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“Essere o non essere, questo è il dilemma”, sentenziò l’Amleto allo scoppiare del Seicento shakesperiano. Cogito ergo sum, assicurò Cartesio pochi decenni dopo, inaugurando la filosofia moderna. “Ora io ti dirò quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che ‘è’, e che non è possibile che non sia, l’altra che ‘non è’, e che è necessario che non sia”, aveva verseggiato già Parmenide, allo scoccare della filosofia occidentale tout court. “Ex-sistere significa uscire-fuori, ex-por-si a”, aveva affermato Heidegger appena un anno prima dell’avvento del nazismo.

La questione dell’essere attraversa il pensiero occidentale nel suo insieme, scuote la filosofia non meno di quanto ossessiona la narrativa. Certo, questioni più ultimative non ce ne potrebbero essere: l’essere, lo stare qui, lo stare al mondo, lo stare al mondo per ora, è tutto ciò che abbiamo, ma è anche tutto ciò che siamo. L’universalità della questione dell’essere rende complicato il tentativo di tracciare in maniera netta i confini dell’esistenzialismo. A rendere ulteriormente fumosa ogni pretesa di classificazione, nelle schiere degli scrittori esistenzialisti raramente c’è stato chi ha saputo resistere alla tentazione di passare, a volte senza soluzione di continuità, dalla narrativa alla riflessione filosofica, dal racconto all’aforisma.

Con l’esistenzialismo letterario ci troviamo subito di fronte a un duplice paradosso: l’uomo, l’autore in questo caso, giunto al massimo dell’autoconsapevolezza, il romanzo giunto al massimo della sua autocoscienza – e del minimalismo. Questa tensione segna la forza e al tempo stesso il limite dell’esistenzialismo, è il suo recinto sacro. Vi incontriamo esseri umani talmente vigili e talmente autocoscienti da poter esistere solo su carta – perché la vita, nel suo stridente franare, li sommergerebbe. Non per nulla alcuni degli autori che andremo affrontando ricercarono l’ideale di un’esistenza puramente letteraria, scritturale, cartacea. La vita, al confronto con la letteratura, non è peggiore: è pessima, senza bisogno di confronti o di pietre di paragone.

A figure cut out of the sketchbook of Franz Kafka (ca. 1901-07). The Literary Estate of Max Brod, National Library of Israel, Jerusalem. Photos: Ardon Bar Hama

Ma chi sono i “veri” esistenzialisti letterari? Nell’arbitrarietà del canone occidentale, del canone recente, quattro nomi spiccano su tutti: Kafka, Sartre, Camus, Beckett. Un antecedente immediato dell’esistenzialismo fu senza dubbio Joyce, con la sua trattazione del quotidiano al cuore dell’Ulisse, soprattutto – ma Kafka era venuto prima di lui, e a parte Beckett che lo ebbe inizialmente come mentore, né Camus né Sartre sembrano essersi rifatti a lui più del dovuto, al di là dei temi, al di là di certo sguardo.

La letteratura ha – avrebbe – sempre raccontato di fatti fuori dall’ordinario, epici, eroici, quando non mitologici tout court. L’esistenzialismo non azzera lo straordinario, ma inverte radicalmente questa tendenza di fondo della nostra letteratura – e, fra le altre cose, fa coincidere quasi del tutto lo straordinario con la catastrofe. L’esistenzialismo poi, è sempre stato accompagnato da una sensibilità accresciuta. A volte, leggendo le pagine di quelli che pure sono capisaldi della letteratura del Novecento, pare eccessiva l’importanza tributata a dettagli e a piccole sensazioni di quella che comunque è l’esistenza di un singolo. Ma è proprio qui il punto: l’esistenzialismo segna il momento in cui in via definitiva la letteratura, anzi la narrazione nel senso più esteso possibile, da esperienza collettiva si fa fatto privato; l’esistenzialismo, insomma, va a braccetto con la crisi della comunità, e con la secolarizzazione stessa.

L’esistenzialismo: la ricerca dell’assoluto che non tiene, e allora sprofonda nel quotidiano. Ma anche: l’esistenzialismo: la permanenza nel quotidiano che non tiene, e allora risale all’assoluto. C’è sempre un certo ansimare – uno strusciarsi a una porta che comunque non s’apre.

Sulla soglia, come l’originaria copertina del racconto di Kafka, La metamorfosi. Sulla soglia, in un geloso intermezzo. Che non ci lascia passare, eppure non ci lascia vivere. Quando la letteratura non era più mito ma non era ancora autofiction. Il suo soggetto fu brevemente l’esistenza, e solo quella, e dici poco. L’esistenzialismo in sé e per sé durò una manciata d’anni, o forse si estende per tutta la storia della letteratura, fa lo stesso. Avrebbe un senso indagare un – tra infinite virgolette – genere, se il terreno d’indagine non fosse, al tempo stesso, così microscopico e così ampio? Avrebbe un senso aggrapparsi appresso a un termine, se questo termine non bastasse, da solo, a confermare una volta ancora la fallacia di tutte le nostre categorie?

