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Gergely Légrádi

Matekóra

Traduzione di Dóra Várnai

E di cosa ce n’è uno solo?, chiede la maestra. Di me, risponde uno dei bambini. Gli altri restano sbalorditi dalla risposta. Ascoltano in silenzio. Sembra quasi che all’improvviso non riescano a farsi venire in mente nient’altro al mondo che sia unico. O forse ci stanno solo riflettendo. Io ho un solo genitore. Non so quanto tempo è passato da quando mio padre se n’è andato. So la data, certo, ma il tempo – che a volte è infinito e a volte resta immobile – non sono in grado di misurarlo. Quanto tempo è passato. E in che direzione è andato. Forse mia madre lo sa. Glielo chiederò. Forse è la stessa quantità per lei e per me. E di cosa ce ne sono due?, arriva la nuova domanda. Occhi e orecchie, dice qualcuno. Bene, risponde la maestra, allora mettete due mattoncini di lego uno sopra l’altro. E, per sicurezza, mostra loro come fare. Afferro una mela, la prendo con una mano sola, sebbene anche di quelle ne abbia due. La taglio, la divido in pezzetti. Mi trema la mano. Anche se la giornata è divisa in due parti che dovrebbero poi riunirsi e costituire un intero, come lo yin e lo yang, la mia è a pezzi. Si è spaccata, frammentandosi in tanti pezzetti informi, e io assisto con ansia al loro insinuarsi, all’alba, nel mio cervello, dove si rincorrono, si incalzano, cercano in ogni modo possibile di far sì che io mi svegli come se non fossi mai andato a letto. Quando metto la ciotola con i pezzetti di mela davanti a mia figlia, i mattoncini di lego impilati uno sopra l’altro sono ormai tre. A quanto pare mi sono perso una domanda e le relative risposte. Pazienza, anzi, meglio così, perché il tre mi piace. È un bel numero, il tre, bello da tracciare, per non parlare di tutti i tre magici che ci sono nelle fiabe, e di mio padre che quando giocava alla roulette puntava sempre sul tre. Pochi giri di ruota e ci azzeccava. Da allora faccio sempre così anch’io, in occasione di ogni partita che giochiamo stendendo la tovaglia verde a quadretti: punto sul tre, in attesa che la pallina di plastica bianca inizi a girare nella sua ruota. Infatti, i bambini non si capacitano del fatto che io metta sempre, a ogni giro, una moneta giocattolo sul numero tre. A volte, molto raramente, la pallina si ferma proprio nella vaschetta che corrisponde al numero tre. Allora ci guardiamo. I bambini guardano me, io guardo mio padre. E ditemi, bambini, di cosa ce ne sono quattro? È strano ascoltare questo silenzio, quasi nessuno fiata, eppure finora il ronzio di sottofondo dei bambini assomigliava a quello di un alveare. Ed ecco che tutto a un tratto il silenzio viene rotto da una vocina acuta: di stagioni. Proprio così! E allora elenchiamole tutti insieme, queste stagioni, continua la maestra. Era inverno quando mio padre è stato ricoverato in ospedale, febbraio. La primavera era poi passata monotona, scandita solo dagli orari delle visite al reparto di terapia intensiva. L’estate era invece trascorsa in un’umiliante agonia. In autunno non era più con noi. Quattro stagioni infelici, e una continuità fatta di odore di ospedale, zoccoli, piastrelle ovunque. E l’attesa del nulla. Nel frattempo la torre di mattoncini si è di nuovo arricchita di un piano. E che cosa vi viene in mente a proposito del numero cinque? Osservo la torre sempre più alta. Mia figlia sta già allungando la mano per il lego successivo, anticipando la risposta giusta che deve ancora arrivare. Beh, noi, dice uno dei bambini. A che cosa ti riferisci?, chiede la maestra. A noi: mia mamma, mio papà, le mie due sorelle, e io. Risate e senso di sollievo accolgono la spiegazione. Una famiglia numerosa, come la nostra. Siamo in cinque anche noi. Eppure il numero cinque non mi piace. Ormai ho imparato a sopportarlo, ma non mi piace. Nell’ultimo periodo il letto di mio padre era nella camera numero cinque. È lì che il suo letto è rimasto vuoto. Ero al suo fianco quando lui è diventato solo un corpo. Non sono mai più entrato lì dentro. Il letto vuoto no. Non so nemmeno chi abbia raccolto le sue cose, lì al reparto. Per anni ho saltato tutto ciò che era cinque. Cercavo di evitarlo, sebbene in fondo questo numero non abbia nulla che non vada. È solo che mi sembrava rovinato, scolorito, avevo la sensazione che mio padre se lo fosse portato via con sé. O che fosse stato il numero cinque a prendersi mio padre. E di cosa ne abbiamo sei?, continua a fare domande la maestra. Mia figlia fissa lo sguardo fuori dalla finestra, verso il giardino. Capisco che non sta davvero guardando il giardino, ma contando gli alberi. Osservo la sua bocca mentre cerca di formare le lettere per dire i numeri. Quando arriva a sette, si intristisce. Uno dei bambini si fa coraggio e dice: non c’è sei di nulla. Alcuni borbottano, altri sembrano d’accordo. Sabato, il sesto giorno, era ancora tutto a posto. L’incidente di venerdì sembrava non aver causato danni permanenti. Eppure il sesto giorno la morte non se ne stava più in disparte. Ma noi in quel momento non potevamo ancora saperlo. Non potevamo prevedere che si sarebbe trasferita da noi, che stava già iniziando a svolgere il suo lavoro, sistematicamente, con metodo. Un altro mattoncino di lego viene posizionato in cima alla torre. Il sesto. E di cosa ne abbiamo sette? Il settimo giorno la morte si era ormai palesata del tutto. Di giorni della settimana, dice una bambina. La mattina del settimo giorno mio padre era confuso, nel pomeriggio aveva avuto un crollo. Ottima risposta, conferma l’insegnante. Il settimo giorno la morte proiettava già su di noi la sua ombra. E chi me li sa elencare i giorni della settimana? La notte del settimo giorno, il ventiquattresimo giorno del secondo mese di quell’anno, mio padre si era ormai messo in cammino, stringendomi la mano un’ultima volta lungo la sua strada. Venerdì, sabato, domenica. Gli avevo chiesto, se mi sentiva, se capiva ciò che gli stavo dicendo, di stringermela. Credo che l’abbia fatto.

