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di Federica Rossi, Danilo Cappelli

Lamb è un film che riscrive le regole del thriller fiabesco. Uscito nel 2021, frutto di una co-produzione islandese-svedese e polacca, è l’esordio alla regia di Valdimar Jóhannsson. Una camera fluida e spontanea segue la storia di una coppia in un’area rurale dell’Islanda, tra montagne, pecore e incontri speciali, guidando lo spettatore in un’immersione nel mondo animale. Ada, bambina metà uomo metà animale entra a far parte della vita dei due protagonisti, i contadini Marìa e Ingvar. Lo spettatore è così guidato a interrogarsi sul rapporto uomo-animale o, meglio, tra umano e non-umani. Se film come Earthlings, Pianeta Selvaggio e Okja hanno aperto la strada alle narrazioni antispeciste, Lamb potrebbe rappresentare il punto d’arrivo.

L’antispecismo, dalle pagine alle sale

Negli ultimi decenni è emersa la necessità di ridefinire la posizione dell’uomo rispetto al resto della natura. In questo contesto si è imposto, prendendo sempre più piede in anni recenti, un movimento antispecista. Influenzato dall’ambientalismo politico ma anche filosofico e biologico, il pensiero antispecista si erge come difensore di un mondo in cui le specie possano convivere in armonia, umani e non umani. Sono quindi condannate alcune pratiche specifiche, come il consumo di carne o la sperimentazione su animali, definite appunto speciste, ma più in generale tutte le sue istanze si fondano su una medesima base concettuale: l’elevazione di un gruppo, gli umani, rispetto al resto della specie è, fondamentalmente, ingiusta. Le tracce di questo comportamento si ritrovano in molte fasi della storia e della cultura dell’Homo Sapiens. Nel cristianesimo, Dio conferisce l’anima solamente agli esseri a due gambe; oppure durante l’Illuminismo, dove appare una gerarchia tra specie, con l’unico detentore della Ragione, l’essere umano, in cima alla scala.

Secondo Peter Singer, autore di Liberazione Animale, il testo-manifesto del movimento antispecista, il trattamento riservato ai non umani è frutto di pregiudizio e arbitraria discriminazione, intrappolati, noi umani, nel vicolo cieco dell’abitudine, mentale e linguistica: si pensi alla connotazione che hanno le parole umanitario e bestiale. La decostruzione di questo fenomeno, anche noto come antropocentrismo, fu scardinato da Jeremy Bentham nel diciottesimo secolo. Il filosofo inglese riconosce che gli umani e i non-umani condividono uno stesso comun denominatore: la sofferenza. Questa visione fu rivoluzionaria nel raggruppare gli animali e l’essere umano all’interno dello stesso insieme, statuendo implicitamente un’uguaglianza prima impensabile. Dolore evidente negli allevamenti, che al di là dell’obiettivo finale (la morte dell’animale), costringe i capi allevati a un’esistenza terribile. Come scrive Jonathan Safran Foer in Se niente importa, «una vita atroce è peggio di una morte atroce».

Il movimento antispecista si è sviluppato nei decenni arrivando a oggi con un bagaglio politico ambizioso. Tra disobbedienza civile e dibattiti internazionali, è ormai protagonista di molte realtà, vicine all’ambientalismo o all’animalismo. Sono pochi, infatti, i movimenti che si professano meramente antispecisti, tra questi per esempio Animal Liberation Front (ANF).

L’arte rappresenta uno dei canali preferenziali per cercare di cambiare la narrazione oppure adeguarsi all’estetica dominante specista, esplicita ad esempio nelle opere di Damien Hirst che, secondo Artnet, avrebbe esposto i resti di circa novecentomila esseri viventi non umani, con il fine di crearne un prodotto artistico, oggettificandone così l’esistenza.

Earthlings è un documentario antispecista del 2005 scritto, prodotto e diretto da Shaun Monson e narrato dall’attore e animalista Joaquin Phoenix

Il cinema è parte di questa polarizzazione di tendenze. Ad esempio, nel documentario Earthlings il regista Shaun Monson e il produttore e narratore Joaquin Phoenix condannano attraverso immagini e dati un mondo in cui «gli uomini vengono prima». L’accusa politica avviene mostrando in maniera cruda le cinque diverse forme con cui utilizziamo e ci relazioniamo con gli animali: animali da compagnia, cibo, vestiti, intrattenimento e scienza. Produzioni come Earthlings, inquadrando tutto quello che accade nei meandri degli allevamenti, laboratori, canili, permettono di metterci nei panni degli animali e vedere con i loro occhi uno sprazzo di vita tenuto lontano dalle nostre coscienze: contengono una valenza esplicita e politicamente antispecista nel dare voce a chi non ne ha. 

