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La stretta finestra di un seminterrato, da dentro vediamo la strada: persone che lavorano, macchine, bici che passano. Titolo, poi la camera si muove con un dolly verso il basso, partendo dalla finestra fino a svelare un ragazzo – Ki-woo, uno dei protagonisti – che sta cercando di collegarsi alla rete wifi di una vicina dallo scantinato. Questa è la prima inquadratura di Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2019, ed è il primo indizio del fatto che in questo film esistono un mondo di sopra e un mondo di sotto.

Segue un breve piano sequenza: Ki-woo si alza, la camera lo precede nel corridoio dello scantinato; dal bagno esce la sorella, Ki-jung, la camera la aggancia per un breve momento, panoramica su lei che entra nella stanza e ritrova Ki-woo che parla con i suoi genitori stando appoggiato alla porta; il padre è disteso in dormiveglia nonostante sia pieno giorno, la madre fa la maglia. Controcampo: il padre si sveglia, parla con la madre, ora è Ki-woo a essere sullo sfondo, fuori fuoco. Stacco sul dettaglio di una foto della madre da giovane che lancia un peso in una gara, accanto una medaglia. Il padre si siede a fare colazione e consiglia al figlio di infilare il telefono in ogni angolo della casa per trovare una rete a cui attaccarsi; carrello a seguire la mano di Ki-woo che percorre il corridoio quasi sfiorando il soffitto. Di nuovo il padre che fa colazione, un insetto si poggia sul tavolo, il padre lo scaccia: «Maledetti insetti», dice.

In poco più di due minuti Bong Joon-ho, con grandissimo talento di regia e scrittura, ha introdotto i personaggi e i temi principali del suo nuovo film. Poche battute, sette stacchi, poche inquadrature, belle ed efficaci, ma è quasi tutto lì: c’è un mondo sotterraneo, invisibile agli abitanti del mondo di sopra; c’è una famiglia che si muove insieme come un unico organismo; ci sono aspirazioni e sogni preclusi; ci sono insetti, parassiti.

È la storia dei Kim, una delle tante famiglie che vive ai margini, o forse è meglio dire sotto la società; quattro persone: il padre Ki-taek, la madre Chung-sook e i due figli Ki-woo e Ki-jung. Tutti disoccupati, costretti dalla vita in un seminterrato. Quattro persone sotterrate.

Il meccanismo narrativo si innesca quando Ki-woo falsifica un documento per farsi assumere come insegnante privato d’inglese presso i Park, una famiglia molto ricca. Una volta avuto il lavoro, grazie a una serie di stratagemmi, Ki-woo riesce a far assumere tutta la propria famiglia; inizia così un processo attraverso il quale i Kim, che per tenere in piedi le loro menzogne devono fingere di non conoscersi, diventano sempre più presenti in casa e nella vita quotidiana dei Park. I Kim si muovono come un unico organismo, sono coordinati, in simbiosi fra di loro; la messa in atto della loro truffa sembra l’esecuzione di una sinfonia, sottolineata dalla musica e dai movimenti di macchina che seguono armonicamente i personaggi. Ma l’equilibrio fra organismo ospitante e organismo parassita non durerà a lungo.

La messinscena di Bong Joon-ho è ricca di elementi diversi ma coerenti fra loro. La capacità del regista di comporre inquadrature «corali», gestendo i corpi degli attori, i loro movimenti e le loro relazioni all’interno del fotogramma, e soprattutto giocando con ciò che avviene in primo piano e ciò che avviene sullo sfondo, era stata già ampiamente dimostrata in Memories of Murder (2003), e in Parasite diventa lo strumento per raccontare le due famiglie con i loro equilibri e disequilibri. L’uso di tecniche che potrebbero risultare stucchevoli o estetizzanti, come lo slow-motion, è sempre funzionale al racconto e, in alcuni momenti, consapevolmente ironico. Le ottiche strette sui personaggi, spesso di profilo anche in momenti chiave del film (altra cifra stilistica del regista), suggeriscono l’idea che non tutti gli elementi di questa storia sono chiaramente visibili, inequivocabili.

