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#unite
un’azione letteraria collettiva
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Tra i venticinque e i trent’anni ho iniziato a fare un incubo ricorrente: scappavo dal mio matrimonio. La struttura del sogno era sempre la stessa: qualcuno decideva che dovevo sposarmi, organizzava il matrimonio e io lasciavo fare finché la data non si avvicinava e iniziava a montarmi l’ansia, che si trasformava rapidamente in senso di oppressione al petto e attacchi di panico. La prima volta in assoluto indossavo un vestito che non avrei mai scelto nella vita reale, uno di quelli gonfi e lunghi da damina ottocentesca, pieni di strati di tulle, e scappavo da questa piccola chiesa di campagna correndo a perdifiato giù per la collina fino a fermarmi, esanime, in una radura. Più correvo lontano dalla chiesa, più il senso di oppressione si alleggeriva. Mi sembrò un sogno bizzarro ma in fondo era divertente scappare dal matrimonio come in un film; quando però il sogno diventò ricorrente, prendendo le sembianze di un incubo, cominciai a interrogarmi.
Ogni volta il matrimonio era organizzato da qualcuno che non ero io, mi sposavo con uomini diversi, anche loro non li avrei mai scelti nella vita vera, proprio come l’abito, e ogni volta inventavo un modo nuovo per mandare a monte tutto: scappavo, telefonavo disdicendo la funzione – ma non la festa, perché ormai era pagata –, mandavo qualcuno ad annunciare che non se ne faceva più niente.
Da dove proveniva quel senso di oppressione all’idea del matrimonio?
Vengo da una solida famiglia tradizionale, genitori che non si sono mai separati, nessuna violenza domestica, a casa si è sempre respirata un’aria di amore e colto illuminismo, perché allora quell’incubo?
Sicuramente influiva la preoccupazione dei miei per il fatto che all’epoca né io né mia sorella ci fossimo ancora, a detta loro, sistemate con un compagno di vita, che non fossimo sposate e non avessimo figli. Ma c’entrava anche la pressione sociale, che si manifestava nei commenti sarcastici di certi amici di famiglia, secondo i quali avevo un carattere troppo brutto per il matrimonio (se ho capito bene significa che reagisco invece di stare zitta), c’erano le domande, costanti, sul mio essere fidanzata o single. Ma era più di questo, più del semplice peso di una aspettativa disattesa.
Nel sogno l’oppressione saliva al pensiero che il carico familiare sarebbe ricaduto solo su di me, e allora addio studio, addio danza, addio fotografia, addio libri da leggere e addio scrittura: in tutti quegli incubi la mia vita interiore sarebbe stata distrutta da quella familiare. E arrivava l’attacco di panico.
A quell’epoca avevo già conosciuto le molestie più o meno quotidiane degli uomini, i fidanzati che non collaboravano in casa, la risata di scherno di un collega di dottorato che riteneva non potessi leggere altro che Novella 2000. E poi c’era la consuetudine del mio dipartimento, in cui i dottorandi maschi davano del tu agli ordinari mentre le donne iniziavano a farlo solo quando diventavano ricercatrici. Era una formula di cui riconoscevo l’intento cavalleresco ma che finiva per mettermi a disagio e farmi sentire sempre in dovere di dimostrare qualcosa per essere considerata intellettualmente alla pari di un collega di sesso maschile.

Come avevo sempre fatto da quando ho memoria, anche in quell’occasione avevo cercato un senso nei libri, nei pensieri e le esperienze degli altri. Non risposte ma domande, analisi precise e articolate che mi aiutassero a capire.

