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Nella cabina dell’ascensore di un tranquillo condominio di calle Santa Fe, riverso su un lato e seminascosto da una pelliccia scura, giace il corpo di una donna. È il 1954, siamo a Buenos Aires e il suo nome è Frida Eidinger.

Manca poco al golpe con cui si chiude l’era peronista, ma la notte non è ancora così scura sulla Parigi del Sudamerica. Sono anni di benessere, di promesse, soprattutto per chi viene da lontano e vuole tenere il passato a distanza d’un oceano, come molti dei personaggi che popolano La morte arriva in ascensore di Maria Angélica Bosco (traduzione di Francesca Bianchi), poliziesco di costume al crocevia tra due continenti, due epoche, due modi di intendere il genere. Per vederlo in Italia ci sono voluti quasi settant’anni e una collana nuova di zecca, Água Viva, con cui Rina si apre alle autrici straniere, affidando la direzione del progetto a Luciano Funetta.

Sono i tempi di una vigilia inconsapevole, si diceva, in cui desta ancora parecchio clamore che una donna abbia una relazione extraconiugale o che si metta a scrivere polizieschi. Bosco, poco conforme ai dettami della sua epoca, fa l’uno e l’altro. Alla soglia dei quarant’anni, travolta dallo scandalo dell’adulterio e privata dei figli, dissotterra la penna e inizia la sua scalata al romanzo giallo. Partecipa a un concorso indetto da Emecé e lo vince. In palio c’è la pubblicazione nella collana El Séptimo Círculo, che alla voce fondatori reca un binomio di un certo peso: Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares. I due abbandoneranno il timone nel giro di poco, non prima, però, di lasciare in eredità alla casa editrice La muerte baja en el ascensor, prova mirabile delle infinite e divergenti vie che il poliziesco può percorrere, a dispetto della presunta rigidezza del genere. In questo caso riformandolo con eleganza, senza sabotarlo: cioè dilatando il delitto della camera chiusa fino a inglobare un intero condominio. Un microcosmo asfittico, percorso da una rete di relazioni taciute e ricatti, in cui spiccano una serie di figure femminili costrette a un ruolo subalterno e a un’immobilità che la morte di Frida finisce per sovvertire.

Chi ha ucciso Frida Eidinger, dunque? Il primo ad accorgersi del cadavere è l’inquilino del quarto piano, lo scapolo impenitente Pancho Soler, che stava rincasando dopo una serata di bagordi. Poco dopo sopraggiunge Adolfo Luchter, medico tedesco naturalizzato argentino, residente anche lui nel palazzo, che constata la morte della donna. I due frugano la borsetta, qualcosa cade per terra, rotola verso il vano dell’ascensore e sparisce inghiottito dall’oscurità del castelletto.
Viene finalmente dato l’allarme. Sulla scena arriva la polizia, che convoca tutti i condomini. In una mirabile scena di presentazione – siamo ancora nelle primissime pagine del romanzo – l’autrice dispiega il suo cluedo di sospetti, inchiodando con tratti fulminei le foto segnaletiche di un’umanità benestante e all’apparenza pacifica. Andrés e Aurora Torres, i portinai, si fanno «avanti insieme come le immutabili stelle di una costellazione. L’identificazione, finalmente!». Ed ecco gli Iñarra: Gabriela, dotata dell’arguzia «tipica delle madrilene», la giovane Beatriz dal «naso vibratile, di quelli che sembrano incitare chi li possiede allo scherno», e il bonario capofamiglia don Agustín, il cui paternalismo non sembra scalfito dalla malattia che lo costringe a letto. A riconoscere la morta è Boris Czerbó, il freddo bulgaro che sorride «col ghigno vuoto dei cinici» e tratta come una serva la povera Rita, che da anni vive in uno stato di semimutismo e reclusione, assoggettata al dispotismo del fratello.
E poi, ovviamente, c’è la polizia, forse il tassello più indicato per comprendere la rivoluzione mancata, o il riformismo silenzioso, a seconda di come la si voglia intendere, che si cela dietro questo giallo insieme atipico e classico.
Anche qui Bosco tende a moltiplicare le sue pedine, scomponendo e spalmando la funzione indagatrice su almeno quattro personaggi. Ma in fondo il modello della coppia di investigatori non è superato, con il geniale e indolente Ericourt e il giovane e dinamico Blasi a tenere le briglie delle indagini, in una rielaborazione del binomio Nero Wolfe-Archie Goodwin in salsa bonaerense e con più fiducia nelle istituzioni.
«Una verità esiste sempre», dichiara il saggio Ericourt, «anche se si nasconde». E ancora: «Gli eventi portano avanti le indagini per conto proprio. Dobbiamo accettare questa lezione di umiltà».
Nessuna inquietudine esistenziale, insomma: il caso verrà risolto, occorre soltanto pazienza. Mentre compie il suo magistero nei confronti dell’aitante Blasi, talvolta troppo ingenuo e affrettato – il romanzo è anche in minima parte la storia di questa formazione – Ericourt pronuncia brevemente la sua adesione al razionalismo inquirente, che forse può suonare un po’ ingenua al lettore contemporaneo cresciuto nel culto del cold case e del mistero insoluto.

Se ci fermiamo a questo livello di analisi però non cogliamo una sfumatura ben più interessante, perché è in questo momento che si apre la breccia che porta dallo schematismo del giallo deduttivo, sherlockiano, al noir come romanzo del caos, e cioè il riconoscimento di un limite alla capacità investigativa.
Secondo Leonardo Sciascia in Breve storia del romanzo poliziesco, il giallo classico presuppone un lettore che «non vuole sostituirsi all’investigatore; e la soddisfazione che questo genere letterario gli procura è quella del riposo intellettuale che gli è garantito dalla presenza di un investigatore “eccezionale”, dotato cioè di eccezionali poteri razionali e immaginativi».

Bosco mostra di comprendere benissimo questa dinamica e di giocarci consapevolmente, quando, subito dopo la sfilata iniziale, veniamo trasportati al centro della piazza del quartiere di Villa Devoto, dove ascoltiamo un coro di pettegole commentare il caso Eidinger, ormai assurto agli onori delle cronache. Una scena dialogica magistrale, in cui le voci si inseguono e si sovrappongono e in cui scopriamo dettagli che potrebbero risultare determinanti per il prosieguo delle indagini, se solo Ericourt non stesse beatamente dormendo sulla panchina a fianco.

Malgrado la soluzione dell’omicidio-suicidio giunga infine a ristabilire l’ordine, l’accumularsi di deviazioni e depistaggi che l’autrice si concede apre una serie di squarci incolmabili se ci si sofferma al mero gioco risolutorio del caso. Attraverso interventi sottili («L’opinione maschile introduceva il suo peso nel dibattito»), talvolta cedendo a un più generico moralismo («Era uno dei tanti individui che ogni giorno sfiorano appena i propri simili […]. Orfani di sentimenti, incapaci di stringere legami affettivi, interessati solo al proprio diritto di dormire dentro un letto, di mangiare, di bere e di vivere le “passioni” del sabato»), Bosco compie uno scavo meticoloso nella psicologia dei personaggi, restituendo una preziosa istantanea della multiculturale società della Buenos Aires degli anni Cinquanta, un attimo prima che la città entri nel baratro di indeterminatezza che ne ha caratterizzato i decenni successivi.

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