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Se si dovesse indicare da quale libro iniziare per cercare di capire cosa significhi, per chi non sa nulla di lui, leggere Danilo Kiš, di sicuro William Vollmann consiglierebbe Una tomba per Boris Davidovic, senza la cui spinta non avrebbe mai iniziato a lavorare a Europe Central, causando così un danno irreparabile, o quasi irreparabile, a noi lettori di questo tempo. Il parere di Vollmann è senz’altro più autorevole del mio, oltre a essere un eccellente parere. Si può iniziare a leggere Kiš dal Davidovič o da Dolori precoci (forse no) o da Giardino, cenere. Meno opportuno sarebbe cominciare con Clessidra, il suo romanzo più importante e complesso: da affrontare quando si è sicuri di essere arrivati al centro dell’esplorazione; assolutamente e per nessuna ragione al mondo approcciarsi a Homo poeticus, sontuosa raccolta di saggi e interviste, senza aver letto prima tutto il resto. E se mi permetto di dissentire dall’indicazione – già apocrifa di per sé – di Vollmann è solo perché a me è capitato di avere a che fare con Kiš per la prima volta leggendo la sua raccolta di racconti Enciclopedia dei morti, casualità o scelta di cui non mi pento, e che anzi, fu cruciale e segnò l’inizio del grande amore che tutt’ora provo per questo scrittore.

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Enciclopedia dei morti viene pubblicato dal suo autore nel 1983, presso l’editore Globus di Zagabria. In Italia arriva nel 1988, grazie ad Adelphi, nella traduzione di Lionello Costantini. La raccolta si apre con un’epigrafe di Bataille, da La somme atheologique: «Ma rage d’aimer donne sur la mort / comme une fenêtre sur la court», e già qui ci si potrebbe fermare, perché Bataille e tutti coloro che guardano dalla stessa finestra di Bataille, sanno con una certa precisione di cosa si parla quando si allude alla condizione degli uomini e delle donne europei che si affacciano alle finestre delle loro case e vedono passare per strada, vecchia e giovane allo stesso tempo e impegnata a canticchiare una canzone popolare, la morte.

È alla morte che Kiš dedica ciascuno dei racconti dell’Enciclopedia. L’uomo e lo scrittore hanno viaggiato per decenni con il ritratto della fine nel portafogli, così possono permettersi di raccontarla e, quando è necessario (ovvero sempre) di riderne. Le frequentazioni di biblioteche, di stazioni ferroviarie, di polveriere, di massacri di prim’ordine, di persecuzioni, di tutte le tradizioni religiose monoteiste e di numerosi momenti di sconforto si riversano, distillate in casi esemplari, in questa raccolta di nove storie sulla parola morte, sullo scherzo della morte e sulla menzogna della morte. La leggenda coranica dei Sette dormienti, il cui testimone più meticoloso all’interno del mondo cristiano è stato Jacopo da Varazze, affronta la pratica complessità del ritorno dall’oltretomba. Più facile a dirsi che a farsi. Più facile andarsene che ritornare, perché quando si ritorna lo si fa per andarsene ancora. Altrettanto fatale è la storia di Simon Mago, che apre il libro. Simone, che mago era davvero, sfidò il cielo e la terra, sfidò Dio, e ci riuscì, fino al momento in cui Dio si voltò per guardarlo e per consegnarlo a morte misera (sfracellato al suolo dopo un volo di centinaia di metri, secondo la prima versione raccontata da Kiš; putrefatto dagli abissi, stando alla seconda).

Se spesso l’uomo si cerca la fine affacciandosi alla finestra che dà sul mistero, altrettanto frequente è che sia l’amore, come nel passo di Bataille, a metterlo al cospetto dell’ultimo giorno e dei giorni silenziosi che seguono l’ultimo. Amore profondo e disgraziato è quello del portuale Bandura che solleva i morti di fame di Amburgo perché vadano in giro per la città a strappare fiori dalle aiuole di tutti i parchi e li portino sul corpo bruciato dalla polmonite della prostituta Marietta in Onoranze funebri. Nessuna donna, assicura lo scaricatore, «nessuna signorina di buona famiglia è stata pianta più sinceramente. E nessuna sepolta con più onori». Amore segreto è quello che spinge l’anonima signora di I francobolli rossi con l’effigie di Lenin a mettersi in contatto con il più illustre esegeta dello scrittore Mendel Osipovič per rivelargli che nelle sue monografie sul defunto poeta tutto, tutto è sbagliato, perché da un certo momento in avanti ogni singolo verso o paragrafo di Osipovič è stato scritto per parlare di lei e allo stesso tempo per nasconderla. Mai Osipovič pronuncia il nome del suo vero amore, e i suoi biografi lo ricorderanno sposato, padre amorevole, mentre in una stanza gelida la ragione del suo genio rimane a invecchiare e a custodire il segreto di una letteratura fraintesa.

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L’intera Enciclopedia, dunque, può essere letta come una variazione sul tema o un’operazione di filologia della morte. Abbonda di scrittori dimenticati, di maestri pugnalati dai loro discepoli, di libri seppelliti in cantine buie o in tetre librerie di provincia, libri che un giorno «un raggio di sole trarrà dall’oblio», di profezie pronunciate da bambine in piccoli villaggi dei Balcani. In questo libro è luminosa la certezza che per Danilo Kiš la vita fosse uno strategico combattimento fra letteratura e memoria. Non letteratura per la memoria, ma contro, disperatamente contro, o almeno contro quello che la memoria ci presenta come totale e oggettivo, mentre in realtà è solo la decorazione dello scrigno. Il risultato, in questi racconti come in tutto il lavoro dello scrittore serbo, è «il residuo amaro dell’esperienza». Non c’è altro che questo, non c’è che la lotta tra ciò che è tramandato e ciò che resta ignoto, nel racconto che dà il titolo al libro, in cui una studiosa, in sogno, si imbatte nella sterminata Enciclopedia dei morti, un’opera eterna in cui le vite di coloro che non sono passati alla storia vengono raccontate con assoluta dovizia di dettagli. Non un oggetto o un istante vengono tralasciati, eppure qualcosa di impercettibile sfugge alla perizia sovrumana dei compilatori. Ogni vita umana è una lotta alla memoria di ciò che l’ha preceduta, per quanto possa sembrare vero il contrario. La morte arriva, lungo la strada familiare che tutti percorrono ogni sera per tornare a casa, e per lei quella strada è una strada sconosciuta. Sono gli esseri umani ad avere memoria, a coltivare memoria. In quanto alla morte, è una lingua intraducibile che spariglia le carte.

«I vincitori scrivono la storia. Il popolo tesse la tradizione. Gli scrittori fantasticano», si legge alla fine del settimo racconto. Per quanto Danilo Kiš non abbia mai inventato nulla («la materia dell’immaginazione deve avere la forza del documento»), a lui è toccato in sorte di fare qualcosa che non si era mai visto prima. Ogni suo scritto è come la firma di un anatomopatologo su una dichiarazione di morte, una firma beffarda che certifica il falso. La morte sta sotto la nostra finestra. Noi stiamo alla finestra. La nostra finestra è stata aperta perché affacciasse sulla morte, ma in certi giorni, quando ci capita di leggere certi libri, la nostra finestra affaccia su qualcos’altro che non è morte e non è niente, e allora ridiamo mentre la furia del pogrom urla il nostro nome perché non può trovarci.

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