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Abitare il tempo, essere davvero un protagonista del proprio mondo. Agire lentamente e con naturalezza, entrare e uscire dalla propria anima. Sapere che gli uomini spariranno, ma quelle montagne e quei pensieri rimarranno impressi. 

Su queste premesse inizia il viaggio di Carmine Valentino Mosesso, il poeta contadino di Castel del Giudice (borgo montano in provincia di Isernia), autore del volume La Terza Geografia (Neo Edizioni). La sua opera è una raccolta di componimenti suddivisa in cinque sezioni dal titolo: La terza geografia, La medicina del paesaggio, Madre paese, Poesie d’amore, Esercizi di una nuova umanità. Racchiude al suo interno un pensiero intimo, fatto di silenzi, attese, parole misurate, che conserva la gravità del presente che stiamo vivendo, ma anche la leggerezza dei suoi ventotto anni. 

Mosesso ripercorre alcuni temi degli autori del passato come Pavese e Scotellaro. Di Cesare Pavese apprezza la nostalgia del passato. La nostalgia diviene uno strumento ideativo, attraverso un linguaggio diretto, immediato, che ci pone immediatamente all’ascolto,  facendoci ritornare a una  concezione di paese, che la modernità ci ha rubato. Così l’Alta Valle del Sangro finisce per assomigliare alla campagna piemontese dei Primi del Novecento: ancora lontana dall’industrializzazione massiccia che poco dopo avrebbe trasformato il paesaggio. Mosesso, come Pavese, è alla ricerca di quell’unicità fatta di natura, attività rurale, ritmi lenti e ritorno a un passato non troppo lontano, almeno nelle sue zone. Quella ruralità che esisteva in quella porzione di terra fino ad almeno cinquant’anni fa e che in poco tempo è sparita. L’autore molisano respira tutto il disagio dell’industrializzazione e propone un suo modello di rinascita dei paesi:

i paesi si salveranno

e salveranno anche gli uomini e le donne 

che ci sono dentro

e intorno, a Nord, a Sud, al Centro. 

Come non lo saprà nessuno,

faranno come hanno sempre fatto:

una mela in due, un fil di ferro

e la sorpresa del miracolo.

Questa può essere una ricetta semplice ed efficace, dettata da un meccanismo di autoregolazione che solo in quei contesti specifici, i paesi appunto, può avvenire.  

Notiamo, inoltre, in Mosesso come quella lezione trasmessa dalla dedica iniziale di La Luna e i Falò di Cesare Pavese resti viva nella sua concezione di poesia: 

Un paese ci vuole,

non fosse che per il gusto

di andarsene via.

Ma il poeta contadino di Castel del Giudice, nel suo paese vuol restarci. Così quel grido malinconico e allo stesso tempo una promessa di Pavese in Mosesso si attualizza:

guarda la tua città,

spogliala con la forza sovrumana dell’ammirazione,

baciala con la bocca invisibile dell’amore,

pensa al tuo paese come fosse la tua sposa. 

Di Scotellaro riprende in particolare il suo pragmatismo poetico, ossia l’affiancare la poesia alla militanza politica. È nel socialismo reale che il poeta di Tricarico, vede la sua forma più pura per raggiungere l’uomo che vive ai margini, nelle campagne meridionali, in particolare quelle lucane, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta del Novecento. , Una lotta costante contro i padroni, i soprusi e la povertà che dilaniava il territorio meridionale. Un interesse vero per l’uomo nella sua dimensione primordiale, fatta di vizi, di gesti puri e naturali, in un luogo dove l’unica legge che vige è quella del più forte. La poesia di Mosesso fonde queste due anime e le trasforma in un unico messaggio.


Crescevi muta sotto l’ombra di pochi sguardi,

bello saperti con le finestre chiuse e i cardi sulle

scale,

facile vederti sola o in compagnia di un funerale.

I ragazzi sono partiti 

lasciandoti sbiadire nei ricordi della loro infanzia

adesso finalmente hai trovato qualcuno che ti ama:

la poesia, le capre, gli scapoli, le erbe di montagna. 

La sua ispirazione attinge anche a altri modelli, in particolare l’antropologo Ernesto De Martino, Pier Paolo Pasolini. Non c’è un confine ben delineato delle sue influenze, non s’intende perfettamente laddove finisca un autore e cominci un altro. Semplicemente queste esperienze poetiche e di scrittura fanno parte del suo vissuto, passato e presente mescolati in una soluzione di continuità. 

