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«Lovecraft ha scritto le sue storie e queste hanno finito per permeare la cultura occidentale. È questa la cosa più inspiegabile. Insomma, perché nessuno si è mai accorto di quanto sia stato improbabile
Alan Moore – Providence #12

Nessuno scrittore horror nel XX secolo ha avuto più influenza sull’immaginario culturale del famigerato solitario di Providence. Da qualsiasi latitudine del globo la Costellazione Lovecraft è ben visibile: l’America è la prospettiva attraverso cui guardarla meglio; lo prova la recente serie televisiva Lovecraft Country della HBO, tratta da un romanzo del 2016 di Matt Ruff, ma anche il fumetto Providence dell’inglese Alan Moore (disegnato da Jacen Burrows), il cui concept è molto simile: ovvero, sfruttando uno stile da rivista weird o pulp dell’epoca, ci viene svelata una realtà sommersa disseminata per gli States, dove i miti di Cthulhu, il Necronomicon, i discendenti dei Grandi Antichi e le società segrete convivono con il razzismo sistemico, il sessismo e una realtà sociale complessa. Reinterpretando la questione della xenofobia che circonda l’uomo Lovecraft (perché se osserviamo bene la Costellazione Lovecraft non possiamo certo ignorarne gli orrori), in America si è iniziato da tempo a decostruire il suo immaginario in chiave critica e sociale. In Lovecraft Country, scritta da Misha Green e prodotta tra gli altri da quel Jordan Peele che ha dimostrato un talento unico con Get Out e Us, la colonizzazione dell’immaginario lovecraftiano viene quindi ribaltata, in una vicenda che mette al centro del discorso il segregazionismo degli anni ’50 e una sorta di riappropriazione simbolica del genere. La storia della famiglia afroamericana Freeman che si ritrova invischiata nelle macchinazioni della famiglia di stregoni bianchi Braithwhite è un arazzo fatto di una stoffa particolare: ogni episodio incorpora elementi diversissimi tra loro (persino il musical) per creare un ibrido dove i generi più dozzinali veicolano messaggi sociali sempre al centro del discorso. C’è il plot della casa stregata, quello di un’avventura al museo stile Indiana Jones, il tipico shoggoth che decima i personaggi asserragliati nella loro «cabin in the woods», una scappatella in Asia per scoprire un demone orientale, persino una virata brusca verso lo sci-fi più fumettistico: tutto in un grande zuppone, meno riuscito rispetto al romanzo originale, ma dove l’obiettivo è chiarissimo: questo immaginario è vitale, ci circonda e nessuno può arrogarsene l’esclusiva. In Providence di Alan Moore, rilettura geniale della Costellazione Lovecraft ambientata prevalentemente nel 1919, uno dei personaggi chiede interdetto se «i nostri sogni sono un paese conquistato e ora vogliono rovesciarci». Il magus inglese sa bene quanto l’immaginario – i simboli – siano una realtà concreta, non un’astrazione senza effetti su ciò che ci circonda. E che questi sogni possono tramutarsi in incubi se non siamo coscienti della loro pervasività ancestrale e di come recepirla. Sia in Providence che in Lovecraft Country il principio narrativo resta lo stesso: la possibilità che la mitologia di Lovecraft non sia una descrizione escapista bensì una trascrizione della realtà di cui Lovecraft fu un brillante codificatore.
La Costellazione Lovecraft è diffusa dappertutto e tutti se ne servono. Si tratti degli adattamenti manga rispettosamente filologici del giapponese Gou Tanabe o di un film dimenticato come Dark Waters del napoletano Mariano Baino (ma ambientato in un’isola del Mar Nero, con riti satanici nelle famigerate catacombe di Odessa), possiamo voltarci ovunque: la luce riflessa della Costellazione Lovecraft ci circonda, ereditata dal passato e proiettata già al futuro. Come migliaia di tentacoli disseminati ovunque lastrica le strade del nostro immaginario con colori mai visti prima.

