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E quando mi appendono e io pendo in mezzo agli altri è con una certa magnificenza – bisogna riconoscerlo – che tutto il mio dolore splende nitido perché adesso, appeso, acquista il senso di essere in mezzo a tanti altri dolori appesi – in quel dolore io sono appesa eppure non io, ma una parte di me, un me fatto a parti, sento che quella sono io ma è altrettanto chiaro che non sono io, o non lo sono più, lo ero forse parzialmente, oppure in modo totale ma per un lasso di tempo soltanto, e il lasso di tempo era a quel tempo tutto il tempo, lo è sembrato almeno, certo, eppure non è stato tutto il tempo, bisogna riconoscere che non abbiamo mai una prospettiva completa del nostro tempo, e il nostro tempo era un tempo che è trascorso e poi è stato appeso, e nell’essere appeso adesso può pendere in uno splendore nitido per il quale più il vetro è pulito e più splende, più il velluto è rosso e più splende, più il peltro è splendente e più splende tutto il quadretto dell’ex-voto –, in un contesto che valorizza il nostro essere parzialmente appesi eppure appesi, da adesso in poi, chi un pezzo chi un altro, chi un organo e chi un altro – braccia mani gambe piedi, organi interni a pezzi e tocchi e allusioni e metonimie e talvolta addirittura metafore di parti – e bisogna riconoscere che il contesto, in questo caso, è tutto, anche per quanto riguarda il dolore che ha bisogno di essere appeso in un contesto che dia al suo dolere una storia possibile e quindi un senso, una storia che abbia avuto un inizio e una conclusione e tutto il senso che può dare per esempio una bacheca o un’intera parete o per meglio dire un muro, poiché esiste una profonda affinità tra il dolore e il muro – non che io voglia dire che il dolore è creato dal muro, anzi, di fronte a questo muro io non voglio dire niente, propriamente, tantomeno incolpare qualcosa o qualcuno, mi limito a constatare la necessità di questo tipo di superficie e di spessore per l’ostensione del segno, del memorandum, del memento, del monumento che è ciascun ex-voto, o ciascun ex-vuoto, per quanto ciascuno minuscolo – ma sono le centinaia, forse migliaia, di quadretti votivi, seppur talvolta minuscoli, che ricoprono questo spazio verticale, a danzare insieme in un pulviscolo di vicende sofferte e incastrate le une tra le altre fino a occupare tutto lo spazio disponibile, è questo vorticare immobile di mosaico irregolare che genera la magnificenza di una danza festiva, di un bacio in fronte, di un respiro di sollievo, di migliaia di respiri di sollievo, di un grande, grandissimo sollievo, di un sollevare, di un appendere, ed è questo appendere che salva, e che ha prefigurato la salvezza possibile di centinaia di organi appesi, malati e sanati, le centinaia, forse migliaia, di organi interni ed esterni, maggiori e minori, lunghi corti larghi stretti, estroflessi o introflessi, con cartilagine o solo muscolo, con ossa oppure in forma di semplice frattaglia, con forme tondeggianti o slanciate come una bella coscia, una coscia che fu riempita di baci e poi attese a lungo prima di essere ancora riempita di baci, e certo dopo erano baci diversi, ma pur sempre baci, e prima arrivavano fino all’inguine, poi l’inguine era come smarrito e i baci rimanevano sulla pelle sanata della coscia, e la coscia era diversa da prima ma era pur sempre una coscia, la coscia di qualcuno che era precisamente quel qualcuno, e l’inguine non era più l’inguine di prima ma era pur sempre un inguine, e la pancia non era più la pancia di prima di quel qualcuno ma era pur sempre una pancia, e in ogni caso adesso di ogni organo e di tutte le membra esisteva anche una copia in peltro appesa alla parete, o per meglio dire al muro, e per dire ancora meglio esistevano tre copie: quella di prima, quella di dopo, e quella appesa, cioè esistevano i pezzi avariati e le frattaglie del dolore ma anche l’ostensione della parzialità del dolore, dei segmenti del dolore, dell’esplosione e della frantumazione a opera del dolore, esisteva il quadro complessivo, composto da centinaia di quadretti parziali, a rappresentare il momento in cui, grazie al dolore ma anche all’uscita dal dolore, tutti i pezzi esplodono e si sparpagliano ovunque, e in seguito bisogna riconoscere che un solo pezzo sarà più rappresentativo di tutti gli altri, rappresentativo del dolore in sé ma anche del superamento del dolore in sé, il dolore vinto guarito purificato e, proprio per questo, appeso alla parete o meglio sul muro – non che io voglia affermare che il muro c’entri qualcosa, non è certo il muro a creare il dolore, il muro offre solo la possibilità dell’ostensione di fronte a qualcuno, come un muro contro muro –, e tutti i quadretti degli ex-voto – in verità alcuni piccoli, ma anche alcuni grandi, alcuni addirittura non quadretti ma vere e proprie teche con dentro protesi e stampelle – non sono altro che memoria, non sono altro che allusione al corpo che fu un corpo finché non divenne una parte, un tessuto, una giuntura, una sacca, un fluido, una protuberanza, un composto, un aneddoto, il risultato di un’esplosione che si è distaccato dal tempo dell’esplosione ed è diventato un organismo a sé stante, su questa parete, che esploro con lo sguardo della memoria scendendo la curva in cemento del tempio ipogeo – “Siracusa, Santuario della Madonnina delle Lacrime” –, o forse è la memoria che è ipogea e le gambe di bambina scesero una rampa d’immaginario cemento ipogeo, fissando la parete immensa altissima nera rossa e luccicante di vetro e metallo e protesi e drappi degli ex-voto – la sognai in seguito e adesso il sogno impasta il cemento? –, pezzi di esseri immortalati su un grande arazzo alla parete o per meglio dire sul muro che s’oppone al franare del terreno esterno e che come una grande schiena tiene chiusa la porta su cui s’abbattono forti cupi colpi, la tiene chiusa mentre i piedi si puntano per terra e tutto il Santuario punta i piedi sul pavimento e impedisce che la terra frani, mentre la rampa porta verso la luce del giorno salendo, ma verso la parete tremante degli ex-voto scendendo, e non so più neppure che pezzo di corpo io sia o quale corpo tutti insieme noi formiamo, un corpo frammentato e disperso eppure compatto, un corpo magnificente, scuro eppure nitido, e questo corpo resiste, pur scivolando talvolta – ma di poco – sotto i colpi di tuono della terra, resiste, e resistono centinaia di singoli organi appesi su velluti pregiati, e tintinnano talvolta nei loro vetri, come monetine che cadono, e cadendo come monetine e tintinnando e restando appesi alla parete, che è un muro che resiste, noi tutti resistiamo, e tutti noi siamo, grazie al contesto, così appesi con un senso, e siamo, così appesi, un unico corpo, e non c’è più un corpo che sia unico, non c’è più un unico che sia un corpo, non c’è più, nel dolore, il dolore che sia un corpo, che sia parte di corpo, non c’è più nel dolore che sia, ed è bene così, un corpo e una parte, non c’è più il dolore, non c’è più una parte, non c’è più parte, non c’è, o forse c’è, o per meglio dire, ex.


Foto © Marek Studzinski / Unsplash.

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