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Dall’horror all’epica, con ricerche estetiche distanti tra loro, Robert Eggers ha dimostrato coi suoi primi tre film di essere un regista quanto mai poliedrico e con un controllo totale dei mezzi registici. Rimaneva forse qualche dubbio su un unico punto: qual è il nucleo tematico attorno al quale la sua opera è costruita? Tra il primo, The Witch, e il secondo, The Lighthouse, sembrava esserci uno scarto non indifferente nei temi affrontati. Ma nell’ultimo film, The Northman, questo dubbio viene meno. Epico viaggio dell’eroe, di un Amleto vichingo, storicizzato, testimone della morte del re padre per mano dello zio, che lo costringe alla fuga. Il suo ritorno in nome della vendetta (falso ritorno: non tornerà mai a casa, perché lo zio è stato sconfitto ed esiliato in Islanda) è benedetto dal fato e da Odino, parallelo divino del suo stesso padre assassinato.
In modo evidente, quasi didascalico, paterno e materno sono i due pilastri su cui si regge il film. Ed ecco dove si scioglie il dubbio: la ricerca di Eggers è tesa a mostrare la tensione tragica, irrisolvibile tra maschile e femminile .

L’evidenza del tema ha generato una serie di critiche su una supposta dimensione “machista” del film; ma queste sovrappongono due (e più) piani ben distinti tra loro: sociale-biologico da una parte, e poetico-archetipico dall’altra. Francesco Benozzo, in merito a un eventuale ruolo sociale di cui il poeta dovrebbe caricarsi, scrive: «L’alternativa per un poeta, che io sappia, è sempre stata quella di radicarsi ai fondali da cui anche la realtà che gli sta intorno è stata generata. Radicarsi alla realtà è cadere in un tranello».1F. Benozzo, Poesia, scienza e dissidenza, 2020, Biblioteca CLUEB, pg. 132 

Dopo una lettura dell’opera di Eggers alla luce di queste parole, è evidente il modo in cui le critiche di machismo mancano il bersaglio. La poetica di Eggers cerca di toccare il sostrato da cui la realtà scaturisce; rifarsi alla realtà per spiegare la poetica rischia di risultare una ricerca sterile del sintomo, una diagnosi che perde di vista la causa primaria. Se quasi giocoforza i personaggi femminili sono interpretati da donne, non è affatto detto che il significato che quei personaggi portano in sé all’interno dell’opera debba essere riversato sulla donna (e non, come sembra essere, su un’istanza simbolica femminile comune a donna e uomo biologici). Anzi, pensando a un film come The Lighthouse,in cui il femminile è rappresentato da un mostro-statuetta (la sirena) e, in modo più complesso, da un’entità inanimata (la lampada del faro, e la luce che emana), capiamo forse meglio quanto, nel cinema di Eggers, l’aspetto simbolico sia caricato di significati molto più pregnanti rispetto agli aspetti sociali o biologici.
L’evidenza di questo dualismo sembra invece denotare altro: una virata poetica – non improvvisa: soppesata, incubata – che indica una presa di coscienza verso un problema (anzi: verso il problema) già presente nei primi due film ma mai come cardine tematico. Il dilemma, come detto, appare irrisolvibile: esistono due metà nel mondo, in ognuno di noi, che possono incontrarsi, scontrarsi, compenetrarsi, ma mai comprendersi. Per rendere evidente quest’intento, Eggers non si limita a una narrazione epica classica, un canonico viaggio dell’eroe: gioca con i simboli, gioca col racconto, con gli stilemi, con i riferimenti. Usa il gioco per mostrare le sue intenzioni narrative.

È evidente sin dal protagonista: il principe Hamleth, che dal riferimento shakespeariano dovrebbe portare in sé il dissidio mai risolto tra l’agire e il subire, tra attivo e passivo, tra la necessità del dogma maschile della vendetta e la comprensione femminea, intuitiva della vanità del reale, viene storicizzato e appiattito. L’Amleto di Eggers è un AntiAmleto. Non ha in sé alcun dissidio; nelle parole della sua stessa madre risulta un semplice, uno stupido come il padre. Anche messo davanti al fraintendimento della tragedia famigliare, si rifiuta di modificare la sua condotta e i suoi principi, preferendo la semplicità del dogma alla complessità del reale.