Apocalisse cromatica
A proposito di colori, Lovecraft provava molto affetto per Color Out Of Space. Si può dire, con un certo margine di sicurezza, che lo considerasse una delle sue prove migliori: rileggendolo si capisce anche perché. C’è una successione di eventi annichilente in questo racconto sci-fi, eventi che non si limitano a essere narrati ma vengono rappresentati da un pittore che sta cercando di dipingere con colori non presenti sulla scala cromatica – non su quella umana, almeno –, filtrati da un prezioso racconto nel racconto dove lo spazio fisico quotidiano (la casa, il pozzo, la foresta) impatta con un’entità imprevedibile, dal comportamento sconosciuto alla nostra fisica, che viene dallo spazio profondo e lì ha la sua dimora.
Ed è pronta a succhiare tutta la vita che può.

Lo spazio fisico di una fattoria qualunque quindi, in seguito all’impatto di un asteroide, lentamente degrada, diventa gonfio, fintamente prospero (i cavoli giganti ma dai colori strani), poi purulento (il raccolto dall’odore nauseabondo, l’acqua disgustosa), weird (conigli e vari animali assumono connotazioni biologiche nuove e «sbagliate»), infine si comprende quanto gli stessi uomini lì presenti ne siano contaminati mentalmente, andando incontro al proprio destino da cui essi stessi in primis non vogliono sfuggire.

C’è una cosa che insegna Lovecraft, come Flaubert, essendo entrambi due cattivissimi maestri: ovvero che l’ignoranza è spesso di gran lunga la scelta preferibile. Se vuoi scoprire l’ignoto, sondarlo, saperne qualcosa in più, beh, la conseguenza sarà la follia, la morte o entrambe.
Così, la vicenda della famiglia di Nahum Gardner che degradandosi diventa mostruosa insieme alla sua Landa Maledetta è senza dubbio tra le più ispirate dello scrittore di Providence. Di più: la diremmo sintomatica di una enorme produzione che su questi temi insiste ossessivamente. Il racconto non è invecchiato, lo stile di HPL (di solito così prolisso da esserne soffocato e zavorrato) è un fiorire creativo di suggestioni perturbanti in cui riesce a equilibrarsi tra il mostrare abbastanza e il non dire troppo. Naturale ci siano state svariate trasposizioni al cinema, eppure nessuna di queste è riuscita a lasciare davvero il segno – facendo sì che sul racconto gravasse lo stigma tipico assegnato dai fan ai lavori di Lovecraft: infilmabili. Non possono essere trasposti direttamente, punto. E se c’è stata qualche eccezione è da ricercare in talenti affini più unici che rari, come Stuart Gordon (Re-Animator, From Beyond). Questo fino al 2019, quando un regista è tornato dal mondo dei morti riuscendo a finire un film come voleva lui e dimostrando che filmare direttamente la Costellazione Lovecraft puntando la telecamera in quell’abisso spalancato sul cosmo era possibile.

Il regista sudafricano Richard Stanley ha avuto una carriera piena di traversie degna in tal senso di Orson Welles: horror rimaneggiati e disconosciuti (Demoniaca), un esordio cyberpunk intelligente ma poco considerato (Hardware – Metallo letale), licenziamenti in tronco dopo i quali non ha più diretto lungometraggi (L’isola perduta). C’è una costante in tutti questi lavori, abbandonati o abiurati che siano: in alcuni paesaggi desertici e isolati, minati da un’indifferenza morale generalizzata, la distruzione implacabile arriva sempre da un elemento estraneo, che in questi mondi post-apocalittici avvelenati dal retaggio di antiche magie oscure prende l’aspetto di un demone mutaforma, di un cyborg assassino. O di un colore venuto dallo spazio. 

