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I pensieri hanno il colore di un VHS smagnetizzato.

L’odore di muffa del divano scava il petto. Legioni di acari entrano negli alveoli polmonari e con le piccole zampe solleticano i tessuti, mi fanno tossire e bestemmiare, e la superficie molle degli organi si riempie di orme d’insetto. Ogni tanto do una tirata al mozzicone di Dunhill, mentre il fumo entra negli occhi, brucia e li fa inumidire, ma insieme soffoca i parassiti.

Un brusio elettrico frigge nella mia testa. Le prime righe di un articolo pubblicato su «Mind» attraversano gli occhi irritati, distorte dalle lacrime.

 
Presto, la capacità di rilevare e controllare l’attività elettrica del cervello attraverso il cuoio capelluto, trasformerà la medicina e cambierà la società in maniera profonda. Gli schemi di attività elettrica del cervello possono rivelare i processi cognitivi delle persone […]

Lo leggo a salti, si parla di lettura della mente, ma non ha nulla a che fare con la telepatia; non ci sto capendo molto, non riesco a concentrarmi. Il cervello anticipa notifiche dello smartphone che non arrivano, rimangono nebbia psichica trasmessa dalle sinapsi sotto forma di suoni che non esistono, falsi impulsi che si intrecciano a false aspettative, ricordi mezzi rotti e poi ricomposti.

Guardo lo schermo a intervalli regolari sperando che il nome Greta compaia su Telegram. Niente, allora accendo la tv. Questa nuova generazione di decoder digitali ha un segnale potentissimo; quando clicco sul telecomando, c’è qualcosa dentro di me che comincia a formicolare. Sento il sistema nervoso ricevere segnali. Sullo smartphone ancora nulla, vibra di continuo, ma sono tutte notifiche che non mi interessano. Però ogni notifica la sento dentro, come se il midollo spinale fosse un trasmettitore.

Dev’essere quello che è successo giù al complesso industriale.

Ho bevuto il liquido nero il giorno in cui Greta m’ha lasciato. La relazione era stata chiusa nell’arco di dieci minuti, a un tavolino di un bar di San Lorenzo, tra la condensa della bottiglia di Peroni che si amalgamava alla cenere di sigaretta sul tavolo di plastica e le nostre dita che si sfioravano prima di allontanarsi, intentando un preambolo silente al discorso. Frammenti di vita svanivano e cominciavano il processo di trasformazione in ricordi, una disgregazione veloce, attraverso poche parole, un abbraccio, lacrime trattenute, l’ultimo sguardo prima di una sedia vuota, che a sua volta origina un vuoto nello spazio più intenso di quello che dovrebbe essere, perché dove prima c’era un corpo, adesso non c’è nessuna protezione dagli occhi delle persone sedute ai tavolini davanti, diventate presenze di troppo.

Era tardo pomeriggio quando ripresi la macchina per tornare a casa. Nel tragitto di ritorno non volevo passare per il Centro. L’A90, il Grande Raccordo Anulare, è la strada più lunga, ma è anche uno scenario vuoto, asettico. Avevo bisogno di pensare che il mio evento traumatico avesse fermato il tempo, la razza umana intera, e che io fossi una sorta di sopravvissuto, un sopravvissuto in mezzo a corpi-macchina che scivolavano sull’asfalto senza persone dentro l’abitacolo, e in questo isolamento avrei permesso al corpo di elaborare il fatto. Altrimenti il dolore sarebbe svanito troppo presto nel flusso, nel piccolo piccolo quotidiano, per poi ripresentarsi un mattino qualunque, a colazione, come un colpo in testa alle spalle.

Il Grande Raccordo Anulare è un anello d’asfalto autostradale che circonda Roma attraversando campi coltivati e pascoli, costeggiato da benzinai e qualche perimetro di quartieri periferici. Un fluido di luci artificiali che si riverbera sulle lamiere delle macchine. Il verde prevale sul cemento; ma la mente non riesce a percepire alcun senso di natura. Il Grande Raccordo Anulare è un attrattore di claustrofobia all’aria aperta.

Imboccando l’uscita 26 intravedevo spesso il complesso industriale. Volevo camminare, e quella costruzione che si stagliava all’orizzonte, isolata dai quartieri circostanti, aveva sempre avuto un fascino inspiegabile. Sorgeva come un errore, o come parte di un mondo parallelo.

