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Un paese, certe volte, è necessario per ricaricare le proprie energie dopo tanti anni spesi a lottare, immersi in difficoltà immani. Non è che poi tutti i problemi svaniscano, ma almeno per un po’ assumono una consistenza diversa. Quando ripartiremo ci sembrerà di essere delle persone nuove, cambiate. Questa è solo una delle chiavi di lettura dell’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli Fame d’aria (Mondadori 2023).

L’opera narra la storia di Pietro Borzacchi che con suo figlio adolescente Jacopo deve raggiungere Marina di Ginosa in Puglia, ma durante il tragitto la vecchia golf su cui viaggiano ha un guasto. Restano così bloccati per diversi giorni nel cuore del Molise, dove trovare il pezzo di ricambio è impossibile. Arriva così in soccorso Oliviero, un meccanico della zona, che appena vede Jacopo capisce subito che funziona in modo diverso. Infatti il ragazzo è autistico, i suoi genitori convivono con questa situazione da diciotto anni..

Daniele Mencarelli torna in libreria con un nuovo volume, dopo aver riscosso un grande successo con Tutto chiede Salvezza, da cui è stata tratta l’omonima serie trasmessa su Netflix. Interessato da sempre a tematiche psicologiche e sociali, anche stavolta Mencarelli non si è voluto risparmiare, cercando di narrare una storia con una scrittura asciutta, cruda, un mondo a lui molto vicino e con il quale tantissime persone devono confrontarsi ogni giorno. L’aria tesa e problematica si percepisce sin dalle prime battute:

«La Golf ha duecentoquarantamila chilometri. Tutt’attorno colline di pietra bianca, e tornanti, e paesi arroccati, pure loro fatti con la stessa pietra senza colore. Pietro guida, il ragazzo di Marina di Ginosa gli è rimasto negli occhi, ma il viso sotto la barba ingrigita si è prosciugato, la fronte è più alta, i capelli più radi. Era bello, così si diceva una volta.
Un nuovo tornante.
“No”.
Un cazzotto, poi un altro, al centro dello sterzo.
“Non mi lasciare adesso.”
Qualcosa dentro il corpo della Golf ha smesso di funzionare.
Pietro prova a ingranare le marce, spinge con foga il pedale della frizione, ma la macchina non risponde più, sul viso un’espressione che vorrebbe farsi pianto.»

Qui non è solo il protagonista sofferente, ma anche il paesaggio ne assume i suoi contorni, il bianco delle montagne innevate e il grigio di novembre dominano la scena. Se poi si aggiungono i paesi dell’entroterra molisanopiccoli e spopolati il quadro è completo. L’autore, infatti per alleggerire la narrazione, ricorre all’ironia che assume la struttura di dialoghi tra i personaggi o semplicemente nelle descrizioni, quando si effettuano dei piccoli spostamenti da un luogo a un altro:

«Frosolone è New York City.

Tante strade, negozi.

Qui la civiltà umana ha continuato ad attecchire, a differenza di Sant’Anna del Sannio, dove si è seccata da almeno mezzo secolo.
“Per qualsiasi cosa, pagare una bolletta, un taglio di capelli, oramai sempre qui dobbiamo venire. Paesi come il nostro stanno morendo, la verità è questa può fare nostalgia, ma non saremo i primi a sparire, né gli ultimi.”
Oliviero guarda fuori dal finestrino, gli occhi verdi passano in rassegna il viavai d’umanità, a piedi chiusa dentro le macchine.»

Non si parla solo di luoghi, ma anche e soprattutto del rapporto padre–figlio e di come ci si abitui a convivere con un figlio autistico a basso funzionamento, quando vivere con solo milletrecentottanta euro al mese e pochissime agevolazioni da parte dello stato diventa impossibile. Pietro Borzacchi è arrabbiato con il mondo, ma sconfitto davanti al disturbo di suo figlio. È inerme, segue soltanto il corso degli eventi, interviene con il poco che ha a disposizione. Preferirebbe svegliarsi dal brutto incubo, ma purtroppo quella è la sua vita, segnata in maniera indelebile. La sua povertà, la sua rabbia colpiscono il centro dello stomaco, creando una voragine. Neanche nei momenti più distesi, riesce a staccarsi completamente da lui. Ormai le sue azioni nei confronti di Jacopo non sono più amorevoli, risultano ripetitive, meccaniche, è assorbito anche lui in quella routine, che non gli lascia scampo. Sopravvive ogni giorno, fino ad annullarsi completamente da tutto. Così il suo malessere finisce lentamente per diventare il nostro:

«Pietro sfila i pantaloni a Jacopo con un gesto secco, preciso, fa venire in mente quei giocolieri che tolgono la tovaglia dal tavolo lasciando sopra piatti e bicchieri, la perizia del gesto è frutto di esperienza e continua pratica. Jacopo si fissa su di lui per un momento più lungo del solito, sembra improvvisamente consapevole.
Il padre per tanto tempo ha vissuto questi suoi sguardi all’apparenza lucidi come la vigilia di un possibile risveglio, quello che lui ha desiderato per anni.
Lo ha desiderato come si può desiderare un miracolo. Si è prosciugato gli occhi a forza di chiedere anche quello.
Un miracolo.
Un figlio normale.
Non un estraneo pure a sé stesso.
Che vive e ama da animale, legato al proprio branco dall’odore per istinto.
Ma l’amore degli uomini, persino l’amore, richiede un minimo di ragione, di intelletto.
Pietro su questo non ha dubbi.
Lo Scrondo ama da Bestia.»

Poi c’è lui Jacopo appunto, definito dal padre con l’appellativo di Lo Scrondo, quel personaggio televisivo molto in voga negli anni Ottanta, che rappresentava il marcio della televisione italiana. In alcuni momenti per Pietro il figlio è la caricatura di un uomo, perché non parla, fa gesti, non riesce a compiere un movimento quotidiano, come alzarsi dal letto, oppure vestirsi o semplicemente sciacquarsi la faccia, senza l’aiuto di qualcuno. Se quell’appellativo ci ripugna, successivamente ci rendiamo conto che Pietro quando lo chiama così mischia amore, affetto, ironia, rabbia, frustrazione e sconfitta. Ci si abitua ben presto a quella dialettica tra padre e figlio, che non riusciamo a comprendere fino in fondo se non ci immergiamo nelle pagine del romanzo. Quando la trama è più chiara si colmano le differenze tra i due, ormai diventati un unico essere, da cui staccare gli occhi è impossibile.

Purtroppo la storia di Pietro non è diversa da molte altre, si intravedono anche qui tutte le fasi che caratterizzano i genitori di figli a cui è diagnosticato un disturbo del neurosviluppo . C’è stato probabilmente un primo periodo di apparente normalità, seguito da una negazione del disturbo , in cui sia Pietro, che sua moglie, che appare marginalmente nel corso del romanzo, si saranno rivolti a più specialisti. Poi è giunto il momento più doloroso, quello dell’accettazione del disagio, affiancato a violente discussioni tra i due genitori con continue accuse e sensi di colpa. Infine una risposta più o meno attiva, in cui si prende piena consapevolezza della situazione, senza empatia. Pietro è a uno step successivo, quello che non prevede vie di fuga, se non l’inevitabile. Non riesce a redimersi in nessun modo. Ma proprio quando le sue speranze raggiungono il limite, ecco che sulla sua strada arrivano nuove persone. Quelle di cui non ha mai sentito la necessità, probabilmente perché troppo assorto nei suoi pensieri, da non poter concentrarsi sugli altri. Si tratta degli uomini e le donne che vivono nei paesi e che non avrebbe mai incontrato se non avesse attraversato il Molise e rotto la sua vettura. Sono Oliviero, il meccanico che giunge sul posto al momento del bisogno, Agata la vecchia proprietaria della pensione e Gaia la sua cameriera. Un’umanità più semplice, sincera e che mostra, a suo modo, fratellanza sin dai primi momenti.

Oliviero è un uomo sulla sessantina o poco più, cerca di comprendere la situazione al meglio, mostra subito e a modo suo solidarietà a Pietro, che conosce da pochissimo:
«Oliviero osserva il giovane uomo di fronte a lui, Pietro, i suoi occhi verdi sembra lo stiano pesando, poi il suo sguardo volge alla macchina, con il ragazzo chiuso dentro.
Non smette, intanto, la pioggerella di cadere su tutto.
Oliviero gli indica la costruzione dominata dall’insegna Da Arturo.
“Vediamo se Agata può darci una mano, sino a una decina d’anni fa era anche pensione, magari può prepararle una delle vecchie stanze.”
Pietro si riaccende, poi nei suoi occhi torna vivo qualcosa, e si oscurano, come chi ricorda di essere sconfitto.»