Questo fraintendimento genera un altro gioco: la linearità del racconto epico è spezzata, e l’eroe si trova davanti al dubbio – subito scartato dalla sua mente semplice – della vacuità di ogni sua azione. È un’intrusione della realtà e delle sue sfaccettature all’interno di una narrazione che per esigenze archetipiche deve essere semplice. Lo spettatore capisce il tuttotondo dei protagonisti: quello che credevamo nemico disumano è in realtà un uomo con le sue ragioni più che umane, e quello che credevamo essere un re perfetto è anch’egli un uomo con le sue imperfezioni. Di più: la situazione quasi si ribalta, e il re-padre si rivela un essere umano meschino, incapace di comprendere l’altro e abituato a strappare con la forza ciò che desidera. Un semplice, uno stupido, un bambino. Ma l’AntiAmleto – essendo semplice, stupido, bambino – non può accettarlo. Ha una sola strada da seguire, e ogni cosa deve piegarsi a questa necessità. Ciò che ne diverge, ciò che non è comprensibile, è nemico.

Il suo tragitto è segnato dal maschile; il femminile deve essere sacrificato perché diverso e non assimilabile: Odino ha perso un occhio per cercare di penetrarne il mistero; lui deve fare altrettanto. Così segue il rituale magico imposto dal padre: il cucciolo diventa animale. E, adulto e orfano, ancora, con un altro rito di passaggio, diventa un berserkr, un uomo-bestia, dedito a seguire violenza e istinti.
Secondo Campbell, la magia maschile è imitazione; è simulacro fittizio del suo corrispettivo femminile:

[…] Nelle mitologie di diverse società arcaiche […] si riscontrano leggende di questo tipo: in origine tutto il potere magico apparteneva alle donne. Gli uomini allora le sterminarono, risparmiando solo le ragazze più giovani, e si accaparrarono quella conoscenza senza trasmetterla alle sopravvissute. […]In generale, quando […] c’è una società maschile dedita a riti segreti, le donne vengono seriamente intimidite da un pantheon di spettri scientemente inventati che appaiono (mascherati) quando vengono messi in scena i riti. Però – e qui sta la grande sorpresa – […] in occasioni rare e particolarmente sacre possono essere messi in piedi dei cerimoniali maschili che vedono la partecipazione delle donne e che fanno apparire così la verità segreta: le donne conoscono appieno i riti degli uomini e sono riconosciute ancora come le depositarie di un potere più grande e fondamentale. L’altro sistema di credenze è secondario, non per natura, ma per struttura sociale, ed è accettato dai membri di entrambi i sessi all’interno di un gioco di finzione sofisticato e socialmente utile2J. Campbell, Dee, Tlon, 2020,pp. 19-20

Ed è infatti una donna a ricordare all’AntiAmleto chi egli sia. E così torna il gioco dei riferimenti: una veggente a metà tra carne e spirito, senza occhi, un Tiresia ancora mutato in corpo di donna, cieco per aver guardato la Dea vergine, Artemide (in questo, Odino è parallelo e fratello). Ma a questa Tiresia che spinge l’AntiAmleto a tornare a casa, gli occhi sono stati strappati dai berserkr, dalle bestie maschili; ancora questo dissidio, questa incapacità di convivenza: né maschile né femminile possono guardarsi l’un l’altro senza essere puniti e perdere la capacità di vedere (non è forse un caso che nel villaggio distrutto dai berserkr una donna passi a cavallo gridando a gran voce la debolezza dei suoi avversari, ma invisibile perché in armatura).

