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Andando a ripercorrere la cinematografia di Quentin Tarantino, si è tentati di racchiudere i messaggi contenuti nella sua opera in pochi assiomi. Il primo, importantissimo, è la capacità del regista di creare una divertente mélange che ripensa, rielabora, ripropone generi e stilemi classici e pop, creando uno stile unico e caleidoscopico. Ma in sé sterile: è un aspetto che parla del cinema col cinema, e solamente per il cinema. Il resto del mondo viene tagliato fuori; l’aspetto pop assume una dimensione warholiana, una sacralizzazione desacralizzante dell’icona, dello stilema popolare, che lo rende impenetrabile da uno sguardo non attento e intellettualizzato. Non c’è referenzialità in questo aspetto, se non la meraviglia del flusso di scene in qualche modo già interiorizzate dalla stessa tradizione del grande e del piccolo schermo, ma che rimangono mute per chiunque non abbia gli strumenti – alcuni grossolani, altri decisamente raffinati – per comprenderle.

L’ultimo film C’era una volta a… Hollywood, si presenta proprio in questo senso: una riflessione tutta metacinematografica, che diverte ma non tocca, perché, oltre a parlare di un mondo troppo distante dai più, ne parla strizzando l’occhio ai pochi che possono comprenderlo. È come se Tarantino esigesse che chiunque guardi un suo film abbia alle spalle lo stesso suo percorso; e siccome questo non è sempre possibile, chi vuole seguirlo si ritrova in una posizione subalterna, dove ogni scena diventa un vaticinio da interpretare andando a scavare nel background cinematografico del regista.

Altro assioma centrale nel messaggio tarantiniano è la violenza. Si è tentati giocoforza di leggere nelle esasperate carneficine, negli spari che esplodono, nel sangue che zampilla, che erompe, in ogni suo film, una natura dell’uomo hobbesiana, che si palesa nella sopravvivenza dell’individuo, nella ricerca incessante del potere, in una guerra di tutti contro tutti, dove l’eroe è solo colui che sopravvive alla faccia di tutti gli altri.

Ma la violenza di Tarantino, a ben vedere, è un gioco. L’esagerazione spesso pacchiana con cui vengono disegnate le morti, l’enfatico rosso del sangue, ha un carattere totalmente fumettistico e di finzione scenica. La sua è una violenza che – a parte i casi in cui diventa feticcio sessuale, bambola sadica – non ha la profondità per arrivare a turbare. La violenza tarantiniana è lì per far ridere. E in questo tratto ribalta Hobbes, schernendo alla base la sua filosofia. Perché la violenza è sì il modo in cui l’uomo si relaziona all’uomo, ma trova le sue radici non nella condizione necessaria e naturale dell’homo homini lupus, quanto piuttosto in un infantilismo che non sfugge al racconto eroicomico che ogni personaggio ha di sé stesso (Tarantino, consapevolmente, incluso).

Se su questi due messaggi si poggia la cinematografia tarantiniana, il loro manifestarsi nella pura visività parrebbe rendere superflua una trama. Eppure, nessuno penserebbe che senza una trama un film di Tarantino possa ancora essere tale. La stessa verosimiglianza, anche grottesca, dei personaggi non è data dal solo studio attoriale o dai soli dialoghi. Nelle azioni che quei personaggi compiono c’è un messaggio che, nascondendosi sotto la superficie della pura immagine, si rivela complementare per cogliere a tutto tondo la poetica del regista americano.

C’è sempre, in ogni film di Tarantino, un momento chiave, una svolta di trama che non viene dettata dal naturale sovrapporsi dei fatti raccontati. È una sottrazione di logica, un pugno a ciò che avrebbe senso, come se a un certo punto Tarantino decidesse di premere il grilletto per sparare al flusso della ragionevolezza. Dura solo un momento; poi tutto si ricompone: il senso ritrova un suo equilibrio, il filo della logica torna a scorrere fluente, i canoni del genere si riassestano. Ma tutto soffre di quel momento di assurdità. Ciò che c’era prima diventa un’altra storia, gli equilibri che vanno ricostituendosi devono fare i conti con la nuova realtà che si è creata. E forse è anche per quell’equilibrio che si ricompone che non ci accorgiamo, né ci stupiamo, di questa svolta improvvisa.

