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Charlie e Nicole sono una coppia sposata. Lui scrive, dirige e produce spettacoli Off-Broadway; lei è prima attrice nella stessa compagnia teatrale del marito. Nella scena di apertura del film, entrambi i personaggi ci dicono quello che amano dell’altra persona: è un elenco di piccoli dettagli – stranezze, più che pregi – che disegnano un ritratto incompleto ma preciso dei due coniugi. Se questi aspetti fossero scontati o insignificanti la sequenza risulterebbe stucchevole, ma il testo è ben calibrato e in pochi minuti ci viene presentato il legame profondo, delicato, che unisce i protagonisti. Subito dopo, scopriamo che Charlie e Nicole si stanno separando.

Con Storia di un matrimonio (2019) Noah Baumbach torna a raccontare un divorzio, lo stesso tema del suo film più acclamato (finora): Il calamaro e la balena (2005). In quel caso l’argomento veniva affrontato dal punto di vista dei figli, usando la crisi familiare come espediente per mettere in scena la demitizzazione dei genitori; questa volta, invece, anche se un bambino c’è ed è inevitabilmente parte della vicenda, tutto è costruito per farci immedesimare con i futuri ex marito e moglie e restituire l’esperienza della separazione su diversi piani: familiare, legale e soprattutto sentimentale.

Il film trova il suo maggiore punto di forza nella leggerezza della messa in scena, raggiunta attraverso una sapiente ibridazione di toni e generi: Storia di un matrimonio attinge dal teatro, dal legal thriller e in parte anche dal musical per riempire una cornice elegante, a metà fra la screwball comedy degli anni ‘30 e il comedy-drama da Sundance, caratterizzata da una credibilità che manca a tutti i filoni sopra citati (forse proprio perché l’esperienza reale, come questo film, non è ascrivibile a un solo genere). Momenti divertenti, a volte comici, si alternano e spesso si accavallano a sequenze drammatiche, senza compromettere la coesione narrativa.

Ma una tale ricchezza di contenuto richiede un’adeguata attenzione per la forma, e la regia di Baumbach non lascia nulla al caso, a partire dall’aspect ratio (la proporzione fra altezza e larghezza dell’immagine): Storia di un matrimonio è girato in 35mm, con un rapporto di 1.66:1; in parole povere, l’immagine è meno larga, meno «schiacciata verso il basso», rispetto a quella più comune nel digitale, che di solito parte da 1.78:1 (il famoso 16:9) ma può arrivare anche a 2.39:1. Questa scelta, lontana dall’essere una posa nostalgico-masturbatoria, è motivata da due fattori strategici.

Il primo è che il film è ambientato prevalentemente in interni poco spaziosi: uffici, camere d’albergo, piccole stanze. Il concetto di casa è centrale in qualsiasi divorzio che coinvolga un bambino e lo diventa ancora di più quando è difficile stabilire se casa sia New York, con Charlie, o Los Angeles, con Nicole; per questo è importante l’alternanza fra gli spazi familiari, chiusi e accoglienti (ma soffocanti quando smettono di appartenerti), e quelli asettici, come l’ufficio di un avvocato o una «soluzione abitativa temporanea». Da un lato c’è il bisogno narrativo di una scenografia tendente al claustrofobico, e dall’altro Baumbach vuole comunque firmare un’opera che sia esteticamente appagante (non è un caso che l’autore sia stato coinvolto in più occasioni in opere prodotte, scritte o girate da Wes Anderson); in questo senso, un’immagine «stretta» è più adatta agli ambienti del film.

Il secondo e principale presupposto che motiva la scelta registica è che le proporzioni usate da Baumbach, sacrificando lo spazio ai margini dell’inquadratura, valorizzano al meglio primi e primissimi piani. Per ovvie ragioni legate alla trama, Storia di un matrimonio deve gran parte della sua bellezza alle emozioni trasmesse dai suoi protagonisti e, di conseguenza, alla recitazione di chi li interpreta: Adam Driver e Scarlett Johansson. Il film segue molto da vicino i due personaggi e alterna i punti di vista facendo dialogare le loro storie, in modo che ogni momento vissuto da Charlie o da Nicole possa trovare un suo corrispettivo, per opposizione o analogia, nelle esperienze dell’altro. Entrambi gli attori portano a casa una prova magistrale, coadiuvata dall’accortezza della regia.

Nei monologhi, quando c’è un momento di apertura, Baumbach sceglie il piano sequenza e parte dalla figura intera per finire su un primissimo piano. Nei litigi, e in particolare nella scena madre del film, l’inquadratura passa da piano medio a primo piano a primissimo piano con stacchi dettati dagli scambi di battuta. In entrambi i casi la vicinanza della camera corrisponde all’intensità delle emozioni mostrate sullo schermo, e quindi al grado di immedesimazione dello spettatore, ma nel primo la transizione è progressiva, mentre nel secondo procede a scatti: la regia va di pari passo con gli stati d’animo dei protagonisti.

I personaggi secondari sono costruiti con altrettanta cura, e in particolare i legali che rappresentano la coppia sono interpretati da un cast che da solo è un pezzo di storia del cinema: Ray Liotta (Quei bravi ragazzi, L’uomo dei sogni), Laura Dern (Velluto blu, Cuore selvaggio, The Master) e Alan Alda (Crimini e misfatti, Misterioso omicidio a Manhattan). Prendendo le parti dei loro clienti, gli avvocati parlano al loro posto, difendendone le posizioni e rimodellando la narrazione del matrimonio per ottenere un vantaggio giuridico. In questi momenti i protagonisti perdono il centro della scena, ma la regia, anche grazie all’uso di soggettive e semisoggettive, resta ancorata al loro punto di vista.

