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Entrò timorosa, quasi rossa in viso. Poi, sollevando la veletta molto spessa al di sopra delle labbra, con un gesto lieve, aggraziato e un po’ impacciato, chiese:

«Il signor Derbois?».

Dei due fattorini, intenti uno a temperare una matita e l’altro a legare un pacco, il primo alzò la testa, una testa animalesca e pesante, squadrò con cinismo la visitatrice, allungò un blocco di carta, indicò una penna.

«Non so se il signor Derbois è qui…» disse.

Lei rispose con impeto.

«Sì… sì… ci deve essere… è lui che mi ha dato appuntamento…»

Il fattorino parve non prestare alcun interesse alla dichiarazione della visitatrice, e con un tono di voce ostile:

«Scrivete comunque il vostro nome…» grugnì. «Vado a vedere…»

Lei posò sulla scrivania il piccolo manicotto di astrakan consunto e, chinandosi in avanti, scrisse il suo nome.

«In ogni caso… non gli ruberò molto tempo… devo solo dirgli una cosa… molto urgente.» implorò.

O almeno mi sembrò che i suoi occhi – per quanto riuscivo a scorgere – avessero in quel momento un’espressione implorante.

E la sua voce mi colpì per il timbro triste e delicato. Pensai con una specie di ingenua pietà: Ancora miseria, di sicuro… ancora abiezione, ovviamente… non si vede e non si sente altro attorno a Derbois.

Il fattorino staccò il foglio dal blocco di carta e lo agitò, per far asciugare l’inchiostro fresco.

«Sedetevi…» ordinò.

Poi attraversò l’anticamera con un passo pesante e ritmato e, in fondo, dietro una porta a due battenti, rivestita in finta pelle, sparì… l’altro continuò il suo pacco, metodico, senza guardare la donna… era grasso, con la pancia prominente, ben piantato sulle gambe massicce.

Il suo aspetto sfacciatamente sano, la sua sicurezza insolente mi infastidirono… perché niente mi irrita, niente mi urta così tanto come la faccia di quelli che sospetto a loro agio nella vita, felici e in piena salute.

Timida, lo sguardo un po’ indeciso, la donna si mise a sedere su una panca.

Di fronte a lei, sulla parete tappezzata di carta scura, si dispiegava una grande carta geografica… paesi rosa, paesi azzurri, rossi, malva, gialli, paesi multicolori, percorsi in tutte le direzioni da linee rette, curve, ondulate, ornati da ellissi, spire, parabole e frecce, bagnati, tutt’intorno, da un lavis verde pallido, che raffigurava gli oceani… Oh! Andarsene… fuggire… fuggire attraverso l’infinito leggero di quei mari, di quelle contrade sconosciute, lontane, avventurose. Gli occhi della visitatrice, dapprima esitanti a posarsi su qualcosa, si fissarono infine sulla carta, vaghi e smarriti.

Alcune persone occupavano, qua e là, delle poltrone rivestite con la stessa finta pelle usata per la porta… gente di ogni tipo… agenti di borsa e galoppini… addetti alla giustizia e frequentatori di bische… usurai e rigattieri… truffatori e ruffiani, ladri e derubati… ognuno a rappresentare una storia sordida, un affare sordido o un vizio ignobile… tutti insieme a mostrare le tante facce e i retroscena della vita di Derbois… da postulanti, abituati a lunghe attese nelle anticamere, avevano, per la maggior parte, l’aspetto di pacchi infagottati, il torpore sonnolento delle cose inerti… in un angolo, un giovanotto, senza dubbio membro di un qualche circolo, e sicuramente pederasta, si contemplava con aria soddisfatta gli stivaletti di vernice appuntiti, poi le mani nude, di cui agitava le dita cariche di anelli… un vecchio signore, decorato, dal portamento militare, rigidissimo, il busto costretto in un cappotto troppo attillato, con un collo di pelliccia troppo largo, una cartella di marocchino sotto il braccio, camminava avanti e indietro, gli occhi rivolti al soffitto, occhi freddi, implacabili e inespressivi, come monete… ebbi l’impressione di averlo incontrato da qualche parte, in posti inconfessabili… cercavo di ricordare… ma ne ho incontrati così tanti!

Chi è questa canaglia? Mi dicevo. E quale affare spregevole viene a proporre a Derbois?

Ogni tanto esaminava con sguardo subdolo la donna che, le mani nel manicotto, i gomiti incollati ai fianchi, il corpo un po’ inclinato, in una postura di rassegnata angoscia, non si muoveva, aspettando…

Non ero lontano da lei, seduto sull’altra estremità della stessa panca, aspettando anch’io Derbois… agitatissimo, nervosissimo… lo stavo aspettando da un’ora.