Quando Mr. White decide di prendere le difese di Mr. Orange sa benissimo di opporsi ai suoi compagni, a persone di cui si è potuto fidare più di una volta. Viene meno al buonsenso, ignora i rischi, si accanisce contro chi prova a ragionare, eppure persevera fino all’epilogo. Sa perfettamente che non è stato un poliziotto a ferire Mr. Orange, ma non ne prende mai atto. Non svela mai il perché della sua scelta; una spiegazione si intuisce vagamente, ma continua a cozzare fino alla fine con altri punti di vista, con altre possibilità che il suo incaponirsi ha abortito. E questa sua scelta dà il via a un’altra storia: quella che era partita come rapina si ribalta, diventando uno sviscerare rapporti, nevrosi, un cercare giustificazioni e accampare accuse e giustificazioni. Quello che all’inizio pare lineare – una rapina in banca, un poliziotto infiltrato – man mano che il film va avanti diventa sempre più ambiguo, fumoso, per trovare un equilibrio proprio nell’assurda situazione di un gruppo di criminali alle prese con etica e principi.

Django Unchained sarebbe potuto finire un’ora prima se il dottor Schultz avesse accettato l’offerta di Calvin Candie – offerta che, pur con tutte le vicende che l’hanno preceduta, era il loro obiettivo fin dall’inizio. Invece, contro ogni possibile logica, sceglie di ucciderlo, condannando a morte sé stesso e, verosimilmente, anche il compagno che l’ha aiutato fino a quel momento.  Il pubblico è contento; Leonardo di Caprio ha dato vita a uno dei più odiosi (e straordinari) personaggi della sua carriera, e un po’ speravamo tutti che succedesse. Ma perché? Il perché rimane da parte, viene lasciato all’oblio, scavalcato dal sangue, gli spari, le uccisioni. Ma la storia, da quel momento in avanti, diventa un’altra cosa; una carneficina non più in nome della vendetta ma della sopravvivenza.

E un enorme perché rimane taciuto anche in Hateful Eight. Il Maggiore Warren, da quando mette piede nel rifugio, ha già intuito il mosaico; le caramelle cadute tra le assi del pavimento, le domande al messicano, la sua esperienza… Tarantino prepara la scena per fare sì che il maggiore chiuda il film prima che inizi. Potrebbe spiegare tutto a John Ruth, al (sedicente) sceriffo, a Jackson, allearsi con loro – con qualcuno – per fare uscire la verità, per elaborare una strategia. No. Tarantino preme il suo grilletto e Warren non fa nulla. Provoca il vecchio generale sudista, mangia lo stufato, accetta che un western strampalato si trasformi in un giallo a porte chiuse. Ancora: da quel momento cambia tutto, ma nessuno se ne rende conto. Ciascuno semplicemente si trova a interpretare un nuovo qualcuno, un nuovo volto di un film che non è più lo stesso di poco prima. Solo perché il maggiore Warren ha scelto di non dire né fare nulla. E i suoi perché rimangono nebbiosi, se non inspiegabili.

Dovette ripensare […] a quanta motivazione psicologica esplicita fosse indispensabile a rendere convincente un personaggio. Si rese conto che avrebbe potuto amplificare smisuratamente l’effetto delle sue tragedie […] se solo avesse sottratto dall’intreccio un elemento esplicativo chiave, occultando così il principio logico, la motivazione, o il principio etico che spiegava il dipanarsi dell’azione. 

Queste righe sono scritte da Stephen Greenblatt a proposito dell’opera di Shakespeare a partire dall’Amleto. Amleto è il punto di svolta della a-causalità shakespeariana; è un antico Maggiore Warren che, sebbene sappia, sceglie di tacere, di giocare con la vittima, di fingersi pazzo portando alla follia e alla morte la donna (forse) amata e soltanto alla fine, quando ormai non ha nulla più da perdere, si mette davvero in gioco per fare quello che avrebbe dovuto fare dall’inizio. La scelta di non agire – scelta assurda, che non trova alcun argomento logico preciso per compiersi – è ciò che determina il declino tragico del racconto. Amleto, nel suo vivere a metà, è personificazione di quella mancanza di senso che Shakespeare dimostra di sapere utilizzare con consapevolezza e precisione.

