L’ultimo film di Alma Har’el – un esordio se si escludono i suoi documentari – nasce dalla penna di Shia LaBeouf ed è incentrato sul suo rapporto con la figura paterna. Il progetto ha preso vita mentre LaBeouf era in riabilitazione: come parte del programma di terapia ha dovuto trascrivere i momenti più traumatici della sua vita e metterli in scena. La raccolta di questi episodi si è trasformata in una sceneggiatura che racconta l’infanzia travagliata di Otis – alter ego di LaBeouf interpretato, però, da Lucas Hedges – e, in parallelo, i suoi problemi da adulto e il conseguente percorso di guarigione.
Il film si apre distruggendo fin da subito ogni illusione sulla grandiosità del mondo hollywoodiano. Otis, adulto, sta girando la scena di un blockbuster e viene scagliato all’indietro da un’esplosione. Pochi secondi di una scena d’azione alla Michael Bay, seguiti da una lunga sequenza sulla realtà dietro le quinte, in cui Otis penzola tristemente da un cavo, floscio, aspettando mesto che qualcuno lo faccia scendere. A seguire, si alternano a un ritmo sempre più frenetico scene della sua vita da star: i film, i suoi pattern di comportamenti autodistruttivi, i suoi problemi di abuso di stupefacenti. Poi uno schianto in macchina sotto l’effetto di qualche sostanza, l’arresto, la riabilitazione per ordine del tribunale, la diagnosi di disturbo da stress post-traumatico e la terapia espositiva.
Ci siamo già fatti un’idea di Otis: arrogante, rabbioso, egotico, pieno di resistenze nei confronti di chi vuole aiutarlo. Siamo pronti a detestarlo. Ma poi comincia il suo racconto, che ci catapulta indietro nel tempo e ci costringe a rivedere la nostra prima impressione. Di nuovo Otis su un set, appeso a un cavo, stavolta dodicenne e coperto di torta. È un bambino dall’aria dolce, malinconica, sembra più piccolo della sua età ma i suoi occhi sono fin troppo adulti. Vive in una squallida stanza di motel con il padre (interpretato da LaBeouf), veterano della guerra in Vietnam, ex alcolista, criminale e clown da rodeo fallito che ora vive da parassita sul successo del figlio, facendogli da chaperon a pagamento.
Il film si alterna con equilibrio tra flashback e presente. Durante la riabilitazione Otis si rende progressivamente più vulnerabile, smettendo un po’ alla volta di recitare e prendersi gioco dei suoi terapeuti. Il velo si scosta e si comincia a vedere cosa c’è dietro: un passato di traumi e ricerca d’affetto in una spirale emotiva di sbalzi d’umore, incoraggiamenti, freddezza, derisione, attimi di tenerezza, violenza e abusi.
Non ci sono giudizi o prese di posizione come ci si potrebbe aspettare da un film così personale; non viene nobilitata o giustificata la figura di Otis né demonizzata quella di suo padre. La macchina da presa scivola sul tempo e sulle ferite senza dare opinioni, limitandosi a fare da finestra sul vissuto del protagonista. Uno sguardo così neutrale aiuta a immedesimarsi nei personaggi e nelle loro tematiche, apparentemente soggettive ma in realtà universali. Il tumulto interiore del padre, potenziato da una performance stellare di LaBeouf, porta in alcuni momenti quasi a empatizzare con lui, un uomo che non si è mai davvero confrontato con le tematiche che lo hanno portato all’alcolismo, e che distrugge tutto quello che ha intorno con reazioni esasperate. Un personaggio che viaggia in parallelo a quello di Otis adulto, che rischia di diventarne la copia, ma che durante la riabilitazione fa un passo in più rispetto al padre. Decide di lavorare sul dolore che lui gli ha inflitto, che a suo dire è «il dono più grande che mi abbia mai fatto», per cercare di spezzare il circolo vizioso di una lunga discendenza di alcolisti irrisolti.
Infine c’è di nuovo Otis, dodicenne, che porta sulle proprie spalle il fardello più pesante e universale: il bisogno d’amore. La sua ricerca disperata di affetto, che trova soddisfazione, forse, solo in alcuni momenti con la ragazza della porta accanto, è immediatamente riconoscibile e attraversa tutto il film.
Il costante conflitto interiore di Otis viene scandito nella sua immutabilità dai paralleli temporali: il seme del dolore che nasce nel bambino, nello squallore della sua stanza di motel, ha radici profonde che lo conservano anche nei luoghi sfarzosi e luccicanti della sua età adulta. Invece di diminuire cresce sempre più rigoglioso, avvolgendo e stritolando ogni parte della sua vita, persino le sue passioni.