«È in riunione…» mi avevano detto.

In riunione!… Buona questa!… Sapevo per esperienza quale fosse il senso dilatorio contenuto in questa risposta… non aveva importanza: io aspettavo… e cominciavo a spazientirmi furiosamente per la durata di quella fantomatica riunione… in più, poiché la noia dell’attesa accendeva in me sensazioni inconsuete, provavo una vera e propria vergogna a trovarmi lì, ad avvilirmi in quell’anticamera, in mezzo a tutte quelle variegate canaglie, alla mercé di un Derbois.

Se la prendeva davvero troppo comoda, quel Derbois, quell’ignobile Derbois che avevo conosciuto tempo addietro, poverissimo, umile, servile, a cui molto spesso avevo prestato cinque franchi perché potesse mangiare, quel miserabile furfante!… Ah! Le sue giacche logore, i suoi cappelli sformati, tutto lo squallore della sua miseria!… Ah! I suoi poveri zigomi sporgenti sotto la pelle cinerea… e quell’aria da supplica subdola, quando tendeva la mano!… Dio! Com’era brutto, spregevole, ridicolo!…

Ti devo la vita… ti devo tutto… tu sei la mia provvidenza…

Ma no… ma no…

Ti restituirò tutto centuplicato…

Va bene… va bene!…

Ah sì! Adesso era già tanto se mi riconosceva… era già tanto se, incontrandomi per caso, seduto in fondo a un coupé o sui morbidi cuscini di una vittoria, si degnava – e con quale sprezzante arroganza – di accennare un saluto con la mano, quella mano coperta da un guanto di pelle bianca, quella mano in cui danzava un bastone con l’impugnatura d’oro… e addirittura, la maggior parte delle volte mi evitava.

Che tipo sordido!… Che canaglia immonda! mugugnavo tra me e me, mentre l’altro fattorino, sempre intento a legare il suo pacco con gesti autoritari e maldestri, mi irritava… mi irritava terribilmente, al punto che su quel sottoposto insignificante e su Derbois riversavo lo stesso odio violento e puerile.

E mentre il fastidio di essere trattato così da un vecchio amico, ora potente e ricco, si aggiungeva all’irritazione per l’attesa, cercavo di consolarmi ricordando disdicevoli avventure di cui un tempo il Derbois era stato protagonista, azioni vili che sarebbe stato un piacere rinfacciargli un giorno, in circostanze che non riuscivo a definire chiaramente, ma che prevedevo già, eccitanti, drammatiche e sapide di vendetta.

E mi dicevo:

sì, sì… fammi aspettare nelle tue anticamere, delinquente!… Verrà il giorno… il magnifico giorno in cui la giustizia avrà portato a compimento su di te e su di me la sua inevitabile opera di rivincita… con quale feroce sollievo, con quali umilianti gesti di carità… ti farò l’elemosina… in pubblico… di pochi spiccioli! E come te li getterò in faccia i miei vecchi pantaloni… le mie vecchie camicie… i miei abiti smessi!… Ah! Ah! Ah!…

C’è bisogno di aggiungere che a mia volta ero lì per chiedergli in prestito dei soldi?

In rovina da un po’ di tempo, tallonato da creditori implacabili, sul punto di essere braccato, cacciato dal mio appartamento, avendo conosciuto l’enorme amarezza di vedermi rifiutare il pane… sì, il pane… dal mio panettiere, ero davvero alla disperazione… come se non bastasse, per soddisfare vizi tenaci e ridicole vanità, avevo stupidamente sprecato le occasioni rimaste per procurarmi un po’ di credito, protezioni efficaci, amicizie devote… non mi restava che sperare in Derbois… solo Derbois poteva tirarmi fuori dall’orribile situazione in cui mi trovavo. Ma il timore di non riuscirci neanche oggi, così come le volte precedenti – perché passavo il mio tempo ad assillarlo con richieste di ogni tipo – mi gettava in una condizione di estrema irritazione, di esasperata malevolenza.

Allora… su… calma, che diamine!

Mi alzai e mi misi a camminare nell’anticamera, senza smettere di ripetermi:

calma, su… ah! Canaglia!… Sporca canaglia! Canaglia schifosa!… Eh già… calma, in ogni caso.

E nonostante quei reiterati appelli, ancor prima di incassare l’ennesimo rifiuto, meditavo già nuove vendette, facili da portare a compimento, contro un uomo d’affari così disonesto, un uomo così equivoco e compromesso… in fondo, non mi ero tanto calmato.

