Basta uno sguardo allo scaffale degli autori isolani per riconoscere la terra dove ciclicamente «amo, soffro e faccio il buffone». Dunque è inevitabile non parlare della produzione letteraria, ora dei racconti, dell’autore che prima di altri, vuoi per confluenza astrale o per vicinanza, mi ha dimostrato che le arie della letteratura soffiano anche nei nostri quartieri. Prendo in mano un libro, lo sfoglio, tre citazioni in esergo: Lawrence, Vittorini, Cambosu. L’ordine non è casuale, uno scrittore europeo, uno scrittore italiano e uno scrittore sardo. Vado avanti e leggo:
«Brutta storia di tedeschi cattivi.
Una produzione Radio Cagliari Centrale. La vostra radio».
Così iniziavano i sogni, dodici anni fa, quando li leggevo per la prima volta. Mi ero appena trasferito a Cagliari. Mi ero abbottonato la giacca sulla camicia per entrare nella nebbia della città murata, e parallelamente mi ero immerso nei racconti di Sergio Atzeni. Era la città bastionata; dei fantasma all’alba, dei fenicotteri al tramonto; la città bianca. Per quel che ne sapevo poteva essere una città ormai stanca, dove i restauri dei palazzi sul mare mostravano i segni delle bombe americane, come a dirmi che era stata soprattutto una città martoriata.
Nel libro il primo incubo in forma di racconto è quello di Puppipepper, sergente tedesco. La sua bmw taglia l’aria come una freccia fra lo stagno e il mare. Ma la Tuborg annebbia gli occhi di Puppi e la bmw cozza contro qualcosa, forse un cane, o un ciclista? «O fosse stato, sergente, addirittura, un pedone? Eh? Sergente!» Sarebbe stato un altro cagliaritano investito da un militare tedesco. Puppi carica una prostituta bionda, vanno dentro una casupola. «C’è un letto. Un abat-jour. Un comodino. La lucerna e la scorta di preservativi. Il giorno sarebbero visibili anche altre sozzure, sul pavimento, nel piccolo cesso semiaperto, sulle lenzuola. Ma di notte, al buio, qualunque posto merdoso può diventare un paradiso.» Puppi vuole scopare ma il suo membro non risponde, Puppi si arrabbia e picchia la prostituta bionda, le tira un pugno nel ventre, lei urla, nessuno la sente. Ma state tranquilli, dice Radio Cagliari Centrale, è comunque una storia d’amore. L’incubo del sergente tedesco non è finito. Dal ventre bianco della donna fuoriesce un fantasma, è la madre di Alfred Puppipepper, morta d’aborto molti anni prima. Ora ben vestita e indiavolata, regge un bastone e picchia sulla schiena di Puppi. Lui frigna e chiede perdono. Si inginocchia e si pente. Quindi, fai per magia o vattelapesca, nel corpo di Puppi si smuove qualcosa, riesce finalmente a scopare. L’epilogo è il miracolo più dolce e squassante che ci sia.
È il primo componimento dei 27 contenuti nel volume I sogni della città bianca, pubblicato nel 2005 da Il Maestrale, a distanza di dieci anni dal sogno più doloroso, quello in cui Sergio Atzeni moriva tragicamente nelle acque infide dell’Isola di San Pietro. Poco distante la chiesetta un tempo dedicata ai Novelli Innocenti della Crociata dei fanciulli, i bambini che annegarono, secondo tradizione, nella furia di quel mare in tempesta.
Come dicevo, ero appena diciottenne, al momento della pubblicazione di questo volumetto. Divoravo racconti e poesie, scrivevo versi inutili e cose a metà. Per diverse ragioni presi la decisione di portarmi appresso quel libro. In primo luogo perché mi aveva fatto intendere che la letteratura non è soltanto la farfalla che muove le ali nel porto di New York e provoca uno tsunami agli antipodi; ma è la stessa creatura che si vede sfarfallare su questi moli, salire per i viali delle jacarande, alzarsi più in alto dei bastioni pietrosi, dove pendono chiome di capperi al vento; per poi incrociarsi con le altre letterature: quella italiana, quella europea, quella sudamericana. Naturalmente nei racconti è percepibile l’urgenza di parlare del piccolo mondo, e forse dalle parole dell’autore si evince l’impulso primo: «Avevo notato che nei giornali, in televisione, quando si prendevano descrizioni di Cagliari, o di alcune zone di provincia, si finiva sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura. C’è molto di più sulla Barbagia, mentre sul Sud c’è pochissimo. Ad un certo punto mi è sembrato che non ci fossero descrizioni di Cagliari fatte da scrittori locali. Mi ha fatto pensare a scrivere un racconto dove ci fosse qualche riga che descrivesse la città non dal punto di vista esterno, di chi viene in visita, ma dal punto di vista interno, di chi ci abita».
La seconda ragione per amare i racconti di Atzeni è la lingua, prima abitante della letteratura, da modellare e pungolare affinché possa essa stessa segnare i percorsi narrativi. Così sembra essere in questo passo (per comodità propongo nuovamente l’esempio del primo racconto, Meglio fuggire. Sempre):
«È nero, il mare, dall’alto delle colline. La città distesa, addormentata, dalle colline, si specchia.