Tutta la letteratura che avevo letto, sia i classici del femminismo (come, tra gli altri, Il secondo sesso, Una stanza tutta per sé, Dalla parte delle bambine) sia la maggior parte dei romanzi (scritti da autori di ogni genere), denunciava in modo esplicito o implicito la vessazione delle donne in società e soprattutto in famiglia, che della società è uno dei nuclei fondanti. Semplicemente raccontando la vita quotidiana e le sue problematiche, in quelle pagine si poteva riconoscere nella famiglia uno dei luoghi di oppressione della donna, lo specchio di una educazione collettiva che si tramandava da secoli.
Questo non significa che il nucleo familiare sia in assoluto un luogo di prevaricazione: spesso, anche se con tutti i suoi umani difetti, è un luogo di amore, serenità e rispetto reciproco, ma il modo in cui per secoli la società ha concepito la famiglia e perpetrato un preciso ruolo delle donne al suo interno doveva essermi entrato sotto pelle, e mi era intollerabile come una miriade di spilli nel cranio.
A quanto pareva né io né il mio inconscio potevamo sopportarlo se non al prezzo di numerosi attacchi di panico onirici.
Mi appariva a un tratto evidente il fatto di essere cresciuta in una società in cui l’oppressione si traveste da cura, da fine della solitudine, da senso di colpa; assume – in modi assai contorti – la concezione dell’amore come abnegazione cieca, come baratto della propria libertà in cambio di conforto, come protezione in cambio di una vita priva della possibilità di una felicità individuale.
I miei sogni erano il frutto di una società che aveva concepito l’isteria, il delitto d’onore, lo stupro come reato contro la morale e non contro la persona, e che continua a perpetrare meticolosamente il controllo sui corpi e sulle menti delle donne, nei secoli dei secoli.
Una società infelice perché non si cura della felicità delle donne.
La trappola di cristallo di ogni ragazza qualsiasi sulla terra.

Ho iniziato così a ripercorrere con metodo il sentiero tracciato dalle scrittrici, studiose, filosofe e attiviste prima di me, e su questa strada era impossibile non imbattermi in Charlotte Perkins Gilman, scrittrice, saggista, sociologa e femminista americana dei primi del Novecento, i cui racconti sono tornati in libreria per Mondadori, nella traduzione e curatela impeccabile di Stella Sacchini, con il titolo La carta da parati gialla. Sono racconti scritti a partire dal 1890, precisa Sacchini nella bella e accurata prefazione, quando Charlotte Perkins Gilman decide di lasciare suo marito, il pittore Charles Walter Stetson, e con lui anche la figlia avuta dalla loro unione. I racconti prendono spunto da situazioni vissute dall’autrice, come la depressione post-partum, il divorzio, la scelta di lasciare la figlia alle cure del marito e della nuova moglie – rendendosi così una madre degenere agli occhi dell’opinione pubblica –, il suo perorare l’idea di un’educazione libera dai preconcetti, la sofferenza quando le viene vietato, come rimedio per la depressione, di continuare a scrivere.

Colpisce l’attualità bruciante delle sue storie, benché scritte più di un secolo fa, a dimostrazione del fatto che la società si muove molto più lentamente di quanto si evolvano la vita e le esigenze dei singoli. Quello che Perkins Gilman racconta è la condizione aberrante in cui vivevano – e continuano a vivere oggi – le donne, costrette a una continua infantilizzazione sotto l’egida dei mariti, stigmatizzate dalla società quando optano per scelte di vita controcorrente.

Nei suoi racconti gli oggetti, come La carta parati gialla, ma anche gli elementi naturali, come Il glicinegigante, si fanno rappresentazioni esteriori e simboliche del male interiore che affligge le protagoniste, assumendo sfumature gotiche e grottesche: l’autrice si avvale di questi strumenti, insieme a una colta ironia, per rivelare quello che non può più essere occultato, un malessere diffuso tanto da essere considerato la norma, ma evidentissimo come una nitida figura femminile che, nella quiete di una casa di campagna, striscia e si dibatte sotto una vecchia carta da parati sudicia, che lotta per liberarsi dai cliché e dalle imposizioni di un mondo patriarcale.

