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Chissà se c’è un senso – forse bisogna andarlo a cercare – in questo (quasi) improvviso revival degli anni Ottanta che sta investendo grande e piccolo schermo. È da un po’ di anni che, andando al cinema saltuariamente, non può non capitare di vedere l’ennesimo cartellone di un remake/sequel/spinoff di qualche cultone di quel decennio. Ecco, spesso la qualità non è (eufemisticamente) delle migliori. Prendiamo il Ghostbusters al femminile dell’anno scorso; povero d’idee, povero di divertimento, di colore, di originalità. Ecco, l’originalità è (eufemisticamente) un discreto problema.

Vuoi fare un Ghostbusters al femminile? D’accordo. Anzi: idea meravigliosa. Però, se parto dalla domanda Ma se quei quattro maschi fossero stati invece femmine, cosa sarebbe cambiato?, mi aspetto di trovarmi davanti una qualche tipo di ricerca culturale che sappia rilanciare un’icona pop in una luce inedita. E invece… invece produttori e sceneggiatori hanno evidentemente pensato che bastasse invertire vagine con peni (come se la differenza maschile/femminile si limitasse a quello e ci si potesse dimenticare di tutte le valenze storico-culturali di questa opposizione) e aggiungere la facile comicità pacchiana e caciarona made in Marvel (anche questa discendente dagli eighties, ma svuotata di acume e novità).

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Svuotamento. Il termine è calzante; in fondo, gli anni Ottanta non sono altro che una rivoluzione svuotata della sua profondità, l’attimo in cui l’idealistico noi possiamo si trasforma in io voglio. Sono quegli anni in cui i binari del popolare e del socialculturale cominciano a dividersi. Gli anni Ottanta sono miriadi di identità individuali, l’esplosione finale di un fuoco d’artificio, quel momento in cui i suoi zampilli di luce sono più lontani gli uni dagli altri. Il momento in cui stanno per spegnersi.

In tal senso, cosa c’entrano con gli anni che stiamo vivendo? In questo revival c’è sicuramente nostalgia, disimpegno, carenza d’idee. Ma nel mezzo c’è stato tutto. Il soffocante dilagare della globalizzazione e del World Wide Web, l’unità d’Europa, l’11 settembre, gli scricchiolii (pre-mortem?) di una visione sregolata e tirannica dell’economia capitalista, ci sono state guerre lampo, disastri, una rivoluzione tecnologica che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Nel bene e nel male, siamo nella china discendente della nostra era, segnata dall’autoconsiderarsi postmoderna e postcontemporanea, come se non potesse avere un futuro. In questa prospettiva è comprensibile il perché di questa ondata: gli Ottanta rappresentano la fuga in un tempo altro che, per scelta stessa del presente, può essere soltanto il passato. E che passato migliore di uno disimpegnato, facile, dove tutto sembra possibile, senza il peso di ideologie ma con la forza delle possibilità?

Ma è troppo facile limitarsi a questi aspetti. Perché, al di là delle somiglianze, ci sono indubbiamente differenze stilistiche, culturali, concettuali che emergono dai nuovi eighties, e denotano una personalità e un’inflessione assenti dalla cultura di trent’anni fa. Prendiamo la serie più riuscita degli ultimi anni che si rifà a questo filone: Stranger Things. Il genere è quello molto in voga appunto negli anni Ottanta: un gruppo di ragazzini attorno ai dodici-tredici anni che si ritrova invischiato in avventure e pericoli molto più grandi di loro. Possiamo pensare al King di Stand by me e IT, ai Goonies, all’ET di Spielberg; ma ci sono tutta una serie di elementi attorno a questo nucleo che rimandano ad altre forme pop-culturali di quel periodo: dal teen horror (Nightmare e Venerdì 13) al teen drama, dai poteri ESP alle sperimentazioni segrete governative (siamo pur sempre ancora dentro la Guerra Fredda), da una distopia urbana e decadente (I Guerrieri della Notte, il Gilliam di Brazil) agli altri cult-pop del periodo (appunto Ghostbusters, D&D e Star Wars).

