Quando viaggiamo ci sono luoghi che più di altri ci restano impressi. A volte sono luoghi ordinari, come una piazza, una fontana, un giardino fiorito, un porto; allora ci chiediamo cos’è che ci ha affascinato, se l’affinità con una parte di noi o il ricordo di un’esperienza già vissuta. Altre volte sono luoghi che abbiamo cercato, atteso, desiderato, perché sapevamo che quando saremmo stati lì non solo ci avrebbero fatto sentire vivi, ma ci avrebbero riempito per sempre l’esistenza. Uno di questi luoghi, per me, si trova in Olanda, a L’Aia, ed è quello che considero il museo perfetto: il Mauritshuis. La prima volta che ci sono entrato fisicamente – perché nei sogni c’ero già stato almeno un paio di volte – era una mattina di fine luglio del 2014. Il sole non aveva ancora riscaldato l’aria e intorno a me regnava il silenzio assoluto. Camminavo sulle sponde dell’Hofvijver, lo stagno su cui si specchia il Parlamento olandese, e pensavo a una frase dello scrittore Cees Noteboom, nato proprio a L’Aia: «La città è un libro, chi va in giro a passeggio il suo lettore».
Al termine della maestosa scala che porta al primo piano dell’edificio, una residenza in stile classico del Seicento, ho avuto la netta sensazione di essere catapultato nel secolo d’oro olandese. Vagavo per le sale tappezzate di rosso in preda a un misto di euforia e stupore, avvertendo la forza palpabile di quel luogo, come se il mio corpo venisse toccato dal passato. La collezione del Mauritshuis è divisa su due piani, ogni piano ha otto sale, ogni sala ha cinque o sei dipinti, ognuno dei quali è un capolavoro. I più noti sono Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt, La veduta di Delft e Ragazza col turbante di Veermer, Il Giardino dell’Eden di Brueghel e Rubens, Ritratto di Robert Cheseman di Hans Holbein il Giovane, Il giovane toro di Paulus Potter e Il cardellino di Carel Fabritius.
Non so dire per quanto tempo rimasi dentro il museo a osservare per la prima volta dipinti di pittori che non conoscevo o dei quali mi sembrava di conoscere quasi tutto, come Rembrandt. Pochi giorni prima avevo visitato ad Amsterdam il suo atelier, avevo studiato il metodo con cui mescolava i colori, avevo scrutato da vicino una cinquantina di acqueforti e avevo letto i libri a lui dedicati di Todorov e Riegl; ma ritrovarsi a pochi centimetri dalla Lezione di anatomia del dottor Tulp, che misura oltre due metri per uno e mezzo, è un’esperienza totalizzante. Si ha davvero la sensazione, come ha scritto Sebald, di trovarci alla stessa distanza di coloro che avevano seguito le varie fasi della dissezione del ladruncolo Aris Kindt al Waaggebouw. Lo stesso vale per La veduta di Delft di Veermer. Da vicino il quadro sembra una fotografia, tanto è perfetta ogni pennellata. E poi c’è la luce, quella luce ora più calda, ora più fredda, che crea effetti quasi magici sullo spettatore.
Un tempo i musei venivano visitati non solo da turisti o storici dell’arte, ma anche dalle famiglie. La domenica si andava a trovare le opere così come si andava a casa dei nonni, per stare in loro compagnia e uscire con l’impressione di saperne di più. Lo racconta bene Francesco Cataluccio nelle prime pagine de La memoria degli Uffizi («Il babbo ci conduceva di mattina al rito laico dell’osservazione dei quadri. La mamma, che da ragazzina era stata a sua volta iniziata da suo padre a questo rito domenicale, durante la colazione ci anticipava cosa avremmo visto: le vite dei pittori, i soggetti dei quadri, le sue preferenze»). Conosco poche persone disposte oggi a entrare in un museo per osservare i dipinti con i propri occhi.
L’esperienza della conoscenza diretta sta rischiando di scomparire. Manca la voglia prendersi il tempo per guardare e scoprire un quadro. Oggi si vuole tutto e subito. Ma chi avrà la costanza di visitare un museo come il Mauritshuis compirà un viaggio nel tempo e godrà di un arricchimento di cui l’animo umano ha estremamente bisogno.
Mai ai musei senza un taccuino per le mie impressioni, i taccuini aumentano come aumentano i miei anni