceno ispira un omicidio orribile).

I tabloid durante il panico morale dei “Video nasty”, via bookofthedead.ws

Per un periodo questi film riuscirono ad aggirare le leggi sulle classificazioni ed evitare il BBFC perché destinati direttamente ai videonoleggi, risultando disponibili senza censure a un pubblico di qualsiasi età. La fase culminante di questo fenomeno avvenne tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 con la diffusione delle videocassette nelle case britanniche. Il progresso tecnologico contribuì in qualche misura al panico morale, dato che una volta acquistata una VHS, si poteva guardare molte volte. La lista di “Video nasty” fu compilata e aggiornata regolarmente, con alcuni film che venivano banditi o pesantemente tagliati, e una serie di processi giudiziari nei quali alcuni distributori furono accusati di “commercio osceno”; questa lista includeva titoli divenuti cult come Cannibal Holocaust, Driller Killer e Non violentate Jennifer. Attorno ai “Video nasty” si era creato il panico morale che a ondate coinvolge diversi aspetti delle industrie dell’intrattenimento: negli anni ’60 il problema era il Rock and roll, negli anni ’70 gli hippy, negli anni ’80 i film horror, poi sostituiti dai videogiochi e dal metal fino all’arrivo dei social media, in una continuità di accuse da volgere verso le generazioni più giovani per non dover approfondire le complessità di ogni periodo, ma come dice giustamente il regista Frederick North in Censor: «La gente pensa che io crei l’orrore, ma non è così. L’orrore è già nel mondo reale, dentro a tutti noi».

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