Ed era la vigilia di Natale… una giornata grigia e piovosa, mi ricordo… un cielo basso e cupo. E la strada… la strada dei pubblici festeggiamenti, che mi faceva sentire più intensamente tutti gli orrori della mia disperazione… la strada invasa, con le sue frenesie, le sue febbri, i marciapiedi affollati, i negozi sfavillanti, le merci esposte, per la kermesse notturna… con quanto odio, con quanto doloroso tormento al cuore, avevo appena attraversato quei fiumi di gente, fiumi di gioia volgare, fiumi di feccia ripugnante… e quell’idea inaccettabile che, condensando nella mia sola persona tutta la povertà umana, io fossi, in quella notte di ebbrezza e oblio, in mezzo a quella folla immensa e a quelle vetrine in festa, l’unico essere vivente, costretto a nascondermi come un criminale in fondo a una buia topaia!… Avevo anche promesso a un’amichetta che l’avrei portata a cena, quella sera… e non avevo un soldo in tasca… neanche il benché minimo credito da qualche parte… la settimana precedente, in un giorno di fame estrema, avevo dovuto impegnare ciò che restava delle mie ricchezze… un piccolo e modesto fermacravatta d’oro e tre camicie intatte… e il Derbois era in riunione!… In riunione!…

Ah! Che canaglia!… Che sporca canaglia!…

In quella particolare disposizione d’animo e per occupare la mente con altri pensieri, mi costrinsi a osservare la mia vicina… non si era mossa… continuava a guardare con profonda tristezza, a guardare senza vedere, la carta geografica, sulla quale piccoli piroscafi si allontanavano attraverso il verde acqua degli oceani sopra l’arco sottile delle linee grigie.

A una prima occhiata, la sconosciuta mi era parsa elegante e bella. Quando esaminai più intimamente il suo abbigliamento e la sua fisionomia, mi accorsi che era miserabile, troppo truccata e già vecchia… sì, quasi vecchia… aveva raggiunto quel momento tragico della vita delle donne, in cui quelle che hanno ancora un po’ di grazia, un po’ di passione, devono assistere, con indicibili torture, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, al crollo della loro bellezza.

Ah sì, già vecchia… vecchia per l’età e anche per la sofferenza… notai delle rughe profonde intorno agli occhi, sulle tempie screpolate come uno smalto antico… gli angoli della bocca si piegavano all’ingiù, le carni erano cadenti, molli e appassite, nel cedimento grinzoso delle guance. A ogni punto di attacco dei muscoli, non ebbi difficoltà a distinguere una depressione della pelle, un’ombra flaccida, un buco, qualcosa come l’impronta di un dito su incarnati morti… e da tutti i suoi vestiti, dai suoi capelli troppo biondi e troppo giovani, dal suo manicotto, da tutta lei, esalava un odore, un povero e triste odore di profumeria da bazar. Mi interessai a quelle nuove scoperte, che per un momento mi calmarono.

Tuttavia, a considerarla nel suo insieme, quella vecchia donna conservava realmente nella flessuosità del corpo, nel morbido abbandono del braccio, nel nobile e ancora elegante disegno di tutte le linee, conservava qualcosa di affascinante, l’illusione o piuttosto il ricordo di una bellezza che un tempo doveva essere stata mirabile.

E quale commovente tristezza nel suo abbigliamento! L’abito e il mantello erano di stoffe pregiate, dal taglio sapiente. Si capiva che erano fatti su misura e non comprati nel negozio di un rigattiere, ma com’erano logori, consumati, ricuciti con eroici, pazienti e continui rammendi! Il manicotto presentava delle chiazze spelacchiate; il cappello dondolava sotto le piume ammosciate, tutto un poema di dolore… Invano cercavo gli stivaletti, che dovevano essere patetici… li teneva accuratamente nascosti sotto l’atroce povertà delle sottovesti.

Quel che restava del suo viso e dei suoi vestiti, che si assomigliavano per le stesse usure e sofferenze, che raccontavano in modo così eloquente, nel loro comune declino, un passato scomparso di opulenza e bellezza, furono per me come un’improvvisa rivelazione della vita di quella donna, una spiegazione della sua presenza lì, nell’anticamera di un uomo d’affari corrotto e senza cuore… e provai un’immensa pietà, poi un’immensa gioia, perché non dubitai un solo istante, davvero non dubitai, che fosse vittima di Derbois… immaginai cose nuove e straordinarie…

Accidenti! Mi dissi… è evidente, è chiaro. Devono esserci delle brutte storie sotto… storie davvero ignobili. Le vedo da qui… puah! Non serve essere grandi psicologi per ricostruirle in tutta la loro meschinità… ci sarà da ridere… ah sì, ci sarà da ridere!…
Mi sfregai vigorosamente le mani. Poi ebbi un sussulto di entusiastica sorpresa, simile a quello che proverebbe un mendicante affamato se di notte, all’angolo di una strada deserta, trovasse improvvisamente sotto i suoi piedi una mazzetta di banconote.