Tanti sono gli elementi in comune tra Parasite e le altre opere di Bong Joon-ho. Il tema di una società divisa in classi era già stato affrontato nel suo primo film in lingua inglese, Snowpiercer (2013), che racconta un futuro post-apocalittico in cui gli unici esseri umani ancora vivi sono i passeggeri di un treno ultra-tecnologico. Il treno, nei western da sempre micro-mondo che racconta la società, in questo film include dentro di sé l’intera comunità di sopravvissuti; in coda al treno, nelle condizioni più miserabili, vivono i più poveri, gli ultimi, i Kim; in testa al treno, nel lusso, i Park. Ma se Snowpiercer si concentra più su un racconto di genere action/sci-fi, in Parasite l’argomento è trattato in modo approfondito, mai banale e senza moralismi, usando registri diversi, mescolando con sapienza gli stilemi della commedia, del dramma, del thriller.

Spesso il regista coreano ha raccontato protagonisti che provengono da un ceto sociale basso, pieni di difetti e con comportamenti moralmente discutibili, in grado di suscitare nello spettatore tenerezza, repulsione ed empatia: in The Host il protagonista è un padre scansafatiche e infantile; in Memories of Murder il detective è alle volte ottuso, violento e arrogante, alle volte fragile e simpatico (ed entrambi i personaggi sono interpretati da Kang-ho Song, che in Parasite è il signor Kim). In Parasite, però, il protagonista non è un singolo personaggio ma una famiglia, e i plot twist coinvolgono l’intero organismo: «Parasite», non «Parasites».

Il racconto delle due famiglie, pur scaturendo da un’opposizione un po’ stereotipata tra ricco e povero, disattende i preconcetti dello spettatore nelle sfumature che riguardano la caratterizzazione dei personaggi. Il signor Park non è l’uomo d’affari assente per lavoro per cui la famiglia viene sempre dopo il business, è un genitore impegnato nella sua carriera ma che prova davvero a essere presente nella vita familiare, nella crescita e nella cura dei figli. A loro volta i Kim non sono dei furbi scansafatiche alla ricerca di una scorciatoia, sono persone piene di iniziativa e di talento. «Non la considero una contraffazione o un crimine», dice Ki-woo al padre prima di presentarsi al colloquio di lavoro, col documento falso in mano. «Andrò in questa università l’anno prossimo. Ho solo stampato questo documento in anticipo».

Cosa vediamo, cosa non possiamo vedere e cosa non vogliamo vedere: Parasite parla di questo. Sono frequenti le inquadrature perfettamente composte in cui la profondità di campo svolge un ruolo fondamentale per raccontare l’impossibilità dei Park di accorgersi di ciò che avviene alle loro spalle. Più volte nel corso del film vediamo il signor Kim disteso con un braccio a coprire gli occhi, per raccontare ancora una volta l’incapacità o la mancanza di volontà di vedere, ma non solo questo: gli occhi sono anche un mezzo per rappresentare una persona nella sua essenza, ciò che consente di riconoscere un essere umano in quanto tale. Coprire gli occhi significa rendere quella persona impossibile da identificare, svuotarla della sua singolarità in quanto essere umano, e questo è un concetto che abita Parasite fin dalla locandina, in cui gli occhi tutti i personaggi sono celati da una striscia nera.

La vista non è l’unico dei cinque sensi ad avere un ruolo fondamentale nel film. In una della prime scene, quando ancora i Kim vivono nello scantinato, la loro stanza viene invasa dai fumi verdastri di una disinfestazione sulla strada; tutti tossiscono, rannicchiati come insetti, si tappano il naso cercando di proteggersi dai miasmi, tutti tranne il signor Kim, che continua a fare ciò che stava facendo. Diametralmente opposto è il signor Park, che in un’altra scena, inconsapevole della presenza del signor Kim, che lo sta ascoltando, racconta alla moglie dell’odore strano dell’uomo, «l’odore che hanno le persone che prendono la metropolitana». In una delle scene finali, durante un’esplosione di violenza, di grida, di fughe, raccontata con movimenti nervosi della camera, amplificati dall’uso di teleobiettivi, sarà proprio l’immagine del signor Park col naso tappato, enfatizzata dallo slow-motion, a far sì che il signor Kim compia una scelta fondamentale, un gesto estremo di ribellione.