Con le parole di Peter Singer, «quanto meno un gruppo è capace di ribellarsi e di organizzarsi contro l’oppressione, tanto più facilmente viene oppresso».

Determinati messaggi possono essere contenuti anche in film meno nozionistici, con narrazioni, scelte registiche e modalità differenti, mostrando un egualitarismo fattuale tra umani e non umani, oppure rappresentando le torture a danno degli animali non umani tramite espedienti narrativi. Lamb appartiene a quest’ultimo caso.

Lamb

Opera prima di Valdimar Jóhannsson e vincitore a Cannes del premio per l’originalità nella sezione “Un Certain Regard”, Lamb è un dramma familiare con forte messaggio antispecista tra atmosfere thriller che si attorcigliano a vecchi miti. Scelte registiche e di scrittura puntuali condannano i comportamenti specisti dei protagonisti, Maria e Ingvar, una coppia di allevatori in una campagna islandese lontana dalla civiltà. 

Al contrario di Earthlings, dove la forma documentaristica fornisce una visione della realtà senza filtri, in Lamb il messaggio è più indiretto. Lo spettatore entra nella realtà animale quasi senza accorgersene, tramite riprese immersive nel gregge che pascola o in lunghi istanti fermi sullo sguardo espressivo delle pecore nell’ovile. Nell’atmosfera bucolica ma conturbante, i due contadini vivono in maniera austera il lavoro agricolo e pastorale, fino a quando non arriva Ada, antropomorfa con la testa e una zampa di pecora e il resto del corpo umano, partorita da una delle loro pecore e adottata come figlia. La scena della nascita è priva di sensazionalismo nonostante l’unicità di Ada ed è identica a una precedente scena di parto di un altro agnello; inoltre i suoi tratti ibridi sono nascosti per più di trenta minuti, in un continuo gioco con il pubblico nell’evidenziare somiglianze e togliere quindi barriere interspecie.

La loro adozione, dettata dall’amore, è specista perché un cucciolo di un’altra specie non può essere accudito come fosse umano, senza rispettare la sua unicità e separandolo brutalmente dal proprio gruppo, in questo caso il gregge. La storia, attraverso il personaggio di Ada, interroga su cosa renda un uomo tale in contrapposizione a un animale: da ibrida, la protagonista appartiene a entrambi ma a nessuno dei due gruppi. Il personaggio di Petur, fratello di Ingvar e quindi “zio” di Ada, non accetta e disprezza gli aspetti animali della nipote e rappresenta la tendenza umana alla categorizzazione tossica degli esseri viventi. Una dicotomia fondata sulla somiglianza e sulla differenza che, come il movimento antispecista è in grado di superare, anche Petur valica a metà film. Lo spettatore, allo stesso modo, inizialmente non riesce ad accettare questa barriera mentale, ma poi Ada, da essere un “qualcosa” acquisisce il titolo di “qualcuno” e non perché vengano priorizzate le sue caratteristiche umane, ma sempre rimarcando la sua unicità. 

Nel film i soli dialoghi rilevanti ai fini della trama sono quelli in cui è presente fisicamente anche la bambina, precisa scelta registica concordata con il resto della troupe. Chi non ha parola infatti parla attraverso le immagini, tempi di ripresa prolungati e vicini alle espressioni “facciali” delle pecore o degli animali domestici. Gli spazi naturali diventano uno dei protagonisti, in sinergia con gli umori animali ed equilibrando alla fine del film le scelte erronee dei due genitori. Maria ed Ingvar infatti durante tutto il film compiono gesti specisti: la trama si sviluppa con una simmetria pura costruita sui loro errori e la figura dell’allevatore, infatti, non è casuale. Lamb sembra, così, in linea con la frangia più radicale dell’antispecismo, che ritiene l’allevamento sbagliato per un principio morale, al di là del trattamento più o meno etico riservato agli ovini. Tanto che l’immagine di Ada, un (quasi) agnello che accarezza docilmente il gatto può evidenziare allo spettatore l’incoerenza del trattamento degli animali domestici rispetto a quelli destinati al consumo alimentare.