Se per Otis bambino la recitazione era una fuga, l’unico luogo felice in cui non era soggiogato dalla sofferenza, è proprio nel dolore che il protagonista trova la linfa per interpretare i suoi personaggi da adulto. È lui a cercarla e rifuggirla in un ciclo continuo, sottolineato dagli ambienti che lo circondano. Nella piscina della clinica rivive i suoi momenti di sofferenza e di gioia nella piscinetta del motel, la camera condivisa con il compagno di stanza diventa la camera asfissiante in cui è cresciuto, e nel pollaio a cui deve dedicarsi per la riabilitazione ritrova le galline di suo padre, il clown in disgrazia, che occasionalmente lo conducono in qualche viaggio psichico e spirituale.
Nel dirigere Honey Boy Alma Har’el attinge dal suo background nella regia di documentari; in molte scene, quando entriamo in una stanza, sembra che i personaggi stiano già conversando per conto loro. Per restare fedele alla verità di questo viaggio psicologico e tirare fuori le emozioni dei personaggi in tutta la loro purezza, la regista ha lasciato molta libertà stilistica e di interpretazione: ha dato libero spazio all’improvvisazione più che a un copione; i dialoghi si sovrappongono in maniera organica, i movimenti fluiscono senza limiti di posizione o spostamento.
Har’el è una documentarista che spezza i dogmi del genere, sfumando le linee di confine tra documentario e narrativa, tra reale e surreale, e sa dialogare con l’onirico, a volte quasi sospeso – caratteristiche che si sposano perfettamente con la natura di questo film.
La direttrice della fotografia Natasha Braier, già nota per Gloria Bell e The Neon Demon, regala un’esperienza visiva avvolgente e nostalgica. Le luci alternano con impertinente lascivia colori primari e tinte pastello, neon acidi e vivaci nella notte e morbidi tramonti californiani. Lo scenario sfuma con grazia i passaggi tra un presente nitido ma sempre permeato della luce soffusa che pervade tutto il film, un passato che ricorda una vecchia fotografia un po’ sbiadita e sequenze immaginative immerse in un’atmosfera sognante, fiabesca. Le scene scorrono armoniosamente in un unico microcosmo sospeso nel tempo e nello spazio.
La vera sfida per Braier, su un set in cui c’era più improvvisazione che copione e un approccio al confine tra documentario e film, è stata quella di costruire un’atmosfera cinematografica senza disturbare dei momenti così intimi ed emotivamente intensi. Ha dovuto reinventare completamente il proprio metodo, intrufolandosi nelle scene senza far avvertire la sua presenza. Ha messo a punto un sistema di led regolabili, posizionati in punti strategici delle telecamere e delle scenografie, spesso integrati nell’ambiente stesso. Isolata in una tenda, controllava le consolle e regolava delicatamente le luci per poter seguire gli attori ovunque i loro movimenti imprevedibili li portassero.
Shia LaBeouf, in veste di sceneggiatore oltre che di interprete, in questo film rimette in scena momenti traumatici della sua infanzia, e la bruciante realtà delle sue ferite emerge dalla potenza della sua recitazione. Invece di scegliere la via apparentemente più facile di rappresentare sé stesso, decide di chiudere il cerchio in questo percorso nel ruolo del proprio carnefice. Ne dà un’interpretazione cruda, forse fin troppo realistica, sicuramente abbastanza destabilizzante da farci contorcere per il disagio.
Noah Jupe e Lucas Hedges, che interpretano rispettivamente il protagonista da bambino e da adulto, hanno lavorato in tandem per creare due personaggi che fossero uno. Piccoli gesti, espressioni e vocalità hanno plasmato l’evoluzione di Otis in maniera armoniosa, contribuendo alla sorprendente fluidità e delicatezza di un film dal tema così duro.
Questo racconto così forte e privo di filtri rischiava di risultare banalmente brutale, l’ennesima storia che lascia con un groppo in gola e in testa la rassegnata considerazione che forse sarebbe stata meglio una commedia. Eppure riesce, grazie a un insieme felice di interpretazioni schiette, uno sguardo diretto ma mai invadente e una piccola dose di esoterismo, a creare uno spazio sicuro, dove ci si può immergere senza scottarsi. Così si crea un meccanismo di reciprocità tra il personaggio e lo spettatore, che entra in risonanza con le tematiche del film. Si inizia a comprendere l’importanza della riabilitazione, e si è pronti ad intraprendere con il protagonista questo viaggio. Un percorso tortuoso, in cui è necessario tornare indietro per poter andare avanti, e per quanto il cammino sia accidentato Honey Boy riesce a condurci lungo tutto il tragitto senza mai deragliare. E dopo un lungo pellegrinaggio, spesso caotico, attraverso il tempo, lo spazio e i sogni, non importa se la guarigione sia vera o immaginaria: Otis ha avuto la sua catarsi, è rinato, e con lui lo spettatore.
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