Così di De Martino ritroviamo in Mosesso l’interesse per la dimensione rurale, l’importanza di alcuni riti atavici come la patorizia, l’agricoltura e l’allevamento. Di Pier Paolo Pasolini, invece, rivive nell’opera del poeta contadino inizialmente uno spirito che rimanda ai suoi primi componimenti, come Poesie a Casarsa, caratterizzati da un’atmosfera a tratti felice, l’aria incontaminata e la semplicità dei gesti. Poi si intravede una critica vivace alla società attuale, che ha smesso di interessarsi dei paesi, dei loro vuoti e silenzi spaziali e temporali:

i ragazzi si scambiano i saluti

davanti all’ufficio delle poste

dove prima c’era una caserma militare,

il prete di buon’ ora sbuccia l’arancia della sua

inquietudine.

È l’Italia delle borgate,

dei lussuosissimi salotti della solitudine

dove l’inverno e la noia uccidono più della vecchiaia,

è una terra coltivata dai silenzi.

Il rione degli assenti amministra ovunque le politiche

locali,

se ne sono andati tutti:

giovani, farmacisti, macellai.

L’idea di Mosesso però va oltre, alla poesia affianca il suo pragmatismo: se è un poeta contadino, allora è sicuramente prima contadino e poi poeta. I suoi versi escono dalla terra, dalla natura incontaminata delle Mainarde, dall’osservazione delle sue capre al pascolo, dalla storia di un anziano, da una chiacchierata con un contadino. Così nella Terza Geografia finisce per creare una nuova visione di poesia che non parla di paese soltanto in un’ottica fugace, ma si addentra nelle viscere. Carmine Mosesso entra ed esce di continuo in queste piaghe, nel percorso è aiutato da un amico invisibile: il silenzio. Al mattino presto la frescura della montagna e la valle dormiente favoriscono le migliori riflessioni e da una di queste è nato uno dei componimenti che può rappresentare il manifesto della sua poetica:

Certi luoghi 

non sembrano partecipare

alla giostra dei viventi.

Hanno un peso irripetibile,

una fisicità irreale.

È come se non fossero appoggiati al mondo 

ma conficcati dentro.

In una severa beatitudine,

attorno a un prosperoso seno di silenzio

che li nutre.

Non è facile raggiungerli,

si può soltanto essere raggiunti.

È in luoghi come questi

che è ancora possibile sentire

la svagata vicinanza delle cose,

ascoltare confidenze lontane,

partecipare al battesimo dei temporali,

alla comunione delle rose.

Una lettura lenta e appassionata ci fa capire ancora di più i silenzi della sua poesia, che fanno da contrappeso al frastuono della modernità. Il suo silenzio è una pausa dal mondo, è una contemplazione a occhi aperti sulla natura in alta montagna. Quest’ultima diviene una visuale privilegiata da cui osservare i cambiamenti in atto, dai paesi spopolati e tutto lo sconforto che trascinano con sé. Ed è allora che il poeta prova a elaborare una nuova ecologia dell’essere, una nuova forma di adattamento e una nuova identità dei borghi. 

 L’ideale è infilarcisi all’interno e staccarsi il più possibile dal nostro mondo, solo così riusciamo ad addentrarci ancora di più nella sua intimità. Il silenzio è necessario per la scelta giusta delle parole, è il grembo da cui nascono quei termini che ci sono vicini, confidenti. 

Strettamente legata al silenzio c’è la restanza, un concetto elaborato negli anni daVito Teti: «la restanza è sentirsi ancorati e insieme spaesati, in un luogo da proteggere e rigenerare radicalmente.»

 Mosesso aderisce perfettamente a questo contributo. Sente la necessità di attivarsi per cambiare il corso negativo delle cose, un impegno a non restare fermi, ma a incidere sul proprio tempo, sulla desolazione che regna da alcune parti. E così il rito del fuoco con la sua valenza misterica, fascinosa torna a rimarcare la comunità. È quell’elemento antico, sotteso nella sua raccolta, che diventa fondamentale nel momento in cui si auspica la nascita di un uomo nuovo. Il futuro parte dal passato, infatti è attorno al fuoco che la comunità s’incontra, discute e avviene il confronto. Dall’era pagana fino al cristianesimo, in particolare con la celebrazione del Fuoco di Sant’Antonio Abate, dove si benedicono gli animali.

Altri elementi costeggiano le sue poesie: , l’incedere delle stagioni, il ciclo vitale delle piante e degli animali, il vento, il cielo, le montagne.

La Terza Geografia non è solo un inno alla restanza, ma anche alla marginalità dei paesi dell’Appennino, quei luoghi che si mantengono grazie a attività millenarie come l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato. Quei posti dove è ancora tangibile il passaggio del testimone di alcune tradizioni, che si susseguono di padre in figlio. Su questi presupposti, velati da una nostalgia verso un tempo passato si percepisce anche l’importanza del lavoro che fa il poeta nella sua quotidianità. Basti pensare alla creazione di una Biblioteca del Grano, dove si raccolgono tanti tipi diversi di grano con lo scopo di trovare più forme possibili adattabili al territorio. 