Alcuni grandi autori scelgono un argomento e affrontano solo quello in tutte le loro opere; Baumbach, che scrive le sceneggiature di ogni suo film, non è da meno. L’elemento comune più vistoso nella sua produzione è la forte impronta autobiografica: il regista non ha mai negato di prendere ispirazione dalle vicende personali né di aver «rubato» parti di conversazioni realmente avvenute per innestarle nei suoi dialoghi (abitudine che spesso appartiene anche ai suoi personaggi); tuttavia, è altrettanto evidente che questo modus operandi sia dovuto più a un intento mimetico nei confronti del vissuto che al desiderio di riscrivere la propria storia o fare una dichiarazione in merito. Se si prova a osservare l’opera di Baumbach mettendo da parte i pettegolezzi sulla sua vita privata, le caratteristiche che emergono sono la predilezione per i personaggi che lavorano o aspirano a lavorare in un campo creativo e la scelta di circoscrivere l’azione in una sfera privata, intima, quasi sempre familiare. Spingendosi un po’ più in là, si potrebbe azzardare un’interpretazione dei suoi film come studio della personalità artistica e soprattutto dell’impatto psicologico ed emotivo subìto da chi vive a stretto contatto con un artista.

Entrambi i protagonisti di Storia di un matrimonio lavorano in una compagnia teatrale, nel Calamaro e la balena i genitori sono scrittori e lo stesso vale per il personaggio interpretato da Nicole Kidman nel Matrimonio di mia sorella. Anche Mistress America riguarda due aspiranti scrittrici; Lo stravagante mondo di Greenberg parla della relazione fra due musicisti, il capofamiglia di Meyerovitz Stories è uno scultore e Giovani si diventa è una brillante commedia che mette a confronto tre documentaristi, ognuno appartenente a una generazione diversa. Tutti questi personaggi (e molti altri, se guardiamo all’intera filmografia del regista) non si limitano ad avere in comune l’esperienza dell’atto creativo, ma presentano anche gli stessi difetti: mancano di empatia, hanno un bisogno di ammirazione che oscilla tra l’aspettativa e la pretesa e spesso invidiano e svalutano i traguardi degli altri; nei casi più estremi sono arroganti o manipolatori. Non è poi così azzardato, quindi, dire che l’autore associa la personalità artistica al narcisismo. Che il collegamento sia consapevole o no, è chiaro che la scelta non sia finalizzata a nessun obiettivo se non quello di scrivere dei personaggi coerenti, credibili, e la frequenza con cui questo risultato viene raggiunto rende Baumbach uno dei migliori sceneggiatori in circolazione.

In Storia di un matrimonio la sceneggiatura è resa ancora più valida dalla delicatezza con cui l’autore tratteggia i suoi personaggi. Come sempre, tutti gli individui che vediamo sullo schermo sono fallibili, a partire dai protagonisti; ma mentre nelle opere precedenti l’eccesso di aspetti negativi rischia di suscitare uno spettro di reazioni che va dal compatimento al disprezzo (senza comunque intralciare l’immedesimazione – e qui è dove si inizia a gridare al genio), nel suo ultimo film Baumbach, fedele per la prima volta nella sua carriera agli stilemi della love story, ci fa innamorare dei protagonisti, portandoci ad accogliere gli stessi difetti che in altri casi ci saremmo limitati a perdonare.

Questo non sarebbe possibile se il film non avesse una certa «imparzialità», intesa non come la mancanza di una presa di posizione (più che non prendere le parti di qualcuno, Storia di un matrimonio dà ragione a seconda del momento a uno o all’altra protagonista) ma come un trattamento equo dei personaggi. Charlie e Nicole hanno lo stesso grado di approfondimento e lo stesso carico di colpe; la narrazione segue entrambi i punti di vista e se uno dei due riesce a prevalere sul piano razionale, concreto, il pubblico è spinto dalla parte dell’altro su quello emotivo (non tanto per una reale preferenza quanto per una tendenza istintiva a empatizzare con gli sconfitti).

Prima di innescare l’alternarsi dei punti di vista, Baumbach ci fa affezionare a entrambi i protagonisti, mostrandoceli nella loro versione migliore, per coinvolgerci e per impedirci di lasciarci condizionare dalle sequenze più «di parte». I loro archi narrativi, inoltre, sono speculari, e non identici: il gioco di corrispondenze è più complesso di quanto possa sembrare. Sia Charlie che Nicole eseguono, in momenti molto ravvicinati, un numero musicale, ma i brani – tratti da Company di Sondheim – hanno toni e testi completamente diversi: il vero corrispettivo della performance di Driver è un monologo recitato da Johansson durante la prima metà del film, quando Nicole deve raccontare la sua storia al proprio avvocato. I dettagli che caratterizzano i personaggi ritornano ciclicamente in un modo così naturale da cancellare il confine tra coerenza e foreshadowing. Ancora una volta forma e contenuto si parlano: la trama è bilanciata fra i due personaggi; la struttura è armonica in tutte le sue parti.

Storia di un matrimonio è uno dei film più riusciti di Noah Baumbach; forse il migliore. Le sue opere sono sempre attraversate da una rivalità sottile, a volte inespressa, ed è significativo che sia proprio questa storia, che ha un conflitto così esplicito e in cui tutto sottolinea un’opposizione fra i protagonisti, a dare un ruolo centrale al sentimento amoroso. Per il regista, il divorzio è poco più di una lente attraverso cui studiare il rapporto di Charlie e Nicole, come a voler dire che per capire veramente come funziona qualcosa devi osservarlo quando ha smesso di funzionare. È la fine di una storia d’amore usata per raccontare un legame che va oltre il concetto di inizio, sviluppo e conclusione: una separazione che continua ad avvicinare in quanto esperienza comune, l’ennesima piccola parte di te di cui una sola persona conosce il valore.

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