Dopo anni passati a osservarne la silhouette sull’orizzonte urbano, quel giorno, per la prima volta, feci una deviazione dal tragitto. Presi l’autostrada in direzione Fiumicino, cercando di seguire il complesso in linea d’aria. Andavo piano con la macchina, incurante dei clacson e degli insulti degli automobilisti. A un certo punto, avevo notato una piccola via che costeggiava la corsia d’immissione all’autostrada vera e propria. È una svolta quasi invisibile, che porta a una strada senza uscita. Alla fine di questa strada c’è un sentiero di erbacce bruciate, l’odore del polline e dell’umidità riempie le narici, la pelle comincia a pizzicare come se anticipasse le punture degli insetti; è un percorso sterrato che porta a una collinetta da cui si può vedere il complesso industriale da un lato e l’autostrada dall’altro. Non è molto agevole discendere dalla collinetta; bisogna distruggersi le scarpe usando le suole come piccole tavole da snowboard.

In quella piana di terra rossa, il mondo sembra rimasto senza parole. Le ciminiere puntano contro il cielo uscendo da un groviglio di tubi, circondate da una bolla di silenzio. Lo sfrecciare delle macchine arriva irreale, di quell’irrealtà che appartiene alla luce di una stella morente. Camminando verso il complesso industriale sento una vertigine. È l’effetto che fanno due spazi che non dovrebbero appartenersi; il risultato della collisione tra la distesa ampia di terra, i fili d’erba morti e l’imponenza claustrofobica di una struttura su cui anche gli ultimi raggi del giorno hanno paura di riflettersi. La vertigine viene poi acuita dall’impressione che il complesso non sia costruito perfettamente in verticale, ma sia inclinato in maniera impercettibile verso il terreno, sovrastando lo spettatore.

Una cattedrale d’acciaio avviluppata in spirali di fumo nero.

Mi chiedo ancora oggi cosa produca questo impianto. Non ho mai visto nessuno, non ho mai sentito presenza di essere umani, né visto insegne o cartelli. Però mettendosi in ascolto è possibile sentire, nella filigrana dell’aria, il lavorìo incessante di macchinari meccanici.

Vista da un satellite, l’area del complesso industriale apparirebbe come una specie di cratere. La pozza si trova sul lato est, la parte del complesso più lontana dalla collinetta, dove il perimetro sembra confinare con un vuoto. Un pezzo di terreno in rilievo fa da margine, ma è meno alto della collinetta. Al di là del rilievo si riescono a scorgere campi non coltivati, forse una parte di territorio che lambisce quei punti del Tevere che a Roma conoscono in pochi, dove il terreno si fa melma da cui germogliano leggende, storie di commerci di pesci che sembrano afferire più a una zoologia oscura e fantastica che alle scienze naturali, dove la pelle degli uomini ha il colore di quel fango e i loro occhi del cielo di novembre, e la vita prende forme sconosciute alla città in superficie.

Quel giorno mi ero imbattuto nella pozza mentre stavo cercando di nascondermi. Camminavo verso il portone principale, quando mi venne in mente che poteva esserci un sistema di sorveglianza, dei custodi o magari degli operai che vi lavoravano. Eppure era come se quel flebile suono meccanico provenisse da un organismo interno.

Il sole bruciava più di quanto riuscisse a illuminare.

La mancanza di presenze viventi avrebbe dovuto darmi una maggiore sicurezza; eppure avevo la stessa sensazione di quando ci si ritrova a camminare in una stazione ferroviaria abbandonata, quando i miliardi di occhi e passi e respiri accumulati nei decenni li senti ancora lì, nell’assenza, come fossero tracce rimaste nell’atmosfera del luogo.