E se la carta da parati è di un giallo livido, itterico, spento, e rappresenta la malattia che si insinua sottopelle quando alla protagonista viene vietato di scrivere per riaversi dalla depressione post partum, il glicine del secondo racconto invece cresce rigoglioso in una casa dove ancora aleggia lo spirito di una donna distrutta dal dolore per essersi vista sottrarre il proprio figlio, nato fuori dal matrimonio, dalla sua stessa famiglia. È un glicine selvaggio, come il dolore e la rabbia di una madre, che resiste al tempo e rimane a monito per i posteri, non sradicabile.
Sono donne, quelle di Perkins Gilman, che non ne possono più che qualcuno decida per loro, a cui viene impedito di esprimersi, di creare, di essere libere, il cui talento e la cui gioia di vivere vengono sperperati dalle condizioni repressive di una società patriarcale.
In Una madre snaturata le comari di un paesino giudicano una ragazza cresciuta «libera e sana» da un padre vedovo, il quale, non sapendo nulla dell’educazione canonica da impartire a una fanciulla, la alleva lontana dagli stereotipi di genere, in calzoni e capelli corti, parlandole senza tabù del corpo, del sesso e del parto. Quando la ragazza cresce, trova un uomo che la ama esattamente per quello che è e ha con lui una figlia, una catastrofe ambientale si abbatte sul paese. La donna sceglie di correre in città e avvisare della piena che sta arrivando prima di correre a casa sua a salvare la figlia, ma nessuno di quei salvati riconosce il suo alto senso civico, il suo altruismo: la collettività non esita a definirla una madre degenere, perché l’amore di una donna non può appagarsi nell’universale, ma solo nel frutto del proprio grembo.
La letteratura di Perkins Gilman non si limita tuttavia a denunciare una condizione, non crea solo personaggi che sono vittime della violenza patriarcale, ma donne reattive, che trovano un modo per cambiare le cose, e modelli di uomini che sfidano l’abusato e altrettanto dannoso senso comune della virilità e della mascolinità.
L’alleanza tra donne crea le condizioni necessarie al superamento di una condizione insopportabile. In Cambiamento, una giovane madre che ha abbandonato la sua passione, la musica, per dedicarsi alla famiglia, ritrova la felicità grazie al supporto della suocera, e con essa la possibilità di lavorare e una rinnovata serenità familiare. In Voltare pagina una moglie scopre e smaschera il tradimento del marito con la domestica più giovane, ne riconosce le dinamiche non legate all’amore ma al potere e alla posizione di predominio su una donna più debole e culturalmente sottomessa, e si allea con l’amante, andando a vivere con lei e crescendo insieme a lei il frutto di quel tradimento.
Il lavoro, l’indipendenza economica, la cultura e l’alleanza di genere divengono così nella letteratura di Perkins Gilman strumenti potentissimi di emancipazione femminile, di liberazione.
Prova anche a tracciare una rinnovata visione dei rapporti tra i sessi: ne L’uomo di casa un immobiliarista si innamora di un’attrice che vive in uno dei suoi alberghi, e la persuade a sposarlo, presentandosi come un uomo diverso dagli altri: virile, certo, ma disposto a sistemare e pulire la casa, accudire il figlio che lei ha avuto dal precedente matrimonio, consentirle di continuare a fare l’attrice, e lasciare così a Mrs Leland la libertà e l’indipendenza che ama, tanto da farle esclamare:

Non ho mai conosciuto un uomo che riuscisse… be’, che per un momento riuscisse a non fare l’uomo e a comportarsi da essere umano, solo e soltanto un essere umano.

In Quando ero una strega, il racconto che chiude la raccolta, il black humor che attraversa la scrittura di Perkins Gilman raggiunge le vette più alte: dona alla sua protagonista (una strega, come sono definite tutte le donne che si discostano dalla società patriarcale) la rabbia giusta per invocare la magia nera, e tutti i suoi desideri di punizione per le storture del mondo sembrano mettersi in atto. Ma quando questa novella fattucchiera si accorge che potrebbe fare qualcosa per cambiare la condizione delle donne, i poteri vengono meno, non funzionano più: perché non è la rabbia a muoverla ma il senso di giustizia, che fa capo alla magia bianca.