Dopo aver diretto nel film collettivo The Theatre Bizarre (2011) un racconto di Clark Ashton Smith, The Mother of Toads, in cui fa la sua comparsata anche il più famoso pseudobiblion lovecraftiano (il Necronomicon, naturalmente), sembra quasi naturale che Stanley dovesse approdare al grande sodale di Ashton Smith, ovvero Howard Phillips Lovecraft. Ed è nel 2019 che riesce a portare a termine, dopo quattro anni di lavoro con la produzione della Spectrevision di Elijah Wood, Color Out Of Space, che è il racconto di HPL con il più alto tasso di pericolo vaccata.

Eppure Stanley riesce laddove molti predecessori non sono riusciti. Prende questo racconto che sul frutto (marcio) della suggestione basa tutto e riesce a trarne un adattamento ammirevole sotto tutti i punti di vista, sia quando segue Lovecraft, sia quando lo modifica o si prende libertà che nel racconto mancano. Il tutto con delle premesse su cui nessuno avrebbe puntato un euro: dalla lontananza forzata dai set importanti durata decenni al ruolo di protagonista di Nicolas Cage.

Come ci è riuscito? Prima di tutto, inevitabile, il colore del colore, un elemento che nel racconto non può essere descritto: ci si può limitare con la parola a ripetere che è un colore mai visto. Nel film la soluzione è ingegnosa: una ridda di colori accesi, innaturali, che l’idea di alieno la dà eccome e predilige un porpora alienante. Un escamotage già usato in The Mother of Toads, dove la soggettiva del rospo mostruoso rifletteva dei colori allucinati e una prospettiva di certo non umana. Sembra poca cosa ma è già tanto: il film è psichedelico, si potrebbe dire – e questo contribuisce al suo fascino sin da subito.

Rispetto al racconto di Lovecraft è diversa però anche la famiglia Gardner: la sceneggiatura dedica a ciascuno di loro una connotazione psicologica più marcata. Abbiamo tempo di affezionarci alle loro figure e di fare la loro conoscenza, come da horror vecchia scuola. Il capofamiglia Nahum diventa un più comune e meno ingombrante Nathan, ma ha anche una attitudine grottesca che nel racconto originale manca. Gli altri due figli, un bambino e un adolescente tipico, sono figure stereotipate che è possibile ritrovare in qualunque famiglia. La moglie di Nathan, Theresa, è una consulente finanziaria sull’orlo di una costante crisi di nervi, sia per la lontananza dalla modernità (il segnale wifi che viene spesso a mancare è causa di continui litigi), sia per il suo ruolo di moglie (in seguito a una mastectomia non si sente più attraente).
Va segnalata inoltre l’aggiunta di un membro femminile appassionato di wicca, Lavinia: nel racconto gli anonimi figli erano solo due maschi indefinibili. Questa aggiunta femminile stravagante ha più di una giustificazione, sia narrativa che teorica. Per quel che riguarda il primo caso, stiamo pur sempre parlando della figlia di un mezzo svitato con il sogno di vivere fuori dal tempo e lontano dalla civiltà, barricatosi in una fattoria del New England per stare lontano dal mondo moderno ad allevare alpaca; per quanto conflitto generazionale possa esserci (e nel film le tensioni padre/figlia sono uno dei grandi nodi centrali che danno grande impatto alle scene più drammatiche), questo serve a rinsaldare le differenze e le somiglianze tra genitore e figlia: il loro modo di reagire ai traumi della società contemporanea è simmetrico, con risposte dal sapore retrò pescate al di fuori dell’alveo razionalista. Se Nathan è figlio della controcultura anni ’60, Lavinia ne è quindi la nipote: la via del neopaganesimo – quindi di un sapere antico e magico solo apparentemente irrazionale – è l’unica difesa personale che sanno ergere al dilagare del capitalismo e del suo stile di vita. In fondo è la stessa scelta di Alan Moore, il cui Providence è anche un ragionamento speculativo sulla magia e l’apocalisse – e su cosa accade quando soccombiamo a un immaginario fuori controllo nella società moderna.