La lezione online continua. Ben presto la torre sarà finita, il decimo mattoncino posizionato in cima. I bambini iniziano ormai a essere stanchi, il ronzio di fondo si fa più forte. Si salutano tra loro, si chiamano l’un l’altro, pur restando ognuno nella propria finestrella sullo schermo. La maestra sembra essersi arresa. Le torri sono state completate. Alcuni bambini continuano a giocare con i mattoncini, mia figlia disegna. Guardo il suo foglio. Ci sono tanti piccoli punti, una figura che sembra umana, e diversi numeri, in ordine sparso. Il sole e la luna. Sembra quasi che abbia voluto disegnare me, con i miei numeri, le mie albe, i miei pezzetti sparsi, con i quali non so proprio che cosa io stia costruendo. Perché qualcosa sto costruendo, qualcosa ne nascerà, come sempre. E qualcosa nascerà anche sul foglio di mia figlia, prima o poi i dettagli diventeranno una storia. È un processo inevitabile, proprio come il cadere a pezzi. L’unica domanda è: che cosa sembrerà quando si sarà ricomposto, che aspetto avrà quando diventerà di nuovo un tutt’uno?

Per fortuna la maestra non ha chiesto di cosa ne abbiamo zero.


Pubblicato sulla rivista Élet és Irodalom, n. LXV/31 del 6 agosto 2021

Traduzione: Dóra Várnai

Gergely Légrádi (Budapest, 1975), laureato in legge, dal 2002 insegna alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università ELTE. È autore di romanzi (il più recente è: Alkalomadtán, Kalligram, 2022), volumi di saggistica (Megmozdult irodalom, Kossuth, 2021) e testi teatrali. È il direttore del più importante portale di teatro online ungherese (eSzínház). I suoi racconti brevi sono pubblicati nelle principali riviste letterarie ungheresi.

Matekóra
Copyright © Gergely Légrádi 
Reproduced with permission of Gergely Légrádi 

Foto Jess Bailey / Unsplash

2 Comments

  • Andreia ha detto:

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