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Da febbraio di quest’anno è stato reso noto che Puffin Books, l’editore inglese di Roald Dahl, morto nel 1990 e fra i più apprezzati autori per ragazzi, ha deciso di apportare diverse modifiche alle nuove edizioni dei suoi romanzi, per adeguarsi alla sensibilità del pubblico contemporaneo. La notizia ha sollevato temi delicati come quelli della censura e dell’eredità culturale, e non ha mancato di scatenare un acceso dibattito non solo fra gli addetti ai lavori.

In un articolo del Telegraph viene riportata la reazione del regista britannico Martin McDonagh, che dice di voler addirittura usare il suo testamento per impedire qualsiasi modifica postuma alle sue opere. Alcune compagnie teatrali, come trapela nell’intervista, si sarebbero rifiutate di mettere in scena le sue pièce perché il regista londinese non avrebbe voluto approvare dei cambiamenti per rendere il linguaggio più accettabile. 

Il 2022 è stato un anno particolare per McDonagh: il suo The Banshees of Inisherin – da noi Gli Spiriti dell’Isola – ha raccolto il plauso unanime della critica, ha totalizzato ben nove candidature all’Oscar (e zero vittorie) e ha segnato un punto di svolta per la sua carriera. Viene quindi da chiedersi se le preoccupazioni riguardo la sua eredità artistica abbiano qualche fondamento. Come lo ricorderemo fra qualche decennio?

Sono ormai diversi anni che McDonagh sta percorrendo una sua personale strada nel mondo del cinema, che parte dal suo riconosciuto e prestigioso lavoro come drammaturgo. Di stampo teatrale in fondo appaiono tutti i suoi film: grande scrittura dei personaggi, quasi sempre una sola location, trame all’apparenza scarne ed essenziali ma dai fortissimi risvolti metaforici.

E proprio per il teatro era stato pensato originariamente The Banshees of Inisherin, che sarebbe dovuto essere il terzo capitolo della finora incompiuta Trilogia delle Isole Aran. Vent’anni e l’inizio di una nuova carriera di autore cinematografico dopo, Banshees è forse il lavoro più compiuto, il distillato più puro delle idee, dell’immaginario e della poetica di McDonagh – è il film che lo mette in connessione maggiore con le sue origini e l’inizio del suo percorso professionale. Banshees è infatti la prima pellicola del regista a essere ambientata in Irlanda, terra dei suoi genitori a cui è estremamente legato e in cui ha ambientato tutti i suoi lavori teatrali e il suo esordio cinematografico (un corto del 2006, Six Shooter, con cui vinse un Oscar). Eppure i suoi lungometraggi, pur vantando spesso attori irlandesi come Colin Farrell, sono sempre girati e geolocalizzati in altri luoghi. 

Si parte da Bruges, borgo da cartolina avvolto da una cappa di nebbia e misteri, per poi sbandare violentemente verso gli ipersaturi, desertici panorami losangelini e approdare nella placida tranquillità di una valle del Missouri, chiusa e isolata dal resto del mondo. Banshees è quindi anche il punto di arrivo di un lungo peregrinare, un viaggio le cui tappe sono spesso esplicitate fin dal titolo: una delle caratteristiche delle opere, sia teatrali che filmiche, di McDonagh è l’attaccamento alla propria collocazione geografica. Il suo primo film è intitolato In Bruges, il terzo è Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, le sue opere teatrali hanno nomi come The Beauty Queen of Leenane e A Skull in Connemara. E poi ovviamente, The Banshees of Inisherin.

I luoghi sono un elemento decisivo nelle storie di McDonagh, microcosmi su cui puntare la lente di ingrandimento, piccole realtà in cui vivono o capitano piccole persone, in cui si consumano drammi e tragedie spesso di poco conto, e in cui è più facile far emergere i lati nascosti e oscuri dell’animo umano. Gli sconvolgimenti che toccano in sorte ai suoi personaggi sono magnificati dalla dimensione minuscola di questi luoghi, e d’altronde i protagonisti di questi film altrove avrebbero ruoli secondari, sarebbero i comprimari di storie più grandi. Sono rozzi, ignoranti, a volte persino scopertamente razzisti come il Jason Dixon interpretato da Sam Rockwell in Tre Manifesti (Oscar come Miglior Attore Non Protagonista), oppure semplicemente ingenui, ma tutti in un modo o nell’altro finiscono risucchiati in spirali di violenza e casualità, sia che si tratti di goffi gangster come in In Bruges, sia di scrittori alla ricerca di ispirazione come in Sette Psicopatici, per non dire di un mandriano fuori dal mondo come Padraic in Banshees. Quello che però distingue il cinema di McDonagh da ogni altro autore è come questa violenza e casualità siano raccontate con toni sempre in precarissimo equilibrio fra tragedia e commedia, fra realtà e farsa, confini più o meno fumosi a seconda dell’occasione. Si pensi per esempio all’acrobatica sceneggiatura metatestuale di Sette Psicopatici, in cui il protagonista, un alter ego omonimo del regista, interpretato ovviamente dall’attore feticcio di McDonagh, Colin Farrell, vuole scrivere una sceneggiatura intitolata proprio «Sette Psicopatici». Alla fine si baserà sull’assurda vicenda di cui diverrà suo malgrado egli stesso protagonista insieme al miglior amico Bill (Sam Rockwell, all’epoca alla prima collaborazione con il regista), un attore fallito riciclatosi rapitore di cani e all’occorrenza serial killer, nel bel mezzo di un deserto californiano trasformato nel non luogo per eccellenza, lì dove tempo e spazio sono tutt’uno. 