Sul piano teorico la questione wicca è più complessa: la stregoneria nei lavori di Stanley è sempre presente, in un modo o nell’altro: basti pensare che, per realizzare Color Out Of Space, il regista sudafricano ha eseguito sui Pirenei una sorta di rituale al dio lovecraftiano Yog-Sothoth. E si può dire che quando non è la magia nera propriamente detta ad esserci è la tecnologia ad assumere una veste stregonesca e distruttiva (Hardware); ma ha ancora più senso se pensiamo a quanto molto horror contemporaneo si abbeveri alla fonte di un’altra ossessione tipica della Costellazione Lovecraft, declinata in svariati modi: quella sull’antica matrice pagana che ci fa intravedere un mondo sommerso tra le intercapedini di quella che crediamo la realtà – o addirittura una prospettiva extra-dimensionale (come nel caso del racconto I sogni nella casa stregata). Il cinema dei nuovi capiscuola dell’horror americano, Robert Eggers e Ari Aster, insiste non a caso su questi temi, ma possiamo rintracciarne la presenza anche in film meno considerati come quelli di Ti West (The House of the Devil), e più indietro ancora in The Wicker Man o nel filone di horror (persino nostrani, vero Pupi Avati?) di cimiteri indiani e similia. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole: è dai principi dell’horror letterario che il tema della civiltà umana, all’apparenza più razionale e logica, si scontra con le sue origini ataviche e profonde, i suoi incubi nascosti, il suo doppelgänger celato alla vista. Nei racconti di E.T.A. Hoffmann di inizio ’800 è un leitmotiv l’utilizzo di tecnologie scientifiche sofisticate (oggetti ottici) che invece di dare un ordine rassicurante alla realtà la deformano, scoprendo mostruosità che non dovrebbero esistere e precipitano l’uomo nell’allucinazione. È ciò che accade nella Costellazione Lovecraft, imbevuta di letture settecentesche e ottocentesche: il prezzo da pagare per la scoperta di ciò che è davvero la realtà è una negatività terrificante, distruttrice e maligna fatta di entità mostruose; strano ma vero, in questo Lovecraft ha un grande alleato in una personalità che sembra ai suoi antipodi, cioè il Marchese de Sade: pur avendo vissuto una vita completamente diversa in secoli differenti la loro filosofia è simile; ci dicono entrambi che le strutture con cui guardiamo alla realtà e cerchiamo di tenere unito il tessuto sociale sono fragili una volta scoperto, con gli strumenti della razionalità, quanto la Natura non sia quell’armonioso edificio che credevamo di conoscere, bensì un indefinibile abisso di distruzione dove l’uomo è abbandonato a sé stesso, ai suoi capricci, ai suoi mostri. Il Divin Marchese fu una sorta di anticipatore o anomalia del genere gotico – e Lovecraft è pur sempre il nume tutelare del gotico americano.

Biografie impossibili
Ma in Lovecraft il principio della realtà mostruosa trae linfa da una diversa matrice autobiografica: ovvero la ricerca delle proprie origini e il retaggio degli antenati (anche qui, ciò che in Lovecraft Country è il motore del plot: Atticus Freeman, in una famiglia disfunzionale come Lovecraft, che parte verso Ardham per capire chi è in realtà). Nel caso di Lovecraft questa ricerca portava a due genitori mentalmente instabili e quindi a una degenerazione che poi vedremo riflessa in tutto il cosmo, con una mitologia negativa, oscena e scandalosa.
Integrando la questione della stregoneria, seppure in ambito new age, Stanley riannoda quindi un dispositivo tipico della scrittura di Lovecraft, in un film dove il tema familiare dello scrittore di Providence altrimenti si limiterebbe all’accettazione passiva della distruzione da parte di un’entità proveniente dal cosmo profondo.
Osservando meglio la Costellazione Lovecraft, inoltre, vediamo come nel racconto L’orrore di Dunwich uno dei personaggi principali della storia è anche una delle rare figure femminili create da Lovecraft: l’albina Lavinia Watheley, al centro suo malgrado di una vicenda intrisa di echi incestuosi e soprattutto magia nera evocativa.
Lavinia: come la figlia che non c’era e che Stanley decide di evocare in Color Out Of Space, il primo capitolo di una trilogia filmica che vorrebbe avere L’Orrore di Dunwich come seconda trasposizione. Nella sceneggiatura di Stanley e Scarlett Amaris tutto trova la propria giustificazione, dentro e fuori.

