La parola è la lingua, la lingua è l’io. Nello splendido esordio di Maddalena Fingerle, Lingua madre, edito da Italo Svevo e vincitore del Premio Calvino, la questione linguistica è una questione di identità. Paolo Prescher vive a Bolzano in una casa piena di oggetti con le etichette dei nomi attaccati sopra dal giorno in cui suo padre Biagio ha smesso di parlare; sua sorella parla di scemenze, sua madre piange, piange, piange. Nei tre atti che compongono il romanzo (Bolzano-Berlino-Bolzano), il dramma di una famiglia disfunzionale, votata a una comunicazione flebile, si consuma tutto attraverso l’analisi ossessiva del linguaggio.
Biagio ha perso le parole eppure continua a scriverle dappertutto; Paolo, che dal padre ha ereditato lo sguardo disperato e gli angoli della bocca all’ingiù, prova a cercare per lui parole giuste per poter comunicare. Infastidito dalla retorica e dall’ipocrisia bolzanina fedele a un bilinguismo che non esiste, più di ogni cosa Paolo odia le parole sporche e chi le pronuncia, perché sono false e non dicono quello che devono dire; quelle pulite, invece, dicono il dolore senza raggirarlo, «dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o che le sporcano». Ci sono poi quelle che tolgono la fame perché saziano, le parole liquide che dissetano e certe altre ancora che si mettono di traverso come biglie finché non riescono ad andare giù. Alcune mettono di buon umore oppure a disagio: fòrmica ad esempio fa indolenzire le braccia, fragola fa venire il prurito alla lingua, sintesi passiva sembra un serpente che si muove viscido e lento, creatura è una parola con gli artigli.
A Bolzano tutto ha due nomi, a volte anche tre: uno in tedesco, uno in italiano e a volte, quando si deve, se proprio si deve, anche in ladino. Questo è un problema perché le parole hanno un potere metamorfico sulle cose. […] Mia madre passa ore intere al telefono e racconta strillando che qui è tutto bilingue, che noi a Bolzano siamo bravissimi e bilingui perché impariamo il tedesco a scuola. Ma non è mica vero che noi impariamo il tedesco a scuola. Quasi nessuno nella nostra classe lo sa perché a noi il tedesco ci fa schifo e poi anche se lo sapessimo non potremmo usarlo perché qui si parla il dialetto e il dialetto non ce lo insegnano a scuola.”
Parole come ponte e come muro: il tormento per la lingua ne enfatizza il potere rigenerativo e distruttore al contempo. La distinzione tra parole sporche e pulite finisce col sedimentarsi nelle cose, le opacizza; e il sopraggiungere di altre lingue complica il quadro. È un plurilinguismo concepito come bugia, che ha come controcanto la mancanza di una «lingua della famiglia» e che falsifica il concetto stesso di lingua madre, già avvertita come ipocrita. E l’ipocrisia smette di essere solo linguistica e si estende alle emozioni, ammanta i luoghi, inquina i pensieri. I vocaboli tedeschi disseminati nel testo enfatizzano allora lo scollamento, l’identità fratturata delle cose a seconda dell’idioma con cui le si nomina.
Ragionare sulle parole è ragionare di sé, in tal senso il ricorso a nomi parlanti si rivela funzionale: Paolo contiene in sé stesso le parole sporche che odia (Paolo Prescher è anagramma di parole sporche), alla stregua di Mira di Pienaglossa, che ripulisce la lingua (Mira di Pienaglossa, sapone di marsiglia). Dall’indagine psicologica dei personaggi all’evoluzione della trama: tutto, in questa storia, passa prima attraverso la lingua. La travagliata riflessione attorno alle parole è la vera spina dorsale del libro e scandisce i gesti e gli eventi, li decodifica prima del loro concretarsi.
All’indomani del suicidio del padre (Fingerle usa il verbo affacciare: «per un attimo vorrei affacciarmi anche io») il lutto di Paolo è innanzitutto linguistico. La reazione è immediata: abbandonare una lingua in favore di un’altra meno sporca, parlare solo tedesco fuori e italiano in testa, trasferirsi a Berlino, ricominciare. È un giuramento, un’ossessione, ma ancor prima è un fatto di identità – quando seduto al tavolo di un ristorante ordina una pizza con la rucola pronunciandola all’italiana così come l’ha pensata e non alla tedesca con la R maiuscola (Rucolapizza mit Parmaschinken), Paolo scoppia a piangere, si guarda allo specchio disperato, chiede continuamente perdono: la promessa s’è infranta. Da qui, il problema della traduzione e la scissione della personalità sulla base della lingua da usare, il sentirsi altro da sé:
Spesso in tedesco dico una cosa in italiano, e in tedesco o me ne viene un’altra simile o a volte completamente diversa: è come se ci fossero due persone, una italiana che parla dentro e una tedesca che parla fuori. E forse un po’ era così anche quando parlavo solo italiano, perché comunque una parlava dentro e una parlava fuori e non sempre dicevano la stessa cosa. Forse è anche meglio così, c’è più chiarezza nella distinzione dei ruoli. […] Quando parlo tedesco sono più tranquillo e anche la mia voce è diversa, è come se fosse quella di un’altra persona: è più maschile, più adulta, più bassa di quella che avevo in italiano e mi piace, la mia nuova voce bassa e maschile e adulta e tedesca.”
Mira, a Berlino, sembra essere l’unica in grado di pulirgli di parole e restituirgliele come nuove, oltre a far sì che Paolo accarezzi l’ipotesi di un rientro a Bolzano perché un bambino le cresce nel ventre. Il rientro a Bolzano è la chiusura di un cerchio perfetto, la conseguenza estrema di un’ossessione che raggiunge il suo apice. Al conflitto interiore di Paolo che si lava compulsivamente con l’acqua bollente per rimuovere lo sporco risponde la degenerazione del linguaggio – di cui non ha più il controllo –, ridotto a specchio di un flusso di coscienza patologico: parole e acqua straripano, ogni argine è infranto. Laddove l’ossessione si fa impenitente, la grammatica cede quindi fino a dissolversi, tanto che nei passaggi più tormentati saltano le regole della sintassi e quel che resta è un flusso di coscienza raffazzonato, un susseguirsi di immagini e voci che si accalcano caoticamente:
Mi dispiace, cercherò parole pulite e poi te lo richiederò. Des isch die Sproch der eigenen Leit. È bilingue come io. Paaaaolo! E siamo bilingui, noi. Ed regnet. Tu devi morire. Zona, parchetto, stazione, schifo, tutto, dammi una ciunga, pieno, vieni al lido? Grazie, preside. Per la proporzionale. Non ne ho trovate di pulite.”
Con in braccio il figlio appena nato, Paolo si sdraia nella vasca bollente. Le parole ora gli nuotano attorno e hanno gli occhi dei pesci e ruotano affogano e fanno affogare mentre il livello dell’acqua sale, il silenzio ingoia il dolore e in un attimo ogni cosa si spegne.
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