Bruges ha sempre avuto «l’aria di una città fantasma». Lo diceva già Rodenbach in Bruges la morta. Un posto stagnante, adatto al misticismo e alla malinconia. Quella ritratta nel film di McDonagh è una scenografia che ha sì questi connotati, ma che via via dalle tinte fosche passa al chiaroscuro del surreale, fino a diventare un centro di gravità che attira tutti a sé e impedisce tentativi di fuga. Per i protagonisti, due gangster in incognito, e in maniera particolare per Ray (sempre Colin Farrell), diventa un purgatorio, dove espiare colpe passate e trovare una qualche forma di redenzione. E però, come sembra suggerire il Trittico del Giudizio di Bosch che Ray e Ken (Brendan Gleeson) si ritrovano ad ammirare, la cittadina fiamminga diventa anche il luogo in cui verranno giudicati e attenderanno la propria morte. Una destinazione che è allo stesso tempo una condanna e secondo Harry, il loro capo che ce li ha spediti, un dono, una concessione, un’ultima gioia prima della fine. 

Ebbing, Missouri, invece, non può vantare la presenza di poeti come Rodenbach e l’aria malinconica di una Bruges avvolta dalle nebbie e sorvegliata dai gargoyle. Per essere una cittadina inventata Ebbing sembra un posto estremamente concreto, ruvido e asciutto come i suoi abitanti. Tre Manifesti è difatti la pellicola più coi piedi saldamente per terra della filmografia di McDonagh, una dura storia di giustizia, disperazione trattenuta a forza, rabbia e, anche qui, redenzione. Il Missouri vota repubblicano dal 2008, da quando il candidato democratico era Obama per capirci. La Ebbing del 2016 è dunque una specie di luogo d’elezione per il trumpismo, verrebbe da dire. Quattro case abitate da colletti blu e white trash in cui l’arrivo di un nero è un evento sgradito, soprattutto se si tratta del nuovo sceriffo. Basterà la sola idea di mettere in discussione l’integrità e l’azione della polizia locale a garantire alla protagonista Mildred, interpretata da Frances McDormand (Oscar come Migliore Attrice) l’esclusione dalla comunità e un gran numero di minacce e ripicche varie. 

McDonagh si mantiene allo stesso tempo molto distante e molto vicino ai suoi personaggi, anche in Tre manifesti. Il suo è uno sguardo che sa essere sia distaccato, ironico, che quasi si fa beffe delle assurde, stranianti, spesso comiche situazioni in cui cala i suoi protagonisti, sia innamorato delle loro idiosincrasie, dei loro difetti, dei loro limiti, della loro tenerezza e semplicità, ed è grazie a questo sguardo che anche lo spettatore riesce a immedesimarsi. Per via di questa vicinanza anche uno come Dixon diventa un personaggio tragico, con cui empatizzare, per cui parteggiare, pur rimanendo quello che è, un poliziotto violento. 

Proprio il personaggio di Sam Rockwell e il suo percorso di redenzione hanno attirato diverse accuse di razzismo al film, alle quali il regista ha risposto ribadendo l’importanza di non identificare i personaggi con i loro autori, un’osservazione peraltro ribadita anche in occasione delle polemiche nella vicenda Roald Dahl: «I personaggi hanno la necessità di essere quello che devono essere. Se sono brave persone, bene. Se sono omofobi, si tratta del personaggio. Se vengono adoperate parole razziste è per mostrare al pubblico che una parte d’Irlanda è razzista. Altrimenti andremmo solo nella direzione di un nulla blando e inoffensivo». 

Tre Manifesti è la storia di due umanità chiuse in sé stesse, l’uno nella propria ottusità provinciale, l’altra nella propria determinazione senza compromessi, che da acerrime nemiche –  Dixon, non comprendendola, osteggia in tutti i modi la crociata di Mildred per avere giustizia – diventano improbabili alleate. È un modo di scrivere personaggi, quello di McDonagh, che non fa sconti ma che non giudica, vuole disturbare, rendersi sgradevole agli occhi del pubblico, stimolarlo, spingere ai limiti la riflessione sui lati più tetri dell’animo umano. Sempre riguardo al film, McDonagh si (e ci) chiede: «Cosa rende qualcuno un villain o un eroe?».