Dall’altro lato ci sono Agata e Gaia, il punto di vista femminile, una donna adulta e una più giovane, ognuna con una mentalità differente, che lentamente anche Pietro e Jacopo cominceranno ad amare. All’inizio ci sarà un po’ di esitazione, contrassegnata dall’invadenza di Agata, che a tratti sembrerebbe un po’ arretrata e ostile.
«Agata molto probabilmente non è mai stata bella, il naso aquilino, il mento largo, ma non si può certo negare che i suoi occhi siano una specie di lente d’ingrandimento. Difficile non sentirsi perlustrati, penetrati oltre la buccia dell’epidermide.
“E per andare in Puglia come ci siete finiti qui? Con tutte le autostrade che ci vanno in un quarto del tempo.”
Pietro sembrava pronto a questa domanda, annuisce, placido.
“Mia moglie arriverà a Marina di Ginosa soltanto la prossima settimana. Avendo del tempo a disposizione volevo vedere una parte d’Italia che non conosco, il Molise, per poi passare per Altamura, anche…”.
“Ho capito, ho capito, come si faceva una volta, tutte strade statali, vuoi mettere, risparmiando pure i pedaggi delle autostrade.”
Pietro ci prova con tutte le sue forze, cerca di resistere, ma alla fine l’imbarazzo lo vince. Non sa che dire. È come un bambino a cui hanno fatto tana.»

Importante nell’economia della vicenda è sicuramente Gaia, una donna attraente, quasi coetanea di Pietro e per questo ha molte più cose in comune con lui a differenza degli altri. Tra di loro s’instaura una certa empatia, è lei che prova in molti modi a cambiare le pesanti abitudini di Pietro. Gli fa capire che può fare ancora tanto per sé e per suo figlio, e che non è un peccato se qualche volta comincia a guardare il mondo circostante da un’altra prospettiva. Il disinteresse iniziale di Pietro cede il passo alla curiosità.

«Gaia distoglie Pietro dal suo inferno abituale. È aria fresca il sorriso di Gaia. “Vi faccio strada.” Pietro, il grande borsone in spalla, la segue con il figlio stretto al braccio. Il locale del bar da un lato confina con la sala, Gaia lo attraversa, arriva a una porta. Dietro un corridoio lungo una decina di metri. “Me lo ricordo quando la pensione era aperta, sin da ragazzina, questi paesi si riempivano di tutti quelli emigrati in America e Argentina.»

Il tempo, che si dilata continuamente, ci offre le storie di questo microcosmo in cui sembra di essere usciti dalla nostra epoca per entrare in un’altra, senza dover attraversare chissà quale varco spazio–temporale, in realtà a meno di duecento chilometri da Anagni, luogo di partenza di Pietro e Jacopo. Un mondo con cui i protagonisti non avevano pensato affatto di misurarsi e che li sorprende. Anche se il romanzo è ambientato nell’arco di pochi giorni, non importa molto sapere quanto tempo è trascorso. Pur avendo un’aria triste e di frequente negativa, perché Mencarelli descrive una situazione senza fronzoli o commiserazione, l’avventura molisana potrebbe essere la perfetta sintesi del lavoro di cura. In quel momento tutti cercano di aiutare i due protagonisti in maniera disinteressata, senza cercare una ricompensa. Anzi sono Oliviero, Agata e Gaia che offrono qualcosa in più a Pietro quando è scarico e non ha più niente da dare. Dall’altro lato c’è la sicurezza dell’ambiente protetto del paese, immune a qualsiasi cosa, positiva o negativa e forse Pietro e Jacopo hanno bisogno proprio di questo. Non solo di un aiuto fisico, ma anche di qualcuno che li comprenda e chieda loro al massimo un po’ del proprio tempo. Questo è più che sufficiente per Oliviero, Agata e Gaia.

Il titolo del romanzo Fame d’aria sembra un’esplicita richiesta di aiuto verso sconosciuti, che all’apparenza non potranno mai capire la sua sofferenza e il suo disagio, ma sapranno entrare con amore nella sua vita. Sono loro la risposta che Pietro desidera, il rasserenamento e la cura chiamati invano da anni, che adesso hanno finalmente una forma: l’aria bonaria di Oliviero, le carezze di Gaia e persino la leggera durezza di Agata. La soluzione, forse, era tutta qui, bastava soltanto distaccarsi dal proprio mondo per un po’, almeno il tempo di recuperare l’ossigeno che mancava alla vita.

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