A restringere il campo al massimo, esistenzialisti furono soltanto Jean-Paul Sartre, Albert Camus e pochissimi altri scrittori a loro attorno orbitanti, nella temperie culturale della Francia degli anni cinquanta – la stessa Simone De Beauvoir rientra solo marginalmente nella definizione. Diciamo che solo Sartre ha accettato esplicitamente, per sé stesso, la qualifica di esistenzialista. Sia Camus che Heidegger utilizzavano il termine in senso squalificante, quasi a tracciare una distanza tra loro stessi e gli scrittori, o i pensatori, che da una riflessione sui tratti fondanti dell’esistenza umana non riuscivano a trarre alcuna conclusione edificante, alcun valore positivo, sia pure regolativo. Eppure anche Camus e Heidegger, con toni diversi, non meno che Kafka, Beckett, o Jaspers, hanno contribuito a tracciare quell’affresco che la cultura del Novecento nel suo insieme volle dedicare all’esistenza. Sullo sfondo, almeno altri due nomi si potrebbero scomodare, dal cuore dell’Ottocento, Dostoevskij e, prima ancora, Kierkegaard. Ma restiamo nel secolo breve.

Credo quia absurdum, si iniziò a dire nei primi secoli della nostra era. Nel ventesimo, era rimasto solo l’assurdo.

Come Sartre e Camus litigarono sulla questione di come essere liberi

Brassaï (1899-1984): Répétition du Désir attrapé par la queue chez Picasso 16 juin 1944.

“L’esistenzialista dichiara volentieri che l’uomo è angoscia. Questo significa: l’uomo che assume un impegno ed è consapevole di essere non soltanto colui che sceglie di essere, ma anche un legislatore che sceglie”, kantianamente, “per sé e per l’intera umanità, non può sfuggire al sentimento della propria completa e profonda responsabilità”. Così Sartre nella celeberrima conferenza L’esistenzialismo non è un umanesimo, pronunciata nel 1945 e uscita in volume l’anno dopo.

Sarebbe stato possibile concepire l’esistenzialismo letterario, narrativo, senza gli orrori della Seconda Guerra Mondiale? Sarebbe stato possibile, e la storia della letteratura lo dimostra, concepirlo, scriverlo d’istinto, senza farne una teoria, un codice valoriale. In fondo, la Nausea stessa di Sartre è dell’anteguerra – per non parlare di Kafka, morto nel ’24. Eppure, proprio Kafka, agli occhi di molti commentatori dagli anni quaranta in poi, Günther Anders in testa, seppe descrivere con raggelante precisione il terrorismo burocratico senza il quale né lo stalinismo né ancor meno il nazismo si sarebbero saputi imporre. Quindi il labirinto si chiude.

L’esperienza della guerra, della Resistenza, la scoperta degli orrori dei Lager, furono indispensabili perché l’esistenzialismo letterario, da mera contemplazione dell’esistenza umana colta nei suoi tratti più rivelatori, quotidiani o morbosi che siano, si evolvesse a morale dell’agire. Ne è la prova il passaggio, nella narrativa di Sartre, da La nausea a Le vie della libertà, l’inconclusa serie di romanzi che ritrae la metamorfosi del protagonista Mathieu da intellettuale indeciso a eroico partigiano. Però Sartre non concluse mai la narrazione, e anzi, fallito il compimento de Le vie della libertà sui primi capitoli del quarto romanzo, smise del tutto di scrivere narrativa.

A ben vedere, anche Camus, negli ultimi anni della sua vita, sembrò narrativamente bloccato – e anche politicamente, nel suo caso. Tutti gli esistenzialisti effettivamente hanno contribuito alla narrativa del Novecento con un numero minimo di opere, per poi morire, o passare ad altro, o tacere. Nel caso specifico di Camus, dopo Lo straniero, del ’42, e La peste, del ’47, vennero solo racconti più o meno lunghi: la novella La caduta, e la raccolta L’esilio e il regno, titoli rivelatori. Il Nobel lo colse nel 1957, un incidente mortale nel 1960. “Sei mesi fa, e ancora ieri, ci si chiedeva: ‘Che cosa farà mai?’. Per il momento, lacerato da contrasti, che vanno rispettati, aveva scelto il silenzio”, scrisse Sartre nel suo necrologio. “Un giorno, avrebbe parlato. Non avremmo azzardato nessuna congettura su quanto avrebbe detto. Ma sapevamo che cambiava insieme con il mondo, come ciascuno di noi: ciò bastava a far sentire viva la sua presenza”.

Il caso di Kafka è ancora più grandioso, indiscreto, esemplare. Un individuo completamente dedito alla scrittura che, pure, non riesce a concludere nessun romanzo – e anzi chiede al suo amico Brod di bruciare tutte le sue carte, tutti i suoi scritti, persino tutti i suoi disegni e le sue lettere, post mortem. L’inconcluso, l’interminato, l’interminabile: sembra una via per l’infinito. Un infinito però negativo, un infinito abissale, bestiale – circulus vitiosus Deus — l’impossibilità della preghiera in un mondo secolarizzato.