Una fortuna!… E mugugnai acido:

Sì sì… mio caro Derbois… continua, sì!… Ah! Puoi mostrarti ancora più villano e insolente… me ne frego… puoi farmi aspettare nelle tue anticamere per ore… per giorni… meglio… perché ti tengo, sì!… Adesso ti tengo stretto… e vedrai che ci divertiremo insieme… canaglia, farabutto, delinquente.

In quel momento, come se avesse sentito, o piuttosto indovinato le mie parole, come se avesse avuto consapevolezza dei pensieri che mi agitavano, la sconosciuta girò la testa verso di me.
Ebbi modo di osservare i suoi occhi.

Erano ancora belli, ancora ardenti, e dolci, e tristi, e buoni… ah, infinitamente buoni… occhi abituati a piangere, a supplicare, a essere respinti… sempre… ah, disgraziato… occhi il cui strano bagliore era fatto delle ultime fiamme d’una passione vicina a spegnersi, e dei calmi barlumi aurorali di un amore materno che ha inizio… occhi innanzi ai quali piangere tutte le lacrime della pietà e della compassione umane… e non essere commosso da quegli occhi… non essere mai stato commosso da quegli occhi, che vergogna!

Ah delinquente! Se stavolta mi mandi via senza soldi… senza un sacco di soldi!… Sì sì… ci sarà da ridere!… Che bella idea… che idea provvidenziale quella di venire oggi… quindi c’è una giustizia oscura, una qualche forma di giustizia, che ci spinge ad agire… che, in un minuto misterioso, decide per sempre del nostro destino?

Non ero più triste… non ero più disperato… e in quel momento importante credevo in Dio… parola d’onore!

Allora, con la prontezza di un’immaginazione fervida e appassionata, che spesso ho in circostanze difficili, ricostruii tutti i dettagli del romanzo doloroso di quella donna e, nello stesso momento, misi a punto dei piani… dei piani… dei piani… per trarne profitto a svantaggio di Derbois.

Era vedova… ricca… rispettata… di rango elevato… educazione perfetta… modi impeccabili… virtù specchiata… una donna di prim’ordine insomma… non ci si poteva sbagliare… aveva incontrato Derbois chissà diavolo dove… fiduciosa e generosa, lo aveva amato… ah che peccato! A lungo aveva vissuto con lui, devota, sottomessa, eroica, dandogli tutto, cuore, reputazione, mente, denaro. Insensibile come lo conoscevo io, il mio vecchio amico aveva accettato tutto, preteso tutto, costruendo la sua fortuna, senza rimorsi e con una tenacia selvaggia, su quest’amore pronto a tutti i sacrifici, a tutte le umiliazioni, a tutte le rinunce… felice lei non solo di salvarlo dalla miseria, ma di strapparlo al fango ignobile in cui marciva… una santa… una martire… di prim’ordine… una di quelle creature meravigliose, che ormai si trovano solo nelle fantasie ugualmente idealiste del poeta e del benefattore. E poi un bel giorno, in rovina, invecchiata, non potendo più procurargli né piaceri né profitti, lui l’aveva abbandonata, il disgraziato! Oggi era la salita al calvario, l’irrimediabile declino, e domani, forse, il suicidio… ecco!… Sempre la stessa storia!…

Povera donna!… Amante dal cuore sublime! Già l’amavo, la veneravo, volevo dedicarmi a lei!… Ormai le avrei consacrato la mia vita, tutta la mia vita… per difenderla, per salvarla, avrei ritrovato dentro di me forze e risorse nuove… avrei inventato assalti ingegnosi, pietosi e violenti ricatti, vittoriosamente.
Medicare le ferite della tua anima… guarirti… e ridarti la felicità perduta… ah sì, la felicità, cara e povera creatura. Ecco a quale bella missione mi dedicherò.

E per davvero, ardentemente, dimenticavo i motivi del mio risentimento contro il Derbois, per pensare solo alle ragioni di quella donna ammirevole e addolorata.

