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Potremmo chiederci se c’è da storcere il naso davanti a questa strana vittoria di La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro. Diciamocelo: Dunkirk è registicamente impressionante, Tre manifesti ha un modo geniale di snodarsi tra il tragico e il comico, Chiamami col tuo nome possiede un’incredibile carica emotiva. La forma dell’acqua, davanti a questi tre, risulta – sì, un bel film – ma un po’ insipido.

Questa situazione potrebbe un po’ ricordarci il vincitore del 2012, The Artist di Michel Hazanavicius. Un ammicco ai fasti del cinema, della Hollywood classica, la contemplazione ossessiva del sé passato. Ecco, gli oscar sono un po’ questo: uno specchio che ringiovanisce di quasi un secolo. Ma Del Toro, in realtà, pur ammiccando allo stesso mondo, ne prende le distanze. Ammicca per sbaglio, come se gli fosse appena entrato un moscerino in un occhio. Un moscerino che fa parte della storia che racconta da sempre, un moscerino necessario per essere coerente con la propria arte.

Dimentichiamoci gli oscar; Del Toro merita un articolo indipendentemente da vittorie e sconfitte. La sua storia registica è varia, spiazzante. Dalle produzioni più pop come Mimic, Hellboy, Blade II, Pacific Rim a pellicole più ragionate, che riescono a toccare in profondità: La spina del diavolo e Il labirinto del fauno. Eppure, anche se parliamo di film così distanti per quel che riguarda sensibilità e profondità, non possiamo non vedere come nel lavoro di Del Toro ci sia stata una maturazione costante. Non tanto del suo modo di penetrare la realtà, quanto del perfezionamento di un’estetica della fantasia.

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I suoi film sono fatti di fantasia. La fantasia è un mondo più vero del reale, l’unico nel quale possiamo respirare. In La forma dell’acqua questo binomio è davanti agli occhi; il mondo della protagonista, fatto di piccoli gesti, di sogni invecchiati ma sempre vivi (come quel dannato cinema che continua inspiegabilmente a essere aperto nonostante non ci sia nessuno dentro), di pochi ma fondamentali legami, è il segno di un insondabile, intuitivo dominio della fantasia. Mentre la casa di Strickland – il nostro evidentissimo antagonista – è una patina ipocrita e falsa, fatta di frasi fatte, di sesso svogliato perché si deve. Se la bellezza, come scrive Walter Benjamin, è lo svelamento, l’apparenza che rifiuta qualunque segreto, ecco, la realtà è un velo. È sì apparenza, ma ritorta su se stessa, si rifugia nel già detto, verso direzioni già stabilite, vestiti già tagliati, un continuo mascherarsi dietro il segreto del chi si è, perché impossibilitata a guardarsi in faccia. Il reale per Del Toro è una pubblicità, il soffocante concedersi al mondo dell’immagine, allo scordare se stessi nel nome di un ruolo che ci viene dato. Padre, marito, lavoratore. Mai persona. Non ha bellezza, ma solo graziosità, piacevolezza, vaga soddisfazione. È regno dell’effimero. Solo nella fantasia esiste il bello; perché solo in quel versante del mondo l’immagine si spoglia di quello che indossa per apparire solo ciò che è.

In titoli come Pacific Rim e Hellboy non c’è è neanche il dubbio di quale dei due mondi sia predominante, ma i suoi lavori più interessanti sono sicuramente quelli che giocano sulla doppiezza, sull’ambiguità. Piano piano il regista si affida sempre più ai colori (Crimson Peak con il contrasto bianco/rosso è esemplare), alle inquadrature, agli insegnamenti dei maestri. Con La forma dell’acqua Del Toro sembra mettere insieme tutto quello che ha imparato negli anni, opponendo una patina da sceneggiato americano alla forza di immagini di repertorio classico ed europeo (soprattutto francesismi alla Delicatessen). Nel mezzo, i laboratori, un mondo dove i due versanti s’incontrano, incerto tra palcoscenico ed essenza. In Il labirinto del fauno, invece, le due istanze s’intrecciano senza mai fondersi; il fantastico è rifugio, consolazione, opposizione al reale, ma anche motore per ritrovarsi, per andare avanti all’interno della follia del mondo reale. Non c’è sintesi tra le due estetiche, c’è solo un gioco – visivo e concettuale – di alternanze, di opposizioni, di dubbi su cosa sia davvero reale e cosa no. In questa prospettiva, guardando Del Toro con l’occhio assetato di messaggi, di profondità, Il labirinto del fauno è forse il punto più alto toccato dal suo cinema. Eppure nella sua visione estetica questo non è un arrivo, ma solo un punto di passaggio. Perché la carriera artistica di Del Toro è un progressivo lavoro di affinamento dell’immagine nel tentativo di far prendere alla fantasia lo stesso corpo del reale.