Insomma: se nel racconto di Lovecraft ci si proietta sulle azioni e le (poche ma terribili) parole del capofamiglia Nahum, nel film la famiglia è un aggregato con più interazioni, profondità e legami di cui intravediamo le connessioni profonde, grazie alle quali possiamo partecipare in modo più sentito – e meno distaccato – alla loro inesorabile distruzione fisica e mentale. Un nucleo sociale qualunque, che abita in una zona in culo al mondo e che deve fare i conti con una entità altra che la distrugge dall’interno: una cornice tipica da cinema horror anni ’80, di cui Color Out Of Space è al contempo omaggio e summa sia nel plot che nelle varie soluzioni visive; si pensi a La Cosa di Carpenter (la cui ispirazione diretta, il racconto di John W.Campbell, è a sua volta ispirata a Le Montagne della Follia della Costellazione Lovecraft), o addirittura ad Alien di Ridley Scott (nei recenti Prometheus e Alien: Covenant tornano alla ribalta i miti degli Antichi, ispirati naturalmente alla solita Costellazione). 

Come in Shining di Kubrick/King il conflitto non è dato solo dal mostro, o fantasma: è un nucleo familiare dall’equilibrio precario il vero problema, a cui un elemento perturbante fa crollare tutte le (pochissime) certezze.
Il suggerimento implicito è che facendo fronte comune avrebbero potuto farcela, come provano a farcela i Freeman di Lovecraft Country verso le macchinazioni della famiglia di stregoni Braithwhite. E invece…

E invece Stanley mostra l’orrore intollerabile, quello contro cui si è indifesi e non si può reagire. Lo fa saltando il lato più scientifico del racconto di Lovecraft, laddove nel testo lo scrittore lasciava spesso spazio ai rilievi eseguiti dagli esperti dell’università di Miskatonic. Vero, la voce narrante con cui il film si apre è quella di un idrologo ma questi si limita a ribadire degli orrori a cui stiamo per assistere e del mistero che si portano dietro. Qui non c’è nulla da poter spiegare, ma neanche la voglia di volerlo fare, come se venisse a mancare persino il tentativo di ricondurre a un minimo di raziocinio la potenza aliena che travolge la famiglia Gardner. Cosa resta? Solo la spirale di follia che investe uomini, animali, piante e acqua, e con loro lo spettatore. Ma Color Out Of Space è anche un punto d’arrivo credibile: quello di un cinema – a posteriori lo definiremmo artigianale -che è intriso di Lovecraft: da Roger Corman a Sam Raimi (le lezioni de La Casa si rivedono in molte sequenze), da John Carpenter al più fedele lovecraftiano degli autori cinematografici, ovvero Stuart Gordon, in un’amalgama che passa con naturalezza dal body horror all’horror più vintage. 

Tutti uniti in questo agglomerato di demenza e follia, nella grande ossessione di continuare a fare cinema con un occhio agli abissi celesti, e a ciò che vi si nasconde, quella Costellazione che ancora non è stata completamente scoperta – pena, forse, la follia (?). In un immaginario che continua a modificarsi davanti ai nostri occhi ogni giorno di più ma non sembra pronto a mollare la presa, Color Out Of Space ci regala la rinascita di un grande autore che affronta di petto un mostro sacro – e dimostra che nulla è infilmabile. Neanche quegli abissi celesti da cui provengono queste storie, questo immaginario di cui è vitale reimpossessarsi prima che ci divori.

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