La pozza, grande quanto il cerchione di una macchina, si trova nei pressi dell’angolo tra la parete est e il lato posteriore del complesso. Me ne sono accorto notando delle spaccature lievi nel terreno, talmente sottili che ci si sarebbe potuto inserire a malapena un foglio di carta. Le avevo seguite per un paio di metri, fino a ritrovarmi di fronte a quel liquido. Sono rimasto a fissarlo per diversi minuti prima di essere cosciente del flusso di domande che mi stava attraversando la mente. Sembrava che il suolo si fosse spaccato per permettere a qualcosa di nascere. Sapevo che non si trattava di catrame, petrolio o roba simile. Era poco più denso dell’acqua, non aveva un cattivo odore. Definirlo nero sarebbe impreciso. Fissando il centro della pozza, per brevi intervalli di tempo, era possibile intravedere l’intero spettro dei colori primari senza poterli localizzare in un punto esatto. Era come trasporre il fenomeno degli echi al campo delle immagini. Da quel disordine estetico, a un certo punto, l’odore del liquido aveva cominciato a muoversi, potevo vederlo come fosse una cosa, fuoriusciva avvicinandosi in spirali di fumo all’iride dei miei occhi. Lo sentivo dentro di me come una voce. E quella voce mi parlava senza parole attraverso il sangue. Con il dito sfiorai appena la superficie, impregnando il polpastrello del liquame. Una sensazione di freddo, poi la pelle aveva cominciato a tirare. Nel giro di pochi secondi, il dito era tornato pulito. Aveva assorbito il liquido completamente. Era stato a quel punto che, in uno stato di coscienza alterato, avevo avvicinato la bocca. Gli occhi erano impregnati dell’odore, la pelle vibrava fortissimo sui muscoli e sui tendini delle mani, la mente sgombra dai pensieri, consapevole di ogni movimento interiore del corpo, come alla fine di un percorso di meditazione, eppure incapace di resistere a quell’impulso. Il primo sorso era stato fuoco. Avevo sentito i polmoni divampare, nonostante un senso di tranquillità avvolgesse la coscienza. Poi, per qualche minuto, le forme e i colori del mondo avevano cominciato a mescolarsi, le articolazioni tremavano. Dalla bocca uscì un urlo che le mie orecchie percepivano come attutito nonostante la tensione massima delle corde vocali. Poi più niente. Ero caduto a terra, disteso con il volto verso il cielo. Del sangue dalle sfumature di ruggine colava dal naso. Ma stavo bene, mi sentivo bene. Sentivo la realtà circostante in maniera più nitida. Dopo essermi ripreso, sono corso alla macchina risalendo la collinetta con meno difficoltà del solito. Ho acceso il quadro. Quando il motore è partito, ho sentito un sussulto fortissimo del cuore, a tempo con i pistoni e le valvole della macchina che cominciavano a scaldarsi.

A lavoro è successo un fatto strano. L’altro ieri, a metà mattinata, mi sono dovuto precipitare in bagno. Stavo parlando con il direttore di un nuovo piano di comunicazione che avremmo dovuto fare per un cliente. Ho iniziato a sentire la bocca bruciare. Arrivato al lavandino ho sputato un grumo di sangue. Sulla porcellana è apparsa una cosa informe, materia organica, come un pezzo di polmone, ma con dei riflessi brillanti color ruggine. Ho preso lo smartphone e scattato un paio di foto. Ho controllato se avevo ancora il numero del medico di base salvato in rubrica. Tornato in ufficio, non ci ho più pensato durante il resto della giornata. Ho continuato a guardare lo smartphone e lo schermo del computer alternativamente per ore, battendo di tanto in tanto la tastiera del Mac, scrollando i feed dei social, rileggendo vecchie conversazioni con Greta su Telegram e su Whatsapp, grattandomi la testa nel solito punto poco sopra le tempie, là dove un giorno l’epidermide si aprirà sotto le mie unghie e tutta la merda che c’è dentro sbrodolerà fuori per contaminare ogni cosa.

Dalle grandi finestre in plexiglas vedevo il giorno indebolirsi. Gli alberi crollati sul cielo come ombre che annunciavano il principio della notte. Ero nervoso, mancava mezz’ora e poi me ne sarei potuto andare, mettermi in macchina, percorrere i soliti trenta chilometri dall’ufficio a casa con il cervello che corre velocissimo e il traffico che dilata il tempo come fosse un buco nero, e questa doppia velocità avrebbe preso il nome di ansia, nausea, stress e, durante il sonno, si sarebbe trasformata in immagini conficcate nella corteccia, mescolandosi in una melma priva di materia, almeno finché il punto sopra la tempia le farà uscire fuori.