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Ma in Del Toro troviamo anche dell’altro. Se il disimpegno, il gioco, il divertimento sono costanti che inciampano nella coppia La spina del diavolo e Il labirinto del fauno, il consolatorio è l’elemento che, quando andiamo a vedere un film di Del Toro, dobbiamo dare per scontato. Il finale lieto, la decisione di vedere la narrazione da una prospettiva ottimistica (fino allo stucchevole) sono punti fermi nella sua cinematografia. Il disimpegno ci va a braccetto, la superficialità concettuale anche. Ma pure l’ironia.

Un certo tipo di critica ha la snobistica tendenza di identificare l’arte con una visione tragica – o al più, amara – del mondo e dell’esistenza. Il lato comico, ottimistico, è lasciato alla sola parodia. La stessa parola «consolatorio» ha un che di dispregiativo, di ingenuo, come se il contraltare di una visione realistico-amara non potesse in alcun modo avere il suo stesso peso.

L’inserimento del consolatorio in una prospettiva fantastica ha però la capacità di creare un’atmosfera favolistica. Favola non nel senso classico e intellettuale cui appartengono Esopo o il Roman de Renart; è assente l’aspetto morale, è assente la brevità dell’intreccio, la ricerca di una risoluzione attraverso motteggi o battute. La favola deltoriana prende a piene mani da quel calderone di fiaba e favola che è l’epopea disneyana. Una favola pop-contemporanea (sentiamo già alle nostre spalle qualche critico rabbrividire alla parola pop). Eppure, di validi esempi di cultori del favoloso nel cinema ce ne sono, eccome. Insieme a Disney (e prosecutori), Spielberg è stato (ed è) forse il più grande mago del favoloso. Combina atomi di stucchevolezza, particelle di facile commozione, li soppesa, li mischia, e riesce a creare il meraviglioso. Anche nell’animazione giapponese – Myiazaki su tutti, ma non solo – troviamo un nuovo tentativo di dare forza al mondo del meraviglioso, di donargli la dignità necessaria per essere arte senza doversi vergognare del proprio sguardo incantato.

Se anche Del Toro sembra in parte attratto dalle lusinghe della meraviglia – l’attento equilibrio del Labirinto del fauno è lì a testimoniarlo – d’altra parte accetta il favolistico come dogma. La fantasia è l’unica realtà, e il mondo in cui essa si deve muovere è quello della favola. Molti dei suoi film, visti singolarmente, non sono niente di che. Ricalcano il gusto facile dell’hollywoodiano, il compiacimento per gli effetti speciali, per il brutto mai scabroso, per il buon gusto, la facile ironia. È nell’attenta visione di tutti i suoi film, uno dopo l’altro, che vediamo prendere corpo chi davvero si nasconde dietro la faccia pop.

Vediamo così che, se la fantasia domina sempre incontrastata, la favola invece è presa con le pinze, esaminata, messa in dubbio, anche irrisa (ma sempre rispettata); la favola è il gioco perfetto in cui provare a far prendere corpo alla fantasia. Null’altro. Non ha pretese morali, non ha messaggi nascosti. La favola è onesta perché non pretende. La favola è equa perché non chiede impegno. È questa la sua forza, è questo il suo limite. E Guillermo Del Toro lo sa perfettamente.
Ma dietro all’apparente mancanza di messaggi c’è un unico messaggio che tutti i suoi film sembrano sussurrare costantemente: diamo al pubblico quello che vuole, la moralina facile, la battutina arguta, l’atmosfera sognante, i personaggi simpatici, i cattivi e i buoni; a loro basta. Io intanto continuo a lavorare sull’unico concetto che conta davvero: quello disarmato, assoluto, della bellezza.

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