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Inauguriamo oggi Animali Notturni, la rubrica dedicata al Cinema e alle Serie Tv. Buona lettura!

Il Leone d’Oro per miglior film in concorso della 76° Mostra del Cinema di Venezia è andato al Joker di Todd Phillips e Joaquin Phoenix, rispettivamente regista e interprete della pellicola sulle origini del Clown Prince di Gotham City. Già la presenza del film al festival non passava inosservata; inusuale, per usare un eufemismo, incontrare pellicole dal mondo di fumetti e supereroi sul red carpet e nei “salotti buoni” del cinema. Ma Venezia, dopo aver dimostrato di voler dialogare con Netflix (per quanto l’Irishman di Scorsese gli abbia preferito il New York Film Festival), quest’anno ha aperto anche a Warner Bros, e al suo cavallo di battaglia.

Joker ha trionfato contro tanti campioni del cinema d’autore, nomi attesi e favoriti. Tutti guardano al “superhero movie”, al suo trucco da pagliaccio, ai vestiti sgargianti; qualcuno storce il naso, altri lo acclamano. Ma ci si poteva aspettare che il film vincesse davvero?

Perché Joker non avrebbe dovuto vincere il Leone d’Oro

È molto facile lasciarsi coinvolgere da Joker. Il film, oltre al protagonista, incarna la storia dell’underdog, da sempre fonte di grande empatia: lo sfavorito, accettato a Venezia per generosità di spirito, ci si presenta con tutti i crismi. La pellicola di Phillips, noto per aver donato al mondo la trilogia miliardaria di Una notte da Leoni, è un solidissimo noir urbano in una metropoli devastata da se stessa. Nelle classi più basse, abbandonate da una politica tanto generosa a parole quanto incurante nei fatti, Arthur Fleck rappresenta l’alfa e l’omega delle vittime: lavoro precario, esposizione frequente e casuale alla violenza, igiene mentale traballante.

Anche dal punto di vista registico Joker è un pugile niente male. Il citazionismo nei confronti dei miti (Re per una notte su tutti) è dichiarato, abbastanza da collocare il film in un ricorso storico dei ‘70-‘80. L’occhio di Phillips coniuga bene la miopia dei primissimi piani nella testa di Phoenix, scanditi regolarmente lungo i tre atti, all’ipermetropia di riprese dall’alto, “sociali”, su Gotham City, non senza un pizzico di Nolan. Gli unici momenti in cui la camera si ferma a distanza intermedia da Fleck/Joker, a volte correndogli in parallelo, corrispondono agli exploit di violenza del protagonista – come a voler dire: se sommate quanto visto finora il risultato è questo.

Tuttavia, la vittoria di Joker non era scontata. Opera spavalda, ancor più che coraggiosa, non ha però la maturità di altri film in concorso. Il suo carisma monopolizza l’attenzione di critici e pubblico, nascondendo loro piccoli difetti; ingenuità veniali ma che in gara, solitamente, costano caro. Un lieve narcisismo permea la pellicola, talvolta fin troppo percepibile. La struttura presenta qualche transizione appena più veloce del necessario, passaggi sottintesi, giunture fragili. Forse, l’evoluzione del personaggio nella recitazione di Phoenix è talmente precisa al fotogramma da centrare i tempi meglio dello script.

Sulla bilancia, per ogni pecca c’è un più grande valore, ma la perfezione nella forma dei numeri uno è cosa altra, e c’era chi vi si avvicinava più di lui. Joker, a mani basse, poteva essere il vincitore morale di questa Venezia 76, ma si è ritrovato a esserne il vincitore formale. Perché?

Perché Joker meritava il Leone d’Oro

Joker è un film che nasce da un fumetto. Tantissimi hanno visto nella sua vittoria una tardiva e necessaria legittimazione del secondo medium da parte del primo. In realtà, per quanto Joker ne rappresenti il più evidente, ci sono già diversi esempi di cinecomic– termine inteso nel suo significato originario – premiati, anche nei festival più esigenti: La vita di Adele, dal fumetto Il blu è un colore caldo, vinceva la Palma d’Oro a Cannes nel maggio 2013.

Non è l’essere un cinefumetto a rendere Joker eccezionale in senso stretto, ma l’essere un cinefumetto oggi, ispirato a un personaggio DC estremamente conosciuto. Dopo 10 anni e 23 film Marvel, l’altra metà del fumetto commerciale, girati tutti seguendo un certo standard di identità e tono dei contenuti, Joker percorre una strada diversa.

Un film che abbraccia, anzi, strangola e racchiude se stesso, osando tanto e concedendo pochissimo nei confronti di altre storie possibili. Declina la materia d’origine secondo la propria voce, quella crime e decadente dei Taxi Driver e simili. Non esistono universi più grandi di una città collassata nella sua stessa fogna, e se esistono non si percepiscono. Lo schermo restituisce un’atmosfera peculiare e un carattere in continuo mutamento ritratto da Joaquin Phoenix (cui il Leone d’Oro, per incompatibilità di regolamento, ha sottratto la Coppa Volpi al Miglior Attore). Tanto che all’inizio Arthur Fleck non è il Joker, ma a un certo punto, e senza che ce ne accorgiamo, lo diventa. Il trucco è lo stesso, anche la risata, ma lui no. Fa impressione, a noi e a qualsiasi cine-supereroe con sequel su sequel alle spalle.

Ogni competitor dell’industria di Topolino, Warner in primis col materiale DC Comics, ha tentato di seguire lo standard Marvel-Disney negli ultimi anni, aspirando a, e per giunta ottenendo, ottimi risultati di pubblico. È la formula del film che non osa, non scommette sulle emozioni e cerca piuttosto di intrattenere con semplicità, ibridando serialità televisiva e blockbuster o strappando risate, dove possibile e anche dove non ce ne sarebbe bisogno, con battute e strizzatine d’occhio. Economicamente, funziona: ci si rivolge a tutti e non si scontenta nessuno, dai nostalgici over 30 ai più giovani under 15; poco importa se ci si preclude l’accesso a premi e festival, bastano i numeri. Tanto vale usarla anche al di fuori del cinema supereroistico, nell’action in genere, nell’horror, nel romance, a poco a poco usarla ovunque, visto che conviene sempre.

Da qui, dalla sua diversità e dal suo affronto alla consuetudine ormai decennale, deriva la tentazione in cui cadono tanti, pensando di distinguere con sagacia: «Joker è più di un cinecomic» dichiara subito Paolo Virzì, membro della stessa giuria che l’ha premiato, «ci sono sofferenza, traumi, instabilità mentale, espliciti omaggi a un cinema di non supereroi». Come se il cinema di supereroi quelle cose non potesse averle, solo perché per anni non le ha mai avute. Forse incompreso dai suoi stessi incensatori, il lavoro di Todd Phillips è l’opposto: la dimostrazione di un film di supereroi che contiene tutte quelle cose e, come per scherzo, non contiene supereroi. Un film da premiare in quanto alternativa possibile, per quanto rischiosa e difficile.  E il Leone d’Oro? Serendipità.

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