Camminavo nell’anticamera… camminavo… camminavo… il cuore ringiovanito… il corpo leggero… sollevato, trasportato da un entusiasmo puro… e continuando a camminare, pensavo a tutto un piano d’intervento.

Accidenti!… Era evidente… Derbois la riceveva solo di rado… e inoltre la riceveva solo per paura di uno scandalo, di uno di quei violenti e improvvisi scandali di cui sono capaci le donne disperate, anche le più timide, pazienti e rassegnate… non c’era bisogno di conoscere tutte le imprudenze dell’amore per indovinare che lei aveva alcune sue lettere, lettere terribili, confessioni infamanti, forse… ma sì… era sicuro… e senza dubbio lui temeva che, in un momento di rivolta, lei se ne sarebbe servita per disonorarlo… come se oggi si potesse disonorare l’uomo che è protetto, lo scellerato che è purificato dal denaro… ma i furfanti hanno certe bizzarre superstizioni, certe paure ingiustificate.

Abbiate fiducia in me, signora, mi dicevo… la vostra causa la prendo in mano io e vi giuro che sarà in buone mani… lo porteremo in certe stradine di cui non ha ancora sperimentato l’asperità… noi due, grazie a quelle lettere benedette, lo faremo rotolare in quel fango che non conosce ancora… sebbene conosca bene il fango per essersene già insudiciato. Non siate più triste… non piangete più… sperate… sperate!…

L’ossessione per quelle lettere era così forte che le vedevo riposte, in piccoli pacchetti, in fondo a un cassetto. Le vedevo davvero, materialmente… su carta grigio azzurra… mi ricordo… e non solo le vedevo, ma le toccavo… le dispiegavo una a una… le leggevo… ah che lettere! Quale balsamo mi versavano nel cuore! Tutto ciò mi rese audace e mi calmò, nello stesso tempo… mi riportò molto bruscamente a un sentimento più adatto ai miei interessi, legittimamente più egoista.

Grazie alla certezza che avevo dell’esistenza di quelle lettere, lettere decisamente incriminanti, io raddoppiavo, triplicavo, quadruplicavo la somma che avevo intenzione di chiedere a Derbois… sì, sì, fra poco sarei entrato nel suo studio, non più timido, non più servile, sarei entrato a testa alta, i baffi ironici, lo sguardo minaccioso. Sarei entrato con prepotenza e avrei detto:

quella donna… ah! Ah! La conosco… quella donna ammirevole. E le tue lettere, farabutto, le ho lette le tue lettere… ah se le ho lette? Non solo le ho lette… ma ce le ho io… sono mie… le tue lettere… le tue lettere infami… allora, parliamo… quanto mi dai?
Derbois si sarebbe agitato… sarebbe impallidito.

Amico mio, ti prego… ti supplico… pietà!…

Nessuna pietà… quanto?

Tutto quello che vuoi… tieni… prendi… prendi quello che vuoi…

Immediatamente, lui apriva la cassa… e l’oro di cui era piena usciva… usciva… andava a finire nelle mie tasche…
Così soddisfatto da questo finale che non mi era possibile concepirne un altro, ritornai a sedermi sulla panca, con una posa più fiera, da vincitore.

Il giovanotto continuava ad ammirarsi gli stivaletti e gli anelli, il vecchio continuava ad andare avanti e indietro nell’anticamera, con gli occhi ancora più bianchi… dov’è che avevo incontrato quella canaglia? E la donna continuava a guardare la carta geografica, le pupille vaghe, smarrite in un sogno dolente…

In quel momento, il fattorino apparve nello spiraglio della porta a due battenti, rivestita in finta pelle – il battito del mio cuore molto forte… accelerato. Tutto quel dramma non era durato neanche un minuto.

Il fattorino si avvicinò alla donna:

«Il signor Derbois non c’è…» disse con un tono di voce in cui mi sembrò ci fosse un che di offensivo e di compiaciuto.

Aggiunse:

«Non verrà in ufficio oggi».

Lei si alzò in piedi… dapprima incerta… poi stupita e delusa… infine, improvvisamente rassegnata, se ne andò con i gomiti lungo i fianchi… le spalle tristi… ah che tristezza in quelle spalle!…

Quando mi passò vicino… così vicino… che la gonna sfiorò le mie gambe accavallate, la incoraggiai con uno sguardo, uno sguardo che sembrava dire:

non importa… lo abbiamo in pugno… vai… torna a casa… sono qui io… io resto qui… e non piangere più… fidati… ah quella canaglia!…

E continuai ad aspettare…

 

Traduzione di Miriam Glerean

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