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I miei appunti per uno studio sull’animale, la metamorfosi e il divino si aprono con Dio, la cui immagine, quale si manifesta con concreta evidenza, pare essere quella di un cinghiale. Sicuramente è quella di un cinghiale, ma questo non impedisce che la mente di chiunque possa operare su questa immagine qualsivoglia tipo di esegesi e quindi di metamorfosi. Osservare un fenomeno significa mutarlo, come dimostra anche la vasta gamma di rappresentazioni che il genio poetico e religioso ha prodotto quando ha volto lo sguardo al divino: animali, maestà vegetali, corpi viventi trasfigurati nella perfezione o nella smisuratezza (so di dèi alti mille parasanghe e larghi mille anni) fino ad arrivare addirittura all’irrappresentabile, all’invisibile. Abbiamo perfino questo, che Dio può essere rappresentato come irrappresentabile, e che può essere visto come invisibile, nella qual cosa non vedo nulla di male in sé, (l’irrappresentabile è una rappresentazione come un’altra, l’invisibile è una figura non meno lecita e nobile delle altre), se questo non avesse condotto, con il tempo, alcuni a praticare una pericolosa confusione, a perdersi in un grave errore: credere ossia che ciò che è invisibile è massimamente opposto e contrario a ciò che si vede, e che, soprattutto, sia opposto e contrario alla materia quale espressione per eccellenza del visibile: questo errore ha sottratto all’invisibile la sua materialità e concretezza, e, quindi, ha ridotto a nulla il suo sostrato vivificante e significante, ha annichilito la materia. Ad ogni modo, l’uomo di buona volontà non deve mai stancarsi di operare esegesi vivificanti, che diano significato e sostanza a ciò su cui si posano gli occhi, che siano capaci di dare forma concreta e materiale, di fornire un’immagine esatta, a tutto quanto, anche a ciò che non si vede, mutando la realtà continuamente, affinché questa continui eternamente.

Questa esegesi è quanto dalle nostre parti è tecnicamente chiamato “resurrezione dei corpi” (i maestri ebraici parlano di tiqqun ‘olam; quelli islamici di Qiyāmat), e si impara, o si dovrebbe imparare a praticarla fin da bambini, appena con la prima comunione, quando si viene addestrati a mangiare il corpo spirituale di Cristo in un pezzo di pane qualsiasi (e neanche dei migliori). Questa azione esegetica richiede un elevato grado di attività immaginativa e differisce in modo cospicuo dalla passività morale e intellettiva di cui soffre, per esempio, chi è schiavo di quella superstizione per la quale quell’ostia è solo un simbolo commemorativo o, che è lo stesso, un lacerto alimentare infestato o posseduto da qualche spirito immateriale. Ma ora non è necessario moltiplicare in questa sede esempi sull’esegesi resurrettiva e i diversi modi di praticarla con più o meno agio e non solo nei festivi, e quindi passo direttamente a consigliare la lettura di tutto Walter Benjamin, la cui fede politica e letteraria in altro non consisteva che nella fedeltà al suo infinito proposito esegetico: in particolare io consiglierei di leggere Benjamin passando prima attraverso un breve libro di GershomScholem, quasi una memoria sulla loro amicizia angelica: Walter Benjamin e il suo angelo. Ancora più precipua, e quindi illuminante, può essere infine la lettura delle opere Henry Corbin. Spero che i segnali luminosi riflessi da queste letture siano proficue per la caccia. Concludo la nota mostrandovi Dio:

Veronica Leffe, «Un sogno».

Veronica Leffe, «Un sogno».

Bibliografia

Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo (Adelphi, 1978)
Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita (Adelphi, 1986)
Henry Corbin,L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo (Laterza, 2005)
Henry Corbin, L’immagine del tempio (SE, 2010)