Anche gli elementi tipici delle storie di fantasmi vengono usati con grande maestria da Bong Joon-ho: rumori sospetti, cantine buie, persone sepolte vive, luci che si accendono e si spengono misteriosamente come fossero messaggi in codice provenienti dall’aldilà. I Park non si accorgono mai di vivere in una casa infestata, e anche quando la presenza di un altro organismo è palese loro continuano a non vederlo, fino al limite del ridicolo. Solo un personaggio guarda per un attimo gli occhi del «fantasma» che si nasconde negli angoli bui della casa e la visione è così insopportabile da causarne un collasso fisico e psicologico, e il ricordo traumatico di quegli occhi aperti nel buio, ci viene suggerito, lo perseguiterà per sempre.

Parasite è un film che parla di case, case diverse fra loro, case buie e case luminose, case ampie e case soffocanti, e del modo in cui queste vengono vissute dalle persone che le abitano. I Park vivono in un edificio che posseggono ma che non gestiscono e di cui non conoscono il funzionamento: ogni volta che il signor Park rientra a casa, le luci si accendono al suo passaggio, anche se a volte lampeggiano in modo misterioso; una fotocellula difettosa da riparare, pensano i signori Park, ma forse non è così. È una casa di cui non conoscono gli angoli bui. La loro cameriera, invece, che ha lavorato anche per il precedente proprietario, l’architetto che ha costruito la casa, vive quell’ambiente e si dedica alla sua cura col rispetto sacrale dovuto ai templi o alle chiese. Al loro opposto ci sono i Kim, che quando rimangono da soli nella casa dei Park la abitano come fossero nel loro seminterrato e, in poche ore, la rendono disordinata e sporca. Nonostante gli ampi spazi della casa, i Kim scelgono un tavolo appena più grande di quello che hanno nel loro scantinato. Ricreano il loro ambiente nell’organismo ospitante.

È un film che parla del tentativo di scalare la società; il simbolo più frequente – e Parasite è pieno di simboli – nel film è una roccia che un amico benestante di Ki-woo regala al ragazzo. La roccia, che proviene dalla cima di una montagna, dovrebbe portare ricchezze materiali alla famiglia. Questo oggetto, simbolo e ricordo di una scalata, diventerà prima idolo, poi fardello e infine arma, e solo nel finale un personaggio deciderà di scalare davvero una montagna. Quest’immagine coincide con la realizzazione cinica da parte di Ki-woo che l’unica soluzione, l’unico modo di poter sopravvivere nella società, è raggiungendone la cima, a qualunque costo.

È un film che parla di recitazione, dei ruoli che interpretiamo nella commedia sociale. I Kim infatti, per tenere in piedi la loro messinscena, non solo recitano ma provano e riprovano i loro ruoli, con tanto di copione e indicazioni registiche. La recitazione è uno strumento fondamentale per la loro sopravvivenza.

Ma, soprattutto, Parasite è un film che pone delle domande. Sono i Kim che vivono sotto ai Park o i Park che vivono sopra ai Kim? I Kim vivono nelle cantine o nelle fondamenta della nostra società?

Il riferimento ricorrente ai nativi americani, ossessione del figlio piccolo dei Park, è indicativo in questo senso. C’è una divisione in due tribù, che viene visivamente esplicitata in una scena del film, ma forse c’è anche altro: la storia dei nativi americani è anche una storia di violenza, di soprusi, di terre rubate e parzialmente restituite ai legittimi proprietari sotto forma di riserva, di dono magnanimo. Come in un film di fantasmi, Parasite ci ricorda che le nostre case, a volte, poggiano su fondamenta vive di spettri, che ne siamo consapevoli o no.

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