Le coppie, con la loro alchimia anche attoriale, sono un altro elemento ricorrente di tutti i film di McDonagh. A volte sono uno dei presupposti con cui avviare la storia, come nel caso di In Bruges e di Banshees of Inisherin, nei quali non a caso a recitare sono gli stessi attori, seppur in ruoli piuttosto diversi. Altre volte la coppia anche se non esplicitata immediatamente riveste un ruolo man mano sempre più preponderante lungo il dipanarsi del film. È il caso di Marty (Colin Farrell) e Billy (Sam Rockwell) in Sette Psicopatici, la cui strana ma esilarante amicizia è il motore di tutti gli eventi. Billy trascinerà con sé un Marty in crisi creativa dentro una girandola di vicende sempre più assurde che coinvolgeranno fra le altre cose il rapimento del cane di un gangster, uno scoppiato vietnamita e del peyote. Oppure, ancora, le coppie si formano alla fine del film, come abbiamo visto nel caso di Tre Manifesti, un incontro di due diverse solitudini che si sostengono a vicenda.

Eccoci allora giunti a The Banshees of Inisherin, che raccoglie in sé tutte le caratteristiche finora elencate, rappresenta la summa del lavoro di McDonagh e un ritorno alle origini, un punto di arrivo e insieme di partenza verso una nuova fase della sua carriera. «Originalità è tornare alle origini», diceva Gaudí e nella sua opera più originale McDonagh torna in Irlanda, dove non ha mai vissuto, nell’immaginaria isola di Inisherin (che assomiglia molto però a Inisheer, la più piccola delle isole Aran). John Millington Synge, che a quegli splendidi scorci ha dedicato il suo capolavoro, scriveva: «Faccio il giro dell’isola tutti i giorni, eppure non si vede niente se non una massa di rocce fradice, un lembo di schiuma, e poi il tumulto delle onde». Al contrario di quest’approccio mondano, per McDonagh, il luogo assume qualità quasi ultraterrene, appare come un mondo sospeso al di sopra di quello che conosciamo, in cui risiede una comunità in ritirata dal mondo e gli spazi sono immensi, e avvolti nella nebbia. 

Stavolta, una novità nel cinema di McDonagh, c’è anche un elemento che potrebbe essere soprannaturale, una creatura che arriva dalle leggende. Le banshee nel folklore irlandese sono spiriti che appaiono a coloro che sono prossimi alla morte. Nel film è una anziana, inquietante signora che ogni tanto si palesa nell’inquadratura, spesso in lontananza, lanciando moniti e rimanendo sorniona ai margini della trama. 

La trama, appunto, è presto detta: Colm (Brendan Gleeson) improvvisamente decide di non voler avere più nulla a che fare con il suo amico di sempre, Padraic (Colin Farrell). I due ingaggeranno un duello ora dialettico ora fisico cercando di imporre all’altro la propria visione delle cose. In men che non si dica la vicenda si aggraverà in una escalation di violenza, il tutto all’interno di in un contesto come quello del villaggio di Inisherin che sembra fondare la sua stessa natura sull’incomunicabilità e la chiusura. Sullo sfondo, intanto, a fare da lontanissima eco a questo scontro, infuria la guerra civile irlandese. 

Banshees parte da uno sciocco diverbio fra paesani, e lo fa diventare una riflessione sull’amicizia, sulla capacità di comunicare, sull’ambizione, persino sull’arte. Colm ha infatti aspirazioni da musicista, mentre Padraic si accontenta di un’esistenza quieta in compagnia della sua asina. I personaggi allora diventano da una parte delle metafore funzionali al discorso del film, e dall’altra animati da un candore e un’umanità che raramente si trovano espressi in una maniera così efficace. Il film non si chiude veramente, lasciando i suoi protagonisti sulla riva del mare, distanti ma troppo vicini e, soprattutto, intrappolati.The Banshees of Inisherin chiude un cerchio, il figliol prodigo è finalmente tornato a casa. Ma se la carriera del regista dovesse interrompersi qui, come guarderemo i suoi film negli anni a venire? McDonagh è un autore che si è sempre mosso nell’ambito della produzione indipendente, un regista da cinefili, e i suoi film spesso appaiono quasi eterei, piccole storie popolate da persone a volte eroiche a volte meschine. Si è dimostrato uno sceneggiatore dallo stile affilato, un provocatore, uno che si fa beffe delle convenzioni, che non si fa problemi a scrivere personaggi spiacevoli e respingenti senza preoccuparsi troppo delle reazioni del pubblico. Un autore, per usare le sue stesse parole, «outrageous and dangerous». Ma queste sue provocazioni sarebbero davvero il suo lascito più importante, o torneremmo ai suoi film, come torniamo alle storie di Dahl, per i loro dilemmi e per la capacità di McDonagh di innestare delle metafore potentissime nei loro meccanismi? Difficile a dirsi, nel frattempo speriamo di rivederlo presto al cinema, con i suoi attori feticcio e gli scenari che abbiamo imparato ad amare.

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