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A differenza del nuovo Ghostbusters, poi, Stranger Things è più fedele alla comicità anni Ottanta. Niente battutine acide che ammiccano al pubblico; ci si gode comunque gli spassosi dialoghi tra ragazzini, di una comicità che rimane lì, che non vuole far ridere per forza, che ha un ché di ingenuo, di autentico ed è per questo più tiepida. Ma non meno vera.

Si respira un clima disimpegnato. Nella prima stagione uno dei ragazzi viene trascinato in un mondo altro, abitato da ombre e strane creature: l’upside down. Un mostro (rinominato dai ragazzi Demogorgon come un demone di D&D) comincia a prendere di mira la tranquilla cittadina di Hawkins (soprattutto adolescenti). Clima teen horror classico, tenuto a meraviglia, con un’ottima Winona Ryder (la madre di Will, il ragazzino finito nell’upside down) in grande spolvero. Nel frattempo però il gruppetto di preadolescenti incontra una ragazzina fuggita da uno strano laboratorio governativo in città. Non ha un nome, la chiamano Eleven, come il tatuaggio che ha sul braccio. Eleven ha dei poteri straordinari che le permettono di muovere gli oggetti con la sola volontà. Quello che ora i tre amici dovranno fare, è cercare di capire come recuperare lo scomparso Will e di fermare il mostro che minaccia la tranquillità delle loro vite.

Questa la traccia della prima stagione. La seconda riprende sullo stesso tono, ma con meno tensione. L’escalation di atmosfere e svolgimenti ha poco del teen horror ma richiama più film più leggeri come Tremors. Una chicca del cast: l’uomo con cui esce la madre di Will è Sean Astin, ex Samwise Gamgee e, soprattutto, ex Mikey dei Goonies. Il revival anni Ottanta è presente e intenzionale. I problemi sono sempre i soliti: Will ha visioni dell’upside down dove è perseguitato da un enorme mostro fatto di fumo e tenebre, sua madre è preoccupata e lo porta da un’analista, gli strani esperimenti continuano, i quattro amici credono Eleven morta e non sanno cosa fare. Tutto perfettamente pronto per una nuova catastrofe.

Una delle cose più particolari della seconda stagione è una puntata (la settima) in cui Eleven va a cercare tracce della sua vita passata. Qui l’ambientazione cambia drasticamente: dal paesino di provincia ci si ritrova in atmosfere urbane, degradate, con una compagnia di criminali-punk che cerca di uccidere chiunque abbia contribuito agli esperimenti su Eleven e le sue compagne. Tra i criminali c’è anche una di loro, che possiede poteri paranormali, proprio come lei. Unirsi o non unirsi alla vendetta? In questo interrogativo c’è più di un semplice dilemma di personaggio: c’è un intero dubbio generazionale, e forse anche una coscienza di genere. Perché queste ragazze, queste donne di questa nuova ondata di eighties (ne è un esempio anche la splendida Charlize Theron di Mad Max: Fury Road) hanno qualcosa di diverso rispetto alle loro controparti di trent’anni fa. Se nei Goonies le due ragazze erano comprimarie che si mettevano a urlare al minimo segnale di pericolo, se le bionde dei teen horror erano stupida carne da macello o vergini angeliche (cfr. Quella casa nel bosco), se le ragazzine dei film d’avventura erano perlopiù smorfiosette, in Stranger Things no. A differenza del citato Mad Max e del recente Wonder Woman, poi, qui si rifiuta anche il modello Lara Croft. La donna non ha bisogno di essere fisicamente prestante o di indole avventurosa per essere forte. Lo è in quanto donna.

