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È molto facile spiegare perché le storie de I racconti in un palmo di mano di Kawabata siano piccoli momenti di perfezione; perché la tradizione e la concezione estetica giapponese, soprattutto quella che nasce dal dopoguerra, corrispondono a ciò che in effetti fa il racconto tout court: la parola è intesa come il riflesso immediato di un’immagine che combacia all’oggetto evocato, e il racconto diventa l’apparizione stessa che aderisce, senza mediazioni, al narrato.

Scritti in un tempo dilatatissimo che va dal 1935 al ‘48, i racconti di Kawabata – chiamati tenohira proprio per la loro brevità – furono pubblicati in maniera seriale, o più sporadica, su diversi periodici e riviste come la Bungei shunshi, riuniti poi in raccolte che furono pubblicate tra il ’37 e il ’48. I Tenohira no shōsetsu di questo libro, nello specifico, sono il risultato di un lungo processo creativo che parte sin dagli esordi di Kawabata come scrittore. Sarebbe a dire che in tutta la sua produzione letteraria, Kawabata è sempre ricorso, come un’urgenza fisiologica, al racconto brevissimo, quasi sentisse la necessità, di volta in volta, di ritornare a una sorgente pulita e primordiale che sta alle radici della scrittura: l’essenza, la purezza estetica e di senso di qualsiasi narrazione.

«Racconti in un palmo di mano» di Kawabata Yasunari (edito da Marsilio per la traduzione e curatela di Ornella Civardi)

«Racconti in un palmo di mano» di Kawabata Yasunari (edito da Marsilio per la traduzione e curatela di Ornella Civardi)

Basta rileggere alcuni passi del discorso che pronunciò quando ricevette il Nobel nel 1968, per comprendere come egli concepisca l’atto della scrittura come qualcosa di potentemente vicino a un qualsiasi altro atto fisiologico – respirare, mangiare, dormire – fino ad arrivare ad affermare che la parola può nascere soltanto da un pensare percettivo. Il discorso si intitola Il Giappone, la bellezza e io (Utsukushii Nihon no watashi), e sin dalle prima pagine si scorge il ruolo che l’autore affida alla scrittura e al modo in cui essa debba porsi nei confronti della letteratura (e del lettore): in un modo semplice, che sappia raccontare con quasi niente il tutto che ci circonda. Queste sono le parole chiave per comprendere i Racconti in un palmo di mano: semplice-niente-tutto.

La semplicità è un concetto del tutto apparente in questi scritti di una, massimo due pagine, in cui ogni frase e ogni parola sembra abbiano il solo compito di nascondere più che di mostrare. La semplicità è l’agilità con cui il narrato si muove, si compie e si svela; ma per raggiungerla Kawabata ricorre a tutta la sua abilità tecnica, a tutto il patrimonio culturale, stilistico e ideologico da cui proviene. Lo scrittore si forma in un periodo di grande vivacità artistica, un momento cruciale per la cultura del Giappone – così essenziale e formale – che per la prima volta si affaccia su un Occidente dalle aspettative oscure, tumultuose, misteriose e affascinanti. Il modello del racconto breve si era diffuso in Giappone già dai primi anni del Novecento diventando quasi una moda, importato dalle novelle, soprattutto francesi, di Maupassant o L’Isle-Adam, la cui sensibilità presimbolista fu molto cara a Kawabata. Importantissima, in questo senso, fu l’esperienza che lo scrittore visse attraverso lo shinkankakuha (scuola della nuova sensibilità), una corrente letteraria che aspira all’annullamento della percezione mediata dalla mente e dal ragionamento, per restituire alla parola quanta più autenticità possibile dell’esperienza del mondo, come se la parola scritta debba, ogni volta, restituire verginità a tutte le cose narrate. Ancora una volta, ci viene in aiuto il suo discorso sull’estetica e la bellezza, alla base della cultura nipponica di quei tempi, in cui Kawabata fa riferimento al sumie, lo stile di pittura monocromatica a inchiostro e acqua. A proposito di ciò, Kawabata dice: «Lo spirito del sumie è tutto negli spazi, nei vuoti, nelle omissioni. “Un ramo è ben dipinto se vi si ode la voce del vento” scrive Jin Nong».

Ecco, tra il ramo dipinto e il vento c’è un niente che racconta molto di più di quanto possa fare il disegno stesso del ramo, in quanto è soltanto lì, in quel vento non visto, che si può realizzare l’autenticità della storia. In questa omissione, in questo nulla estratto dal segno (che possa essere la parola o il tratto a inchiostro, fa lo stesso) si condensa l’essenza del racconto, perché come un soffio di vento smuove il superfluo e rivela cosa si nasconde dietro allo scritto, cosa c’è dietro alla narrazione, alla storia, ai personaggi: un tutto, un intero mondo svelato da una finestra improvvisamente spalancata.

Nella nostra concezione occidentale del racconto, e rispetto al nostro modo di leggerli e di scriverli, i tenohira ci possono fornire una mappatura precisa ed essenziale sul modo in cui il racconto, come forma letteraria, si costruisca – un patrimonio servito, poi, agli scrittori di racconti più conosciuti. Ciascuno di questi centoventidue brevissimi racconti, è l’esempio ideologico, percettivo, formale e concettuale attraverso cui quell’esattezza e quella sottigliezza tanto richiesta alla forma breve viene visibilmente creata sotto gli occhi del lettore. Una sostanzialità – sia di scrittura che di contenuto – che non è mai né minimale né scarna, ma soltanto attenta a raccogliere l’essenziale, a selezionare cosa serve e cosa no. Ed è per questo che questi testi possono trattenersi in un palmo di mano.
È quello che succede, per esempio, nel bellissimo tenohira La madre, in cui l’esile storia si svolge in un primo piano ravvicinato e corposo, per lasciare sullo sfondo il riflesso, altrettanto visibile e fisico, di tutto ciò che questa essenzialità lascia fuori:

«Dietro le porte a vetri la moglie passava dell’alcol sul corpo del marito. Il marito era così magro che tra una costola e l’altra gli si fermava lo sporco del sudore del sudore notturno».

Diciamo che la narrazione di Kawabata, in questi racconti, nasce proprio dal concetto del nulla zen, che non ha niente a che fare né con il nichilismo, né con una matrice di stampo New Age all’occidentale, né con un totale annullamento spirituale e fisico; al contrario, corrisponde a uno svuotamento necessario a un successivo riempimento – di senso, di parole, di immagini, di fisicità. E cos’altro è, un racconto, se non lo spazio ristretto di un mondo che spetta al lettore riempire e completare?

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