Carmine Mosesso sente tutta l’urgenza di far rivivere quei luoghi altrimenti si rischia la morte dell’umanità. Nel momento in cui l’uomo ha perso di vista la semplicità della natura e si è concentrato sull’elemento meccanico è diventato un alieno. Ha perso il contatto con l’altro, con il piacere del lavoro, divenuto veloce e artificiale. Ha finito per isolarsi e perdere sempre più le sue radici. Solo riconquistando il senso di comunità, di tradizioni che stanno scomparendo e curando la marginalità, l’uomo moderno può guarire. 

La terza geografia analizza i confini dell’Appennino, entrando all’interno, permanendoci fino all’infinito. Un viaggio costante in luoghi spopolati, in quelle sacche di territorio che partono dall’Emilia Romagna e arrivano giù fino in Calabria. Territori spesso anche lontani ma che si assomigliano per tanti motivi: geograficamente più svantaggiati, distanti dai grandi centri, mancanza di strutture economiche e sociali.

 Solo stupendoci delle piccole cose e cominciando a apprezzare quella specifica condizione di marginalità, inizieremo davvero la nostra cura: 

Arbusti, rocce, popoli che franano sul mare,

l’economia dei quartieri e la schiera dei paesi nati

morti dopo un’alluvione,

è questo il compendio di una geografia che non si

studia a scuola,

che insegna la dermatologia dei sassi e a percepire 

il guasto nel paniere dei paesaggi.

È un’ecografia su corpi e territori,

tiene insieme la punta delle dita e la punta delle

spine,

la donna antica e gli ultimi avamposti della scienza,

le ferite delle capre e le buche dell’asfalto, 

la medicina moderna e la farmacia di una ginestra. 

Mostra un paesaggio edibile,

una materia ingerita dagli occhi e ruminata negli

stomaci dell’immaginazione. 

Una disciplina di costole e tralicci, carne e cielo: 

la terza geografia.

È solo la parola misurata, cercata, ma allo stesso tratta dal nostro quotidiano che può tratteggiare l’essenzialità della poesia. Solo attraverso la ripetizione orale, quella diretta, immediata riusciamo ad avvicinarci al cuore della sua poesia e al messaggio che l’autore ci lascia:

Per parlare non è sufficiente seminare parole già 

dette:

parlare è impastare la lingua di Dante con il volgare 

di un quartiere,

l’oratoria contadina con la schiuma di un arcipelago

di case.

 In questo modo percepiamo davvero una poesia vista con occhi nuovi, con nessun filtro tra pensiero e scrittura. 

Nella Terza Geografia c’è anche spazio per l’amore, infatti l’opera è sud divisa in sezioni e una di queste è intitolata Poesie d’amore, dove è ravvisabile l’anelito a un sentimento genuino e sincero. Non solo verso un’altra persona, ma soprattutto verso i luoghi. L’amore e le sue sfaccettature guidano tutto il percorso poetico, che abbraccia un luogo, i suoi abitanti e tutto ciò che circonda l’essere umano. 

Prevale un linguaggio semplice, che mira a cogliere le cose per come sono, senza biasimarle, ma nemmeno esaltarle. L’utilizzo della lingua italiana in La Terza Geografia è fortemente voluto da Mosesso per avvicinarsi a tutti i paesi dell’Appennino, che condividono la stessa sorte di Castel del Giudice. La lingua diviene così uno strumento d’unione tra gli abitanti di quelle aree.

 I luoghi stanno lì ad aspettarci, non dobbiamo far altro che raggiungerli, probabilmente con la forma più pura, agli occhi di Mosesso, che è la poesia. In fondo abbiamo bisogno di contadini e poeti, i primi per mantenere la nostra terra nel miglior modo possibile, invece gli altri per ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Il pensiero dell’autore ha un risvolto pratico sul territorio attraverso la cura costante. Auspica, in un momento fondamentale per gli sviluppi della Green Economy, un nuovo modello di agricoltura sostenibile basato su una fusione di presente e passato. Lontano dalla meccanizzazione agricola, ma favorevole agli studi di botanica, agraria, in particolare sulle varietà di colture adattabili nei singoli territori, in virtù del cambiamento climatico. Nasce così l’idea di un Mulino di Comunità, dove si utilizza soltanto la natura per la coltivazione dei vari cereali. Un pezzetto di terra che lentamente e con sacrificio prova a cambiare il corso della produzione agricola.

In conclusione la poetica di Mosesso si presenta come una preghiera umile per gli animali, le piante e i contadini. Trova consolazione nella neve, nel vento o nel sole, porta ad attendere l’infinito attraverso le stagioni, restituendo un benessere inaspettato. L’autore propone di curare la marginalità di alcuni luoghi mediante la poesia e il lavoro. 

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