E guarda.
Poche luci sul mare. Luci di torcia. Lampade. Lampàras, sul mare. Luzern. Luci.
Piccoli coni luminosi sull’acqua scura. Vecchie barche, sul mare. Lampàre. Escono quando viene notte. Pescatori di sardine, lissa e mummungioni: lampàras. Fraccaroris».
Qui le parole diventano frammenti, come parti di materia selezionate attentamente, divise per mostrarsi più evidenti e tangibili. Così «Luzern» rimanda al campo visivo di un tedesco, magari un sergente tedesco, che scruta con noi la notte puntellata di lampare. Magari egli stesso è la luce che esce quando viene il buio: esce dal bar, cerca le chiavi, mette in moto la macchina. È una bmw, una bestia tedesca pronta a sfrecciare. Eccetera.
Più difficile è riuscire a dissuadersi dal fatto che con le parole non si possa fare tutto, ma per Atzeni diventa una necessità. Porto come esempio l’esperimento intitolato Racconti con colonna sonora (ancora Il Maestrale, 2002) dove la penna diventa uno strumento musicale. La scrittura si fa altro, trasformandosi in tamburo. Così nel primo dei componimenti: «La scarpa di quell’uomo è alta, fino al collo del piede. La suola, schiaccia una formica. Poi, un’altra formica. Le formiche escono da una crepa fra due pietroni squadrati – e si sistemano sotto il piede. Le schiaccia, una dopo l’altra, con regolarità da metronomo. L’uomo, in piedi, dietro la grata del porto, guarda il mare. E conta: il tempo, alle formiche: uno, due, tre, quattro, fino a venti: altra formica, schiacciata. Uno. Venti. Schiacciata. È alto, incappottato in un coso nero che finisce sulle scarpe da pioggia, alte fino al collo del piede. Massacra le formiche, e guarda il mare».
I colpi di suola pestano formiche e nel contempo sembrano dare ritmo alla prosa, come farebbe un tamburo nella base ritmica di una composizione musicale. Ma in effetti di quello si tratta, sono le percussioni di I Zimbra dei Talking Heads, giacché Atzeni sembra suggerirne l’ascolto parallelamente alla lettura del racconto. O, se non altro, proprio quelle percussioni gli hanno regalato «un’immagine notturna. Abitata da un monomaniaco…».
Tornando ai Sogni: in alcuni racconti è possibile trovare gli spunti e le intuizioni per i suoi lavori successivi. I sogni della città bianca comprendeva un numero di 32 componimenti ritrovati in forma dattiloscritta in una cartella color granata che Sergio Atzeni, quando nel 1986 decise di trasferirsi nel continente, lasciò nella propria casa cagliaritana. Dunque scritti in un periodo antecedente alla pubblicazione del primo romanzo. Se la forma breve è la stanza in affitto, ricca di dettagli da vivere, il romanzo è più simile a una casa di proprietà. E in quelle stanze, abitate per brevi periodi, egli ha disegnato le mappe degli appartamenti in cui sarebbe andato a vivere. Un lavoro scrupoloso, portato avanti con l’entusiasmo di chi riesce a sentire, dietro ogni angolo di muro, la presenza di un labirinto. Nel racconto intitolato Una leggenda meridionale si scorge l’architettura dell’Apologo del giudice bandito, ovvero l’invasione e il processo alle cavallette; in Un duello la partita a scacchi col direttore del carcere anticipa quella di Itzoccor Gunale (protagonista dell’Apologo) col viceré, e il combattimento con l’assassino nel fondo del pozzo, quello dello stesso giudice con Alì. La città bianca è quella stessa Cagliari abbandonata da Ruggero Gunale nel romanzo Il quinto passo è l’addio, e qui è d’obbligo riportare il passo per intero, quello in cui l’autore sembra guardarsi allo specchio e dire:
«Ruggero parla a se stesso: Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini…».
Ulteriori descrizioni della città riportano a questa raccolta, che è stata anzitutto una palestra di scrittura, e successivamente preziosa riserva da cui attingere. E questo dev’essere stato anche per me, quando mi struggevo per la grandezza del mondo e per la mia incapacità di comunicare con esso. Senza accorgermi che il mondo era anche questo, e molto più grande di quanto pensassi. C’era tutto ciò che serviva: una città bombardata, il porto dove scambiare merci e lingue, la furia di una tempesta, il tramonto delle pleiadi sulla schiuma del mare.
Ecco la potenza dello scrittore di cui ho detto: quella di costruire nuovi universi dopo aver letto e interpretato i nostri piccoli mondi. La prima fase è l’impegno di ricerca, la seconda è il gioco della fantasia. In questo modo il processo alle cavallette del 1492, informazione presa da una nota di un libro di storia, è poi diventato un romanzo. Ma anche in questo caso il proposito iniziale prevedeva la narrazione breve. Però i progetti cambiano, come del resto cambia la vita.
Infine, ma non di minore importanza, c’è la sensibilità politica dell’autore. Non abbandonare i personaggi dei suoi racconti, che sono spesso indifesi ed emarginati, diventa un dovere. Ché dei vincitori ne parlano già in troppi.
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