La mancanza di alterazione o oggettificazione dell’umano e del non-umano ci immergono in un’ordinarietà catartica: lo spettatore realizza quanto l’uomo, fondamentalmente, non vale molto di fronte a resto della natura (o come, per lo meno, sia al suo stesso livello). Una verità scomoda da realizzare per un mondo che si muove verso dinamiche di potere e sfruttamento opposte, come le cinque istanze speciste spiegate da Earthlings. Lamb è rivoluzionariamente antispecista nel momento in cui l’uomo perde, ricevendo ciò che merita.

Pianeta Selvaggio: un’eredità da non dimenticare

Pianeta selvaggio è un film d’animazione del 1973 disegnato da Roland Topor che l’ha sceneggiato assieme al regista René Laloux.

Il cinema, chiaramente, non è nuovo al tema. In La planète sauvage (“Pianeta Selvaggio”), del 1973 la narrazione è tuttavia molto distante dai due esempi precedenti: qui viene adoperata la tecnica what if. Fa insomma parte dei popolari racconti distopici stile Brazil di Terry Gilliam. Cosa succederebbe se in un pianeta lontano e surreale si riproducessero le stesse dinamiche contemporanee di sfruttamento o compagnia tra uomo e animale che avvengono sulla Terra? 

I cattivi qui sono degli esseri giganti dagli occhi rossi e la pelle azzurra che vivono in disarmonia con gli esseri umani, gli oppressi. I primi, i Draag, condividono una grande armonia all’interno della propria specie, sono più grandi e più razionali rispetto ai primitivi esseri umani, gli Om. Gli spettatori dunque non si identificano solo con i poveri torturati dall’apparenza umana, ma anche nei torturatori stessi. I cattivi della storia hanno un aspetto che richiama indiscutibilmente “noi” per favorire l’impersonificazione e muovere più facilmente le coscienze. 

Se Earthlings ce lo mostra in maniera diretta, ne il Pianeta Selvaggio è possibile invece guardare allo specchio le dinamiche antropocentriche che in questo caso appartengono, appunto, ai Draag. Per esempio, viene sottilmente criticata la degenerazione dell’adozione di animali nelle nostre case, che secondo Earthlings crea meccanismi deleteri per gli esseri viventi, come lo smisurato numero di randagi. In Pianeta Selvaggio c’è un’esplicita critica alla compagnia come forma di sfruttamento: i Draag vestono il “proprio” Om con bei baldacchini, ma molto poco comodi, li fanno combattere tra loro e generano Om “profughi”.

Allo stesso tempo, si potrebbe pensare che Pianeta Selvaggio si discosti dall’antispecismo di Lamb perchè gli uomini, i personaggi che nel film rappresentano gli schiavizzati, gli abusati, spesso lo sono perchè raffigurati come primitivi e in contrapposizione ai Draag, esseri fisicamente molto più grandi e con un’intelligenza più sviluppata. Si cade così nel classico concetto antropocentrico di superiorità, basato su un paragone tra la specie più “forte” e quella considerata più debole, secondo canoni di grandezza fisica e tipologia di intelligenza. Come gli animali, senza parola e considerati inferiori, anche gli Om, appaiono un gradino sotto agli occhi dei Draag. L’essere diversi dal modello Draag perchè più piccoli e con un’altra capacità espressiva, genera una disparità di potere in cui gli Om non possono che essere subordinati. Altro elemento interessante è che gli Om raggiungono l’autodeterminazione quando riescono ad accedere alla conoscenza Draag, in accordo con la teoria (anche) di Singer che le altre specie non riusciranno mai da sole a organizzarsi contro l’umanità. Se non, come in questo caso, entrando a farne parte.

Il film si conclude con il Draag, il potente, che sembra avere imparato la lezione, ma appena l’inquadratura si allarga si nota un altro animale nella mano, a dimostrazione che i ruoli di potere erano, in fondo, rimasti intatti.

Okja: davvero oltre la fiaba?

I messaggi sono i medesimi in Okja (2017) del premio Oscar Bong Joon-ho, ma nonostante l’idea di base sia antispecista, il risultato è un film dai caratteri antropocentrici celati dietro un animalismo, al massimo, da fiaba felice. Si delinea così una difficoltà nel poter stabilire come e se una produzione cinematografica possa essere davvero antispecista. In Okja però non ci sono molti dubbi.