Per ingannare il tempo ho smontato dieci temperini che ho preso dallo stanzino della cancelleria. Ho separato la base dalle lamette; poi ho posizionato le lamette al centro dei palmi. Le mani congiunte come in una preghiera. Le dita hanno cominciato a scivolare le une fra le altre. Sentivo le lame che premevano sulla pelle. Sentivo tutto intensamente come mai mi era capitato prima. Allora ho stretto più forte i palmi, i tendini, ho pensato, si stanno sfilacciando sotto il filo sottile delle lame. Il sangue è uscito, ancora nero e ruggine, ed è colato lungo i polsi, tintinnando sul pavimento nel silenzio al neon dell’ufficio. Il direttore era nella sua stanza, ondeggiando la testa a tempo con le cuffie sulle orecchie. Gli altri avevano già staccato da un’ora.

Non c’era dolore; sentivo solo una fonte di calore al centro delle mani. Ho cominciato a separarle lentamente. Non appena le lame sono riemerse dalla pelle, qualcosa di solido è caduto sul pavimento. Ho guardato prima le mani, caldissime, le ferite già cicatrizzate. Poi, in ginocchio, ho raccolto dal pavimento un oggetto. L’ho dovuto avvicinare alla faccia per capire cosa fosse. Le lamette si erano saldate le une con le altre in una forma a stella. Una specie di shuriken, come quelli dei ninja nei videogames e nei cartoni animati di quando ero ragazzino. Ho messo lo shuriken nella tasca e ho cominciato a fare avanti e indietro dal bagno per prendere lo scottex e pulire il più possibile il sangue.

Cammino sul marciapiede deserto. I miei passi battono la strada nuda. I lampioni sfrigolano e si accendono al mio passaggio. Poi esplodono quando esco dal loro cono di luce. Devo tenere un fazzoletto a portata di mano, perché i colpi di tosse sono ormai violenti, mi sembra di sputare pezzi d’organi. Eppure sto bene, sono forte, il mio interno risuona con lo spazio circostante. Qualcosa sta cambiando.

Prima di imboccare la via hanno provato a derubarmi. La sopraelevata che porta alla Tangenziale Est crea degli angoli bui in cui la puzza di piscio si mescola ai rifiuti e all’acqua piovana che quando cola dalla strada sopra non si asciuga più nemmeno d’estate. Da quell’oscurità sono sbucati due tizi; uno di loro aveva un coltello in mano. I lineamenti dei volti si confondevano nell’ombra. Vedevo solo il brillìo della lama e il bianco delle sclere. Urlavano ma non capivo la lingua. Sentivo la loro agitazione; e insieme a questo, sentivo qualcosa di mai avvertito prima: il ferro della Prenestina e della lama e di tutto ciò che ci circondava stava vibrando, sentivo quella vibrazione nei tendini e nel sistema nervoso. Non avevo nemmeno il portafogli in tasca. Ho provato a calmarli. Agitavo le mani. Quello con il coltello in mano deve aver frainteso qualcosa. È scattato in avanti e ha affondato la lama nel mio stomaco. Il compare si è avvicinato per cercare il portafogli, ma si è fermato all’improvviso. Avevano entrambi gli occhi sbarrati. La lama mi aveva trapassato per circa dieci centimetri. I miei occhi fissi su di loro, il sangue che colava sui vestiti, la paura nei loro sguardi atterriti. Guardavano la lama come avesse qualcosa di mostruoso. Il rapinatore non riusciva a tirare indietro la mano. Il compagno era a terra, immobilizzato dal terrore; riusciva solo a spingersi indietro con le gambe, strusciando tra i rifiuti che coprivano l’asfalto. Il coltello si stava fondendo con la mia pelle; diventava un’escrescenza tumorale, e lentamente risaliva sul ferro in direzione del braccio del rapinatore. In pochi secondi, quella materia molle gli ha avvolto la mano. Il dolore dell’uomo ha risuonato nella notte. Quando finalmente è riuscito a tirare indietro il braccio, al posto della mano è rimasto un moncherino informe, mentre il mio corpo aveva riassorbito l’escrescenza senza lasciare traccia della ferita.