Perché Iago odia tanto Otello? Perché Lear mette in scena la farsa della prova d’amore filiale quando ha già una soluzione bell’e pronta? I modelli shakespeariani – Giambattista Ciraldi Cinzio per l’Otello e gli stessi Queen’s Men per Re Lear – un senso ce l’hanno appieno: il prototipo di Iago è innamorato di Desdemona, mentre Lear agisce perché ha in mente un piano per incastrare in un matrimonio di convenienza la più giovane delle figlie. Ma Shakespeare sottrae questo senso, dando vita a delle opere altre, che proprio grazie al rifiuto di un significato compiuto e totalizzante acquistano un senso più profondo.

Tarantino non è Shakespeare; non gli interessa neanche esserlo. Soprattutto, Tarantino non è Amleto. Nell’ultimo suo film, C’era una volta a… Hollywood, il regista di Rick Dalton (Di Caprio) gli appioppa il nomignolo di «Amleto Malvagio» per una scena particolarmente riuscita. Ma considerando la situazione, l’egocentrismo ossessivo di Dalton, il film che si presenta come un dimenticabilissimo western, anche se il regista lo dice seriamente, a noi pubblico suona quasi canzonatorio. Tarantino non ha simpatia per gli Amleti e la malinconia; l’Amleto Malvagio è solo uno che vuole stare al centro dell’attenzione ed è disposto ad apparire folle pur di ottenerlo. Con quel nomignolo Tarantino ci mostra che lui non vive i suoi personaggi; piuttosto, li canzona benevolmente, li tortura un po’, li guarda da lontano, senza macchiarsi di un umorismo pirandelliano che lo porterebbe a empatizzare, ma affidandosi pienamente all’ironia. Alla sacralità dell’ironia. A differenza di Shakespeare – che è invece il più grande sacerdote del profondo dio Es –, lavora e costruisce le sue storie da fuori, rigettando l’identificazione (anche quando inserisce sé stesso nei film, il suo sguardo è sarcasticamente impietoso), e concedendoci al massimo di provare simpatia e antipatia. Fascino. Mai un rapporto più profondo si crea con i suoi personaggi.

Tarantino non è Shakespeare, ma ha un che di uno Shakespeare contemporaneo, disilluso, che ha alle spalle una tradizione fin troppo consolidata e sente il bisogno di affermare la propria fantasia, il proprio assurdo personale per ridare profondità a un mondo che ormai si è chiuso in sé stesso (e l’ultimo film del regista ne è l’emblema). In questo senso si possono leggere quella sorta di critica venerazione che hanno entrambi per i canoni dei propri modelli (che ribaltano prontamente), l’attenzione al gusto popolare da una parte, e alle sottigliezze tecniche e concettuali dall’altra, la percezione del proprio medium come finzione e insieme come unica chiave di lettura del reale.
Ma soprattutto è questo tratto – decisamente inconsapevole – che li lega: il voler sottrarre le vicende umane al dogma della logica. Pur accettando il racconto che i loro tempi gli hanno insegnato, non ne accettano le conclusioni, preferendo l’angoscia di un perché sospeso al sollievo di una risposta.

Durante la presentazione del suo ultimo film a Cannes, Tarantino ha parlato di Charles Manson, protagonista quasi invisibile dell’opera.

Io ho fatto molte ricerche, negli ultimi anni sono usciti libri, podcast, programmi televisivi, e quanto è difficile capire cosa pensavano queste ragazze e questo ragazzo. Più ne sai, più informazioni riesci a raccogliere, e meno diventa chiara tutta la questione. L’impossibilità di conoscerla a fondo, di capire, rende questa storia così affascinante.