Mija, bambina proveniente dalla campagna sudcoreana, tenta di salvare il proprio amico Okja, un maiale enorme con cui è cresciuta difendendolo dagli antagonisti, cioè la stessa azienda che l’ha generato attraverso degli OGM per poi sfruttare la sua immagine bizzarra e la sua carne. Per Mija, fanciulla che potrebbe essere protagonista di un film di Miyazaki, il regista e sceneggiatore Bong Joon-ho ed il co-sceneggiatore Jon Ronson hanno optato per un percorso classico di crescita, con rimandi cinematografici al cinema di Spielberg e puntando sull’empatia che genera con il pubblico. Intrecciando critiche al capitalismo globale (il film è una co-produzione Corea del Sud- USA) con condanne all’industria alimentare, la storia mantiene un antropocentrismo costante, alimentato dal voler rendere in Okja una coscienza più simile a quella di un essere umano rispetto a un maiale e forzando dunque un’empatia verso il protagonista non in quanto tale, ma in quanto sofferente e giocoso come un Homo Sapiens.

Okja esiste in quanto migliore amico di una bambina buona, innocente e non troppo a caso, orfana. Lo spettatore sviluppa immediatamente una simpatia per i due e i traumi di Mija diventano i nostri. La presenza di Okja, tuttavia, esiste sempre in funzione della crescita e coming of age di Mija e la storia del non-umano è così spinta verso il margine. Non sappiamo niente del maiale se non che Mija è la sua padrona, privandola così della sua agency.

Okja non risponde ai parametri antispecisti soprattutto per la frangia più estrema del movimento, in quanto Mija e il nonno (personaggi positivi) sono per tutta la durata del film allevatori di polli, e questo, anche se con metodi eco-sostenibili, rimane un’imposizione e coercizione verso un’altra specie.

Okja è un film del 2017 scritto e diretto da Bong Joon-ho

Il finale del film, come ogni buona fiaba, tenta di raccogliere la morale e il senso della storia. Se, da un lato, l’ultima scena vede riuniti i personaggi intorno a un piatto di verdure, sottolineando un cambiamento dall’apertura del film in cui la bambina caccia, dall’altro, è necessario spostare lo sguardo dalla romanticizzazione della storia tra la bambina e il maiale, per notare che il regista ha deciso di salvare solo l’animale caro agli spettatori. Insomma, la storia non è nuova: se empatizziamo con il personaggio, vogliamo vederlo salvo. Nemo deve tornare a casa. Un finale degno di antispecismo racconterebbe un cambiamento di sistema in cui tutte le Okja e i Nemo sono liberi, slacciandosi da scelte registiche volte a creare scalpore utilizzando emozioni propriamente umane. 

Se Okja – come Earthlings – pur permette allo spettatore di addentrarsi nei bui meandri dei macelli, consentendo di ottenere e accrescere consapevolezza, saranno proprio le dinamiche da macello, profitto e soprusi, a scrivere il finale felice in cui il maiale si salva. Mija infatti compra Okja al macello. Quindi, il denaro salva tutti. Bisogna riconoscere che se da un lato Earthlings non riesce ancora a essere digerito dai più scettici verso il dialogo uomo-altri animali, Okja ha invece avuto un grande effetto su parte dell’ampia platea Netflix, raggiungendo milioni di abbonati forse non abituati a tali tematiche.

Può esistere un cinema antispecista?

Il cinema ha una responsabilità nell’alimentare un dialogo tra umani e altri terrestri su una base di mutuo riconoscimento, realtà dei fatti e narrazioni veritiere. 

Lamb è lontano dalle nostre abitudini quindi stupisce e scombussola, porta con sé il potenziale di rigirare, mettere in dubbio e cambiare le convinzioni. Il cinema ha bisogno di dare una maggiore centralità agli animali per assicurarsi un ruolo politico all’interno del cambiamento culturale verso la sostenibilità.

Audio, immagini e storie hanno certamente il potere di costruire un nuovo immaginario collettivo, puntando i riflettori su un gruppo a cui non si appartiene, i non umani. Qui subentra tuttavia un dilemma etico. Ci si chiede infatti se film e ausili tecnologici, prodotti da umani, potranno mai essere chiamati antispecisti. Lamb, come abbiamo visto, nel far perdere l’essere umano e nel creare un dialogo al di là delle parole e raziocinio, è un modello di produzione antispecista con pochi precedenti. Tuttavia, rimane una creazione umana. 

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