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La nuova generazione di artisti – a cui gli ideatori della serie Matt e Ross Duffer appartengono – se da un lato ha una quasi venerazione per gli Ottanta, dall’altro ne rifiuta gli stereotipi di genere. Sono femministi in un senso profondo: non si illudono che una parità si possa attuare attraverso l’uccisione della femminilità. Invece, vedono come unica via una riscrittura del binomio uomo-donna. La donna così è prima di tutto persona, non più costretta a porsi come alternativa al maschile, ma invece portata a negare alla base il dualismo di genere in cui la (e ci) costringe la nostra cultura patriarcale. E ha in sé, nello sguardo di questi artisti – vuoi per motivi storico-culturali, vuoi per motivi intrinseci – una forza sconosciuta agli uomini. I quattro ragazzini protagonisti sono inermi davanti ai ragazzi più grandi, mentre invece la piccola Max (il nome non è casuale…) ha il coraggio di affrontare qualunque cosa. Lo sceriffo David Harbour si scoraggerebbe in fretta se non fosse per la forza straordinaria di Winona Ryder che lo sprona a non mollare. Infine, davanti ai mostri, tutti i soldati, i poliziotti, le armi sono perfettamente inutili. Solo Eleven li può affrontare. E solo le ragazze (per quel che abbiamo visto fino a ora) possiedono superpoteri. Questo ultimo particolare – non unicum – è senza dubbio interessante se ci guardiamo attorno in questo momento. Al cinema Wonder Woman fa il pienone. In letteratura Naomi Alderman risponde alla distopia della Atwood del Racconto dell’ancella con la distopia Ragazze Elettriche dove tutte le donne, sin dalla tenera età, sviluppano il potere di dare la scossa a piacimento. Stranger Things mantiene questa linea: per quanto i protagonisti siano ragazzini (come vuole il topos del genere), sono le figure femminili ad aver più centralità, a muovere la trama nel senso più positivo, a essere le chiavi di volta dell’architettura di questi nuovi eighties. Ecco, in questo senso l’evoluzione dagli anni Ottanta è profonda, strutturale, e forse – se prendiamo a confronto la visione caricaturale e approssimativa del nuovo Ghostbusters – è proprio questo aspetto la spia di una visione più aggiornata e in linea con una coscienza culturale più al passo coi tempi.

Torniamo alla settima puntata, e al suo stacco dal resto della stagione. L’ottava e la nona si riallineano in toto con l’atmosfera da cittadina provinciale. L’effetto è disorientante. Una sola puntata di questo genere rischia di stridere con l’atmosfera più tenue (anche se è un horror…) del resto della stagione, e ci si trova per forza a chiedersi il motivo di questa scelta.

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Ecco, chiediamocelo: perché? Al di là dell’omaggio a tutto un genere di filmografia, possiamo rivedere sul fondo un legame ben preciso con la nostra epoca. Se gli Ottanta sono stati un fuoco d’artificio, questo secondo decennio degli anni Duemila è un momento di ripensamento, per cercare di riabituare la vista al buio del cielo. Così, se i Goonies si lanciano all’avventura, se Elliot diventa amico di un alieno (e, addirittura, nell’altro cult spielberghiano sul genere, il protagonista Roy sceglie di lasciare il suo pianeta per viaggiare tra le stelle), per i nostri ragazzini di Hawkins, tutto ciò che non è Hawkins è qualcosa di oscuro, pericoloso, infestato di criminalità. Un’Eleven di trent’anni fa non c’avrebbe pensato due volte a lanciarsi in una vendetta, magari cercando di coniugarla con una facile morale, ma sempre spingendosi oltre i confini del proprio passato. La Eleven di oggi no. Torna sui suoi passi. Ha paura del mondo, della follia, del degrado, del male che gli uomini si fanno gli uni con gli altri. Ne ha forse ribrezzo. La sicurezza non è barattabile con l’avventura. La vita non è barattabile con la novità. Questo sembra essere il monito. Umiltà, accettazione dei limiti propri e di tutta l’umanità, e del fallimento di modelli troppo idealistici.

La nuova ondata di registi (e artisti in generale, come ad esempio Zerocalcare che con molti elementi di Stranger Things ha tanto in comune) vede gli anni Ottanta con nostalgia, ma anche con disincanto. Sono l’infanzia passata, un museo contenitore di sogni e ombre. Un museo riarredato e ripensato per questa nuova epoca, con contenuti diversi, sempre centrati sull’individuo ma più contemplativi che esplosivi. Vi è, in questa rivisitazione di oggi, la morte del meraviglioso ma non dell’oscuro. Anzi: l’oscuro è padrone di tutto, fuorché della nostra coscienza. E, nel nostro chiuderci in noi stessi, nel nostro non riuscire più a distinguere eroi da mostri, abbiamo il grande privilegio di riconoscere la nostra umanità. Ecco: se gli anni Ottanta sono il momento in cui potevamo essere ciò che volevamo, l’oggi è quell’istante in cui vogliamo essere soltanto ciò che possiamo essere.

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