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Una vera storia di guerra, fa sì che la tua pancia ci creda. Chi, meglio di Tim O’Brien, scrittore e veterano del Vietnam, può insegnarcelo? Pochi scrittori sono riusciti a raccontarci una guerra come O’Brien, autore, oltre a capolavori come Inseguendo cacciato (Edizioni Leonardo, traduzione di Sandro Ossola) e Luglio per sempre (Feltrinelli, traduzione di Grazia Gatti), della raccolta di racconti Quanto pesano i fantasmi (Edizioni Leonardo, traduzione di Bernardo Draghi).

Ventidue racconti di cui sono protagonisti, il Vietnam, i figli della seconda guerra mondiale, l’America come miraggio di un mondo senza responsabilità, e la guerra stessa, un conflitto dalla consistenza spirituale che si fa terra, spettro, e vita. O’Brien utilizza il suo sorprendente potere di evocazione trascinando il lettore con sé nell’oblio: la giungla magica e tribale, dove ogni suono è musica e orrore, dove la notte è assoluta, del nero più nero che si riesca a immaginare, una notte popolata da mostri, capace di logorarti, di farti perdere il senso di ciò che è definito.

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I racconti sfilano, uno dopo l’altro, sotto l’ossessivo ritmo delle marce, seguiamo i gambalesta (soldati semplici) scammellare attraverso la foresta, su e giù per i pendii, nelle risaie, dentro un campo di merda, ci carichiamo del peso delle loro uniformi, delle loro armi e munizioni, ci carichiamo dei loro talismani porta fortuna, un paio di collant, un sassolino proveniente dalle spiagge del New Jersey, la costa di un altro mondo, un vecchio testamento, ogni cosa. Ci facciamo carico, persino, del loro silenzio sgomento. Ogni grammo di munizione, razione, portafortuna, è un grammo da aggiungere ai fantasmi, la soluzione esiste, è palese, raggiungibile: alleggerirsi a costo di esporsi, stremati, al Vietnam. Puoi finire ridotto in pop-corn da una mina dello zio Ho, o ad agonizzare su una scelta non presa in passato, puoi iniziare a fantasticare di averla presa, quella scelta che un tempo era una reale possibilità: il Canada. Voleva dire salvezza, voleva dire disonore, e vergogna. E tu, soldato, avevi deciso che era preferibile morire ammazzato in un paese sconosciuto, un paese con la bandiera del colore sbagliato, piuttosto che morire di vergogna. La commissione di leva mica ti permetteva di sceglierti una guerra su misura. Così continui a scammellare, mentre tutto resta avvolto nella nebbia dell’incertezza. Se non scammelli, ti dice chiaro O’Brien, allora aspetti, vivi ore di noia pronta a deflagrare.

Nei racconti, cose apparentemente innocue sono in realtà premonizioni malvagie, uno spiraglio di sole, delle vecchiette che gesticolano, dei monaci che fanno il gesto di lavarsi le mani, tutto è carico di tensione esplosiva. E dopo la tempesta di fuoco, una nuova straniante calma sopraggiunge, e così i soldati possono tornare a essere quello che sono, «Cristo santo, se stavolta non mi sono trovato un buco del culo nuovo di zecca, c’è proprio mancato un pelo». Un modo per dirsi, nella complicata lingua post-adolescenziale, ho avuto paura di partire, di decollare, di zip e zap, un gergo attoriale, un rito per scacciare la realtà stessa di quella cosa chiamata morte. Sono solo un ragazzo, sembrano ripetersi all’infinito i protagonisti di questi racconti, e come dargli torto, la guerra di O’Brien è una guerra che assume a ogni pagina le sembianze di una competizione sportiva, una partita di football giocata da ragazzi da riformatorio, dai figli non fortunati. Non possiamo non percepire il senso di fratellanza, di cameratismo che scorre tra loro, non possiamo schierarci da nessuna parte, non riceviamo alcuna morale, nessuna verità ultima e definitiva, O’Brien non ha opinioni, si limita a raccontare storie di guerra: storie d’amore. Il terrore, la violenza, la dolcezza, l’imbarazzo, la bellezza, il male, l’oscenità, la purezza, senza tutto ciò non ci sarebbe storia, sono le sfaccettature della guerra. Infinite, e proprio per questo, bisogna continuare a raccontarle.

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