Quindi pensai a tutte le altre donne, […]; la più grande riserva di potere esistente al mondo, un potere reso cieco, asservito, mantenuto nell’ignoranza, impiegato nelle ingrate e noiose faccende domestiche. Pensai a cosa avrebbero potuto fare, confrontandolo con quello che facevano realmente, e il mio cuore si gonfiò di un sentimento che era lontano dalla rabbia. Allora desiderai – con tutta me stessa – che le donne, tutte le donne, potessero finalmente vivere a pieno la propria condizione femminile; il potere, l’orgoglio, la consapevolezza di avere un posto nel mondo; che potessero riconoscere il proprio dovere di madri dell’umanità intera – amare e proteggere qualsiasi creatura vivente; che potessero riconoscere il marcio negli uomini – scegliere soltanto i migliori, e allevare e crescere uomini migliori dei loro padri; che potessero riconoscere il proprio dovere di esseri umani, e buttarsi nella vita e nel lavoro senza riserve, costruendosi da sole la propria felicità! Mi fermai, senza fiato: mi brillavano gli occhi. Aspettai, tremando, che il desiderio si avverasse. Non accadde nulla.

L’autrice vuole suggerire che non è una magia a poter cambiare le cose, ma una presa di coscienza collettiva, che veda uniti uomini e donne nel riconoscimento di una condizione, una soverchieria patriarcale, che può cambiare solo dotando le donne degli strumenti di libertà ed emancipazione dovuti a ogni essere umano, perché è solo così che la società civile può davvero pensare di progredire, emanciparsi e creare un futuro migliore, più felice.

Ricordiamo spesso le grandi donne che hanno contribuito a cambiare le cose, ma le rivoluzioni non sono mai frutto di un agire isolato, sono fatte anche dai gesti piccoli e risoluti di chi solleva la testa lontano dai riflettori e si fa luminoso esempio quotidiano di resistenza e di lotta: le donne e le ragazze qualsiasi che vivono e agiscono nella società e, anche se la subiscono, giorno dopo giorno fanno la Storia, sono la Storia.
Perkins Gilman non dimentica nessuna di loro, nessuna di noi, ed è proprio a Una ragazza qualsiasi che è dedicata la chiusa della raccolta, in una poesia che racchiude la fragilità emotiva e socio-economica delle donne tenute nell’ignoranza, costrette ad affidarsi al dominio maschile per esistere, e al quale sono costrette a piegarsi, di cui devono adottare le regole per stare nel mondo. Una ragazza che viene isolata perché diventi più fragile, che sceglie il matrimonio e i figli non con coscienza ma come protezione per sé, perché così le hanno insegnato, una donna che non sa e per questo si perde, mantenuta ignorante perché la conoscenza porta all’autocoscienza.
La poesia inizia così:

Una ragazza qualsiasi. Affamata dalla nascita.
Malnutrita. Malvestita. Ignara del valore d’una donna.
Nella mesta giovinezza lavorare per il pane.
A ogni piccolo dolore desiderare d’esser morta,
eppure allegra per le piccole gioie. Il sole pare
più lucente e caldo dove splende più di rado.

Charlotte Perkins Gilman, che visse all’altezza della sua scrittura e dei suoi ideali, si rivolge così a ogni singola donna, a ogni ragazza qualsiasi, perché prenda coscienza della propria condizione e se ne emancipi, perché non smetta di lottare, perché si sfili dalle maglie strette di una società patriarcale attraverso il coraggio, il sapere, il lavoro, l’indipendenza economica, la libertà.

Ragazze qualsiasi che ogni giorno, senza far clamore, chiedono un aumento di stipendio, denunciano una molestia o una violenza, chiudono una relazione disfunzionale, si vestono come gli pare, escono la sera, vivono la loro sessualità libere, scelgono o no di generare e in entrambi i casi se ne assumono la responsabilità, votano, dividono i lavori domestici, chiedono di essere riconosciute nella loro professione, si rifiutano di attraversare il bosco stando sempre attente al lupo, donne qualsiasi che operano una rivoluzione quotidiana, ma che sono pronte a fare rumore quando è necessario.
Quell’incubo alla fine ho smesso di farlo, non mi sono sposata ma non mi sento mai sola, so di trovarmi in un lungo corteo di ragazze qualsiasi che si muovono passo dopo passo su un sentiero aperto da altre prima di noi, senza paura, libere, unite.

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