Manson per Tarantino non è nulla di più che un’ombra fuggiasca su un vialetto. Lo spoglia di ogni cosa, di ogni carattere e caratteristica, riducendolo a un nome, un pappone col suo harem, un Bill spogliato d’epica che si costruisce un mondo suo perché incapace di vivere. Ma l’atto di violenza assoluta che Manson porta avanti non ha ragioni. Non è gioco, non è feticcio, è qualcosa che Tarantino non riconosce. Il regista preme il grilletto e alza le mani, riconoscendo l’insensato e decretando il limite oltre cui non può spingersi senza intaccare la propria onestà.

Ma riconoscendo l’oscuro, l’illogico, l’inspiegabile, Tarantino in realtà compie l’unico passo possibile per comprendere. Togliendo il senso dell’agire del killer Manson, ne riscopre la sua identità di uomo attraverso gli occhi dell’insensato. Perché è questo che la sottrazione della logica fa: toglie corpo alla struttura del racconto per ricostruire una verosimiglianza con l’assurda, contraddittoria, natura umana. Attraverso la negazione del significato delle azioni, Tarantino si riavvicina ai suoi personaggi; lo sguardo, l’emotività, l’identificazione rimangono lontani, ma vi è l’assoluta certezza del riconoscersi. È qui che si compie il messaggio più profondo dell’opera di Tarantino, qui, in questo riconoscimento, la sua più grande vicinanza all’opera del Bardo.

Quello che Tarantino e Shakespeare delineano, in definitiva, è un messaggio poetico, la ricerca di un senso che va a scavare nella soggettività e nella sostanza dell’inconosciuto.

Anche la parabola della poesia shakespeariana si chiude con una resa. La malinconica figura di Prospero, dopo aver torturato e umiliato i suoi nemici – al punto che Shakespeare sembra voler sottolineare il legame tra potere e vendetta –, all’improvviso, senza apparente motivazione se non un fumoso senso tra colpa e giustizia, rivela che il suo vero fine è la riconciliazione e il perdono. Ma è in quanto accade dopo che il messaggio poetico di Shakespeare si palesa. Il suo donare la grazia a uomini i cui atti ricordano tremendamente quelli di uno Iago, di un Macbeth o di un Claudio diventa uno specchio. Prospero rinuncia al potere demiurgico, magico ma illusorio, della parola (e quindi della poesia), e ci chiede perdono per i suoi atti a prima vista così assurdi. Noi diventiamo lui, lui diventa i suoi stessi nemici, le nostre azioni si mischiano con le sue e quelle di chiunque – eroi, malvagi, maghi e furfanti. Ma quel suo commiato è la resa sua e nostra all’incomprensibilità delle azioni umane, che diventa l’unica chiave per ottenere quella grazia (profonda, ma mai divina) che permette davvero di comprendere.

Heidegger, nella conferenza Poeticamente abita l’uomo, scrive:

Tutto ciò che, nel cielo e quindi sotto il cielo e sulla terra, splende e fiorisce, risuona e olezza, sale e si avvicina, ma anche ciò che si allontana e cade, che si lamenta e tace, che impallidisce e si oscura. In tutto questo che all’uomo è familiare […] si trasmette lo sconosciuto per rimanere quivi custodito e albergato come sconosciuto. […] Così il Dio sconosciuto appare in quanto sconosciuto nella manifesta apertura del cielo. Questo apparire è la misura sul quale l’uomo si misura.

Se poesia è il Dio Sconosciuto, la comunicazione poetica è l’atto deliberato e postmoderno di non obiettivizzare, di non portare alla luce, di riconoscere la necessaria oscurità che il soggettivo porta con sé. Privato di essa, il soggettivo diventa oggettivo, la poesia intelletto. Se i personaggi che il regista ci mostra agissero secondo logica, perderebbero forza, perderebbero quel carattere di oscurità necessario a spiegare i luoghi a cui l’obiettività non arriva.

Ecco: Tarantino e Shakespeare riconoscono l’oscuro, il non conoscibile del mondo e lo declinano nella insensatezza delle azioni umane. Ma prendendo coscienza di questo lato, come Manson e Prospero dimostrano, i due autori scavano più in profondità del lato puramente visivo o narrativo, e trovano una dimensione poetica: la resa all’insensatezza delle azioni umane è un ponte posto sull’indicibile, sull’oscuro, che scavalca violenza e illusione e arriva così a un messaggio universale.

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