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I genitori di Mia dicevano che l’America sarebbe stato un posto straordinario dove vivere in una casa con un cane, fare quello che si vuole e mangiare hamburger fino a scoppiare.

Salvo la previsione sugli hamburger, la situazione che si presenta a Mia e ai suoi genitori quando dalla Cina si trasferiscono in California non è esattamente quella immaginata: gli adulti trovano lavoro in un ristorante cinese e la figlia, a nove anni, pure. Ma vengono presto licenziati, cosa mai successa nel paese d’origine, ed è lì che inizia la vera avventura di questa famiglia di migranti che pensa agli Stati Uniti come al paese della libertà e che non è in grado di far capire alla figlia dove si trovi questa maggiore libertà in un luogo che licenzia i bambini e che sfrutta gli adulti.

In Motel Calivista, buongiorno!  (Traduzione di Federico Taibi, Emons Ragazzi, 2023) Kelly Yang racconta la storia di Mia Tang e della sua famiglia, che è molto vicina alla storia propria e della propria famiglia. L’autrice infatti è emigrata dalla Cina agli Stati Uniti agli inizi degli anni Novanta ed è cresciuta in California per cui molti degli eventi raccontati nel libro si basano su fatti realmente accaduti. All’epoca in Cina il comunismo era ancora molto forte, vigeva la politica del figlio unico e il reddito pro capite era di circa 300 dollari. Gli immigrati cinesi arrivavano negli USA con pochi dollari in tasca, trovavano solo lavori pesanti e mal pagati e vivevano in condizioni vicine alla povertà, circostanze che li rendevano particolarmente vulnerabili allo sfruttamento, in un circolo potenzialmente e pericolosamente senza fine.

Dopo aver perso il primo lavoro, la famiglia di Mia, come quella di Yang, riesce ad ottenere la gestione di un Motel e, per quanto il proprietario sia un burbero avaro razzista, quel piccolo albergo diventa casa e prigione, fatica e speranza. Mentre i genitori si occupano delle pulizie e della gestione in generale, la reception, dietro le porte rosse, è occupata e gestita da Mia.

Mia va a scuola, impara l’inglese anche se la madre non crede che possa parlarlo bene come gli americani, scrive, conta gli incassi, veste abiti usati, si sente umiliata, trova un’amica, scopre segreti, sente la mancanza dei suoi cugini, vuole aiutare i genitori e la notte dorme su un materasso maleodorante, non si scoraggia mai.

«Care ragazze cattive, si sì, avete ragione: compro i vestiti al chilo. Io e mia madre andiamo ai nei negozi dell’usato e compriamo i vestiti vecchi di seconda mano. Probabilmente avete siete state voi a buttarli. Può darsi che sto stia indossando i vostri calzini in questo momento. Lasciate che vi dico dica com’è comprare vestiti di seconda mano. Per prima cosa, mia madre li lava un miglione milione di volte. Li strofina con le mani, poi li mette in lavatrice e poi infine li strofina ancora. Quando li metto per la prima volta, comunque, mi danno lo steso stesso una strana sensasione sensazione, perché penso a tutte le ragazzine che li hanno messi indossati prima di me.
Un tempo speravo che erano fossero ragazzine come voi, che abitavano abitano in grandi ville e andavano vanno in vacanza d’estate. Pensavo che, se indossavo gli stesi stessi vestiti, era un po’ come se andavo fossi andata in vacanza anch’io. E quel pensiero mi faceva rendeva felice.
Ora invece sapete cosa penso? Che preferisco preferirei non andare mai in vacanza piuttosto che essere come voi.»

Soprattutto Mia permette di aprire un nuovo punto di vista sulle cose e sulle persone. Il suo sguardo di bambina ci introduce alla vita dei migranti e a quella di un gruppo di sconosciuti che diventa una vera e propria comunità, quasi una famiglia allargata: gli ospiti fissi del Motel, che pagano a settimana e che praticamente vivono lì. La distanza tra adulti e bambini sembra annullarsi nelle conversazioni tra Mia e i clienti abituali, nel modo in cui lei ripone in loro una naturale fiducia e in quello in cui loro parlano a lei. C’è qualcosa che li unisce e che li avvicina e rende possibile parlare la stessa lingua ed è forse il provenire dalla stessa parte o il voler stare dallo stesso lato.

Ed è grazie a questa forza che diventa rete che il Motel può diventare un luogo di accoglienza per migranti clandestini o in difficoltà, che i genitori di Mia nascondono nelle stanze vuote e per i quali Mia scrive lettere infuriate contro i datori di lavoro, gli sfruttatori, il governo, sperando che anche la voce di una bambina possa cambiare una piccola cosa.

Yang ha dichiarato di aver scritto questo libro non solo e non tanto per raccontare la propria storia, ma soprattutto perché le storie incontrate nella sua infanzia e i sacrifici dei migranti, loro stessi, non venissero dimenticate e perché il raccontarli fosse di conforto e speranza ai milioni di figli di immigrati che vivono negli Stati Uniti, perché capissero di non essere soli e di non essere meno di nessuno. È un libro, come dice l’autrice, che «parla di quello che succede quando decidi di includere; quando, nonostante tutti i problemi e le sofferenze, continui a svegliarti ogni mattino e a guardare il mondo con occhi freschi e curiosi».

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