Sullo schermo dello smartphone ancora nulla. La rivista «Mind» giace per terra vicino a un posacenere traboccante di mozziconi. Guardo la schermata di Telegram, il nome Greta con l’archivio delle vecchie chat, il simbolo della batteria che lampeggia, i miei occhi che lampeggiano, il cuore che pompa liquame. Guardo ancora lo schermo. Nebulose di byte si librano nell’aria, spirali che entrano nella pupilla e aprono un portale. Vedo, penso, sono codice binario, 0101, scariche neurali come un temporale dentro il cervello, i pixel che compongono il nome Greta nella rubrica di Telegram diventano macchie di colore che riempiono la stanza, mentre le pareti si smaterializzano e io sono dentro uno spazio senza coordinate, uno spazio che è l’interno del cellulare di Greta, dove i d e s ideri si convertono in by t e, dove si compongono messaggi con l i n c o n s c i o   e il cuore pompa liquame più forte che mai, vorrei parlarti, domani vediamoci, il mio smartphone lampeggia a ogni desiderio ricevuto come un astro nel silenzio cosmico, mi dispiace ho fatto un casino vorrei solo che tornassimo insieme, lo schermo è l’unico oggetto nello spazio, e continua a esplodere a ogni messaggio ricevuto, a ogni comparsa del tuo nome, e in questo vortice posso vedere le tue foto, tutte le tue conversazioni, il tuo corpo nudo, il cazzo di uomini che non conosco, ma devo rispettare la tua priv… , ti a m-  torniamo…,

voglio solo

hackerare
il tuo sentire.

Nell’aria c’è un tremito giallo di fluido fosforescente. Qualcosa brucia. Non sono più dentro la stanza. Folate di aria calda sfiorano il viso. L’abitacolo della macchina è accartocciato. Oltre il vetro frantumato, un palo della luce divelto si accascia sul marciapiede come in una versione marcia di un quadro di Dalì. Forse ho guidato sotto una sorta di trance, di sonnambulismo. Posso leggere l’ultimo messaggio di Greta senza prendere il cellulare. Le parole scendono a cascata come stringhe di codice davanti ai miei occhi. Mi dispiace per quei messaggi, non so cosa diavolo sia successo. Qualche amico deve avermi preso il cellulare e fatto questo scherzo del cazzo. Non so proprio cosa dire, scusami davvero, sono mortificata. Spero tu stia bene.

Il cofano motore è in fiamme. Non riesco a uscire dalla macchina. Sull’avambraccio destro si intravede un osso che è fuoriuscito dalla carne. Molti frammenti di vetro sono conficcati in punti diversi del corpo. Li vedo e li sento tremolare, in attesa di diventare innesti di epidermide. Poi le fiamme scompaiono all’improvviso. La macchina comincia a vibrare, e la vibrazione risale lungo il sistema nervoso.

La Prenestina è un deserto senza fine. Un deserto di calore umano, perché nessuno può comprendere cosa sono diventato. Al mio passaggio le persone si dileguano. In lontananza le sirene della polizia riecheggiano in questa notte senza vento né stelle. Mentre la prima persona di queste parole è solo un inganno, un riferimento a una persona che non è né prima né terza, né singolare né plurale, una persona che è tutte le declinazioni, fusa con il circostante, non-persona in via di ricombinazione con ogni trancio di materia vibrante. Questo corpo-macchinico impazzito avanza; dove prima l’osso era furiuscito, un tubo di plastica e metallo sbuffa fumo e aspira la diossina dell’aria per farne combustibile. Il corpo-macchinico avanza, scivola sull’asfalto con i suoi arti in cui la pelle si confonde alla gomma dei pneumatici, e il tubo di scappamento nel retto emette uno stridore acuto, come l’annuncio di un’apocalisse bituminosa, un free-jazz per negativi urbani.

La scabbia del cuore ha infettato i tessuti. Il liquame nero ha affogato pensieri e ricordi. Pensavo di essere in movimento verso te, ma a questo te non corrisponde più nulla, né un nome né un volto, è solo un’eco che risuona piano tra i clangori che rimbombano dallo spazio interiore. L’avanzata di ciò che sono divenuto contamina il territorio urbano. Nessuna stella questa notte. Questo stesso corpo è una stella fredda, un astro di metallo forgiato nella lontananza.
Dopo di me più nulla.

Isolato da tutti, compenetrato da tutto.

Sono la mia città.

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↔ In alto: foto Julian Böck / Unsplash.