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L’avvento di Gregor Samsa tra le divinità sotterranee della contemporaneità ha mutato per sempre il segno delle cose e il corso della mia vita. Se la letteratura è anche memoria degli accadimenti personali, ciò che ancora galleggia sul filo del ricordo a proposito della famiglia Samsa è la sensazione di un perenne, isterico formicolare. Ma non si tratta delle nuove articolazioni sorte nel corpo reietto del protagonista di Die Verwandlung, bensì di un movimento indistinto sullo sfondo, il nascondersi fuggendo di un’entità innominabile.

In realtà ho sempre pensato che la metamorfosi di Gregor Samsa rappresentasse in sé un diversivo, un falso alibi utile a depistare il lettore. La paranoia mattutina dell’uomo terziario, i riti demenziali delle sveglie lavorative, la dialettica triste degli affetti, la puntura inflitta dai propri complessi di svalutazione: tutto questo sopravviveva e conviveva con la miracolosa trasformazione in insetto, anzi, a suo modo ne era la premessa e il motore insieme. Qual era stata la prima azione di Gregor Samsa da sveglio? Mappare il corpo per sempre trasfuso nel proprio bestiale simulacro, quasi fosse un continente nuovo, una terra di conquista alla quale imporre subito l’ordine della conoscenza («…sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso un tanti segmenti ricurvi…»). Nessun interrogativo sulla causa dell’evento, bensì sulla sua misura, sulla sua adattabilità all’ossessione dei giorni sempre uguali, edificati pazientemente con biblica fatica. Il paradigma quotidiano appariva dunque come il vero protagonista di Die Verwandlung, l’humus di quel pullulare osceno che si percepiva in ogni singolo quadro, in ogni battuta della cattedrale kafkiana. E nulla aveva significato se non quel che accadeva nella strettoia di una vicenda completamente de-allegorizzata. Fuori dalla membrana opaca insistevo a domandarmi: perché? E mentre interrogavo l’oracolo del racconto, l’uomo era già precipitato nella corazza dell’insetto con una rassegnazione più spaventosa della metamorfosi stessa.

Lo shock inoculato dall’incipit de La metamorfosi fu un evento originario, una nascita. Segnò subito l’insorgenza di uno stimolo alieno, mutando nel profondo il sentimento di attesa rivolto alla scrittura e al suo coincidere, a volte, con l’eversione. Lo sbocciare in insetto di Gregor Samsa era un fenomeno impuro e assoluto. Un evento che esauriva l’umano, completandolo.

Poi, un giorno, mi sono imbattuto nella storia di un distinto signore affetto dal particolare disturbo di vomitare conigli vivi. Si trattava del protagonista di Lettera a una signorina a Parigi, capitolo secondo di quel continente di ombre per brevità chiamato Bestiario di Julio Cortázar. La superficie della Storia è incisa da solchi più o meno profondi, spaccature che diventano gorghi e nei quali precipitano le relazioni di senso, le corrispondenze. E così dopo Franz Kafka un’altra Pizia del quotidiano oltrepassava la soglia del mito, anche se da vicino assomigliava di più all’angelo di Klee, sparato nella proiezione illusa del futuro, ma con gli occhi spalancati all’indietro. Se dovessi infatti cedere alla tentazione di una formula, direi che la tensione creativa dell’autore di Bestiario è interamente contratta nello spazio e nel tempo che esistono prima della trasformazione di Gregor Samsa in un gigantesco insetto: cosa è successo, quali sono stati i fenomeni occorsi prima che il commesso viaggiatore perdesse le sembianze umane per diventare letteratura?

Nelle storie di Bestiario sono quasi sempre due gli intervalli che materializzano l’emersione della mostruosità intrinseca alla vita. L’espansione abnorme della normalità e la sua rottura. Accade infatti che il racconto non riesca più a contenere la sua stessa realtà, e al contempo la realtà non corrisponda più al suo racconto. Una sorta di parallasse autonoma incombe e condiziona – più o meno silenziosamente – l’andamento delle cose, conducendole alla deriva.

Vale la pena ricordare le otto tappe che compongono Bestiario, perché rappresentano una sorta di sequenza aurea: Casa occupata, il già citato Lettera a una signorina a Parigi, Lontana, Omnibus, Cefalea, Circe, Le porte del cielo, Bestiario. Ciascuna a suo modo ricade sotto il segno di una irriducibile intensità che non si rispecchia in nessun catalogo fantastico tradizionale (pressoché assenti i sospiri gotici), ma che è il riflesso di una radicale negazione del senso comune. Allo stesso modo Cortázar è maestro esemplare del rasoio retorico. Un aspetto spesso confuso con la virtù della sintesi, ma che in realtà riguarda più il piano sostanziale dell’espressione, la capacità di suggerire con pochi tratti uno scenario nelle cui acque dense il lettore andrà placidamente affogando.

Che siano i conigli funesti a me molto cari, oppure la telepatia morbosa che lega due donne da un capo all’altro del mondo, che sia l’ossessione necrofila di due viandanti nel quartiere Palermo di Buenos Aires o la tigre materna che colonizza la casa e la vita di una famiglia sciagurata, Cortázar riesce nell’impresa che un tempo fu dei tragici: inoculare il mondo nella sua stessa negazione.

Una latente nostalgia delle cose intona il pensiero dei personaggi di Bestiario, il battito di un’occasione persa, l’incapacità intrinseca di partecipare al mistero di eventi che non stanno nel perimetro esatto delle regole e che pure – per qualche insondabile mistero – ne sono parte. Un sentimento che l’umanità di Cortázar condivide con le bestie sacrificali, gli innamorati, i paranoici.

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