Il femminile per Eggers è qualcosa che l’occhio maschile non può cogliere o sopportare. Che sia un mostro mezzo donna e mezzo pesce (The Lighthouse), una donna senz’occhi che scompare dopo aver proferito ciò che doveva (The Northman), una mano che spunta improvvisa da fuori scena (The Witch; unico jumpscaredell’intero film): è un qualcosa al di là dei sensi. Non è il femminile terribile ma androgino – quindi comprensibile – della Valchiria che trasporta nel Valhalla l’AntiAmleto morto. Questa – con gli attributi marziali dell’elmo e della lancia – è al servizio di Odino, la cui mezza cecità unisce due mondi: è un femminile che si è convertito alle leggi virili della lotta e della servitù (così come lo è Olga, confusa dall’AntiAmleto per una Valchiria, che offre il proprio aiuto e il proprio corpo all’eroe, e diventa strumento della sua realizzazione personale e dinastica). Quello di cui si ha terrore è un femminile selvaggio, non addomesticabile, il sostrato profondo delle azioni umane che rifugge qualunque logica di causa-effetto, qualunque imposizione, qualunque sentiero dogmatico imposto dalla tradizione. Se il filo del femminile parte dalla veggente cieca, questo si compie poi nell’incontro tra l’eroe e la madre; scontro tra istanze che paiono desiderarsi – anche carnalmente – ma che non possono accettarsi l’un l’altra.

Non ha senso credere che Eggers dia una valutazione positiva o negativa del maschile o del femminile. Entrambi – i berserkr e il padre dell’eroe da una parte, l’impulso vorticoso e inconscio della madre dall’altra – hanno un aspetto di terribilità, di repulsione inumana. Un aspetto invisibile a chi ne è immerso, che vede solo l’orrore, il male, dell’altra metà e percepisce le proprie ombre come caratteristiche neutre, intrinseche.

Il Tiresia di Pavese, nei Dialoghi con Leucò, apostrofa Edipo con queste parole:

Non c’è dio sopra il sesso. È la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto?

Nessuno, è la risposta implicita. E a maggior ragione nessun uomo. Quello che attende chi prova a comprenderlo è la condanna: unica conseguenza possibile dell’unione parossistica, incestuosa, di due istanze che non possono convivere. Tanto più che l’unione edipica realizzata sovrastando il maschile paterno, e che si attua con il femminile più profondo – quello materno –, porta alla morte e, di nuovo, alla cecità. Eggers sembra abbracciare la stessa visione.
La madre dell’anti-Amleto liquida con una battuta oscena l’arma dell’eroe. La spada/elisir, strumento della realizzazione virile della vendetta (snudabile solo di notte, o davanti alle porte di Hel, luogo di incontro tra vita e morte: quindi in ogni caso simbolo dell’unione impossibile tra le due metà), davanti al mistero diventa oggetto inutile, si ripiega in sé stessa. E in questo ripiegamento/morte della virilità, s’avanza un momento di promessa incestuosa che sembra allettante; ma è frutto dell’oscuro, del non comprensibile, e il maschile non può accettarla. Anche davanti all’immagine di uno zio mostruoso che diventa uomo, anche davanti a un padre/dio che comincia a sgretolarsi, l’eroe deve appigliarsi al dogma crudo, inviolabile, del maschile.

La complessità insondabile di ciò che si nasconde nell’altra metà – quella materna, inconscia – è inaccettabile, ma solo perché genera paura. È questa la poetica che soggiace all’opera di Eggers: le due metà non si possono guardare perché sono terrorizzate dalle rispettive verità.
Così è la veggente: cieca per l’impossibilità del femminile di assistere alla vittoria totale dei berserkr, bestie vassalle del maschile; ma è l’unica (in quanto donna) a poter portare a termine il compito di messaggero magico, divino. La sua successiva sparizione è segno del suo non essere concepibile nel mondo forgiato dal maschile.

È il caso di Thomasine in The Witch, che segue il percorso inverso rispetto all’AntiAmleto: piano piano si rende conto dell’intima follia del dogma e lo rifugge, abbraccia il bosco, l’oscuro, l’insondabile, il diavolo (che è il male solo per una cultura fortemente maschile come quella occidentale; dal punto di vista di Thomasine, il diavolo è liberatore). Se la lotta del padre, delle sue preghiere, della sua fede, è persa in partenza, non diversa è quella della madre, che prova a unire il dogma a un sostrato intimo, caotico, femmineo, perdendo la ragione. Ciò che è dato dalla tradizione, dalla necessità di ordine, dall’imposizione sociale, stride, è osceno, incomprensibile, falso. Pauroso.
Se una metà ha terrore di indicibile e invisibile, l’altra ha l’opposto terrore della regola, del conchiuso, di ciò che è pura superficie.

E la stessa opposizione si ripresenta in The Lighthouse. Anche qui il riferimento al mito è esplicito: l’Icaro-Thomas Howard vuole avvicinarsi troppo alla luce, e per questo è destinato a cadere (ma è anche un Prometeo che ci rievoca Coleridge e Cechov, nell’essere divorato dai gabbiani dopo averne immotivatamente ucciso uno). Ma la luce del faro non è puro maschile. Anche se non è raro vedere il sole rappresentato nella mitologia da divinità femminili – basti pensare alla dea shintoista Amaterasu o ai riferimenti di Campbell alle prime mitologie della Dea nel Sud-est asiatico, nelle isole del Pacifico e nelle Americhe3È evidente – nonostante l’epoca potrebbe suggerire diversamente – che Campbell riconosce il femminile simbolico al di là del femminile sociale e di quello biologico, e non li sovrapponga come se non vi fosse alcuna differenza. Il fatto che uno stesso elemento – in questo caso il sole – possa avere attributi simbolici sia femminili che maschili, è indizio della natura cangiante, flessibile del simbolo stesso. In questo senso parrebbe forzata – anche se assai diffusa – una lettura che attribuisca a uomo e donna biologici esclusivamente le rispettive istanze simboliche, senza concepire la complessità del reale e quindi il mutamento che i simboli devono attuare per adattarvisi. – non sembra neanche essere simbolo di un femminile accecante.
Il faro, nel suo fallico ergersi al di sopra del mare, porta la propria luce sulla punta, glorioso glande che accoglie l’unione carnale semidivina tra uomo e mostro, tra maschile e femminile. La luce del faro è l’unione delle due metà, impossibile da guardare, impossibile da raggiungere per gli uomini.
La visione della luce, lo scontro fra il dogma paterno e il capro, il duello finale nel luogo che unisce il mistero dei morti e la superficie dei vivi, dove si incontrano il fuoco modellatore e la terra modellata, dove il simbolo fallico della spada può snudarsi liberamente; tutto questo rappresenta il tentativo delle due metà di comprendersi e congiungersi reciprocamente. Ma alle due metà non è dato modo di mescolarsi, di diventare uno. Il fato decide che la strada abbia un’unica uscita: la morte. Ciò che uomini e donne non possono cogliere non sono le singole istanze maschili e femminili, quanto la loro unione perfetta. Per questo i vivi non possono assistere al mistero ma solo masturbarsi con un’icona; per questo la fede non potrà mai accettare il capro, così come il bosco non potrà non divorare la ragione; per questo Hamleth davanti alla madre non può seguire la strada edipica, ed è costretto a rintanarsi in un femminile seguace dei dogmi maschili.

EDIPO: Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell’uomo – dall’infanzia alla morte – si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo e di vano, per me, nei miei giorni.
TIRESIA: Non sei il solo, Edipo, a credere questo. Ma la roccia non si tocca a parole. […] Soltanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori del tempo, di esser sempre vissuto, e non credo più ai giorni. […] C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano?

Chi è quindi infelice, se non chi prova a unire – come Edipo – le due metà? In Eggers, per assurdo, questo tentativo eroico è sempre attuato dagli antagonisti, forse proprio per la loro umanità. Infelice è il vecchio guardiano del faro che vive solo dell’unione con la luce. Infelice è la madre di Thomasine, in perenne equilibrio tra i dogmi della fede e l’oscurità caotica e multiforme della foresta. Infelice è lo zio dell’AntiAmleto, re di una terra desolata, costretto dalla sua umanità a tutto tondo a non poter ambire al Valhalla né a comprendere a fondo il mistero dell’altra metà che vive in lui. Infelice, in ultimo, è l’umanità tutta, in quanto reale, in quanto incatenata a essere parte in egual misura di maschile e femminile, senza poterne mai venire a capo.
Dobbiamo essere ciechi e infelici per provare a comprendere l’altra metà, consci comunque di una morte che sola può permetterci di svelare il Mistero. Ma d’altra parte – come i finali di The Northman e The Witch suggeriscono – qualunque tentativo di ignorarla porta inevitabilmente a seguire solo se stessi, condannandosi a una grandezza di cui si è gli unici onanistici testimoni.


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