“Tutta questa letteratura è assalto al limite”, scrisse Kafka in uno dei passaggi più celebri dei suoi diari, “e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una cabala. Ne esistono gli spunti. Certo qui si richiede un genio incomprensibile che affondi nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei e con tutto ciò non si doni, ma soltanto ora incominci a domarsi”.

Tullio Pericoli, Samuel Beckett, 1986

Il caso di Beckett è ancora più unico, indefinibile, paradossale. C’è una doppia rinuncia e una doppia svolta, nella sua carriera: l’abbandono, parziale, dell’inglese, a favore del francese; l’allontanamento, parziale, dalla prosa, a favore del teatro. En attendant Godot. Beckett continuò a scrivere, e a pubblicare, fino agli ultimi mesi della sua vita, ma sempre più la sua sensibilità si esplicò per viam negationis. Via la storia, via il finale, via la scena, via l’attore, alla fine via il linguaggio stesso: soltanto rantoli e sospiri sembrano accompagnare la vita per come la dipinge Beckett, alla costante ricerca di quel Nulla Positivo che scompagini le attese e travalichi ogni ricerca di senso, ogni illusione di Dio.

L’autenticità dell’esistenzialismo sta in quello che in altri tempi si sarebbe definito il paradosso del mistico. A parlarne nel più scoperto dei modi non fu nessuno degli scrittori citati finora, e neppure qualcuno dei filosofi, ma uno dei più grandi outsider, stranieri, non per nulla, della cultura del Novecento: Emil Cioran, autoproclamato “apolide metafisico” trapiantatosi dalla Romania a una mansarda di Parigi.

Soprattutto se si legge la raccolta di interviste a Cioran edita dalla Gallimard a ridosso della sua morte, ma qua e là anche in tutti i libri e i quaderni editi postumi, sorprende l’ossessiva presenza di affermazioni contro la scrittura. Quando un incauto intervistatore, già in una delle sue prime interviste peraltro, gli fece la domanda di rito le piace scrivere? Cioran imperversò dicendo che “è una cosa che detesto, e infatti ho scritto pochissimo”. Con un altro giornalista che gli aveva chiesto perché scriveva, invece di scegliere il silenzio, forse più in linea con la sua visione pessimistica delle cose, Cioran parlò più diffuso, dicendo senza termini che “tanto per cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani: il mio primo libro l’ho scritto in rumeno, a ventun anni, ripromettendomi per il futuro di non scrivere più niente; poi ne ho scritto un altro, seguito dallo stesso proposito. La commedia”, ammetteva francamente Cioran, “si è ripetuta per più di quarant’anni. Il motivo? Il motivo è che lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all’altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo”. 

Le difficoltà che a vario titolo – Cioran dicendo che odiava farlo, ma scrivendo come un grafomane, gli altri in maniera più autentica – gli esistenzialisti provarono nei confronti dell’azione stessa della scrittura, perlomeno della scrittura narrativa, riporta nel cuore del Novecento quel chiasmo che solo i mistici dei secoli passati, del cuore stesso del Medioevo potevano comprendere, condividere, compatire. L’esperienza mistica, che è contatto con l’ineffabile, cessa nel momento stesso in cui si scrive per consegnare a un ignoto lettore l’esperienza di Dio fatta nell’estasi: “trasumanar significar per verba/non si poria”, scrisse lo stesso Dante, che mistico non era ma misticheggiante sì.Mutata mutandis, anzi, seculata seculandis, gli esistenzialisti si trovarono di fronte al medesimo empasse, e ciascuno reagì a suo modo: Cioran, già lo abbiamo visto; Sartre pure, abbandonò la narrativa; lo stesso Camus faticò a produrre un nuovo romanzo, e il testo a cui stava lavorando al momento della morte era un’autobiografia in cui qua e là riaffiorava il suo stesso nome di famiglia. I casi più esemplari, e quelli più vicini all’esperienza mistica propriamente detta, furono indubbiamente Kafka e Beckett: il praghese si confinò da un lato nel labirintico, nell’interminabile, nell’ultra-simbolo, dall’altro lato nel frammentario, nell’epistolario, nel diaristico, senza dubbio nel casuale, dal momento che mai avrei potuto immaginare la pubblicazione anche delle sue più stenografiche annotazioni; Beckett fu colui che, più di tutti, adorò il silenzio, il silenzio non solo sulla scena, il silenzio anche sulla pagina, difficilissimo a rendersi; non per nulla impiegò per il suo primo e unico film una star del cinema muto, non per nulla tese sempre più alla minutezza, alla frammentazione estrema, e all’occasionalità editoriale, negli ultimi decenni della sua vita. Come amava ricordare Adorno, in una loro conversazione Beckett gli disse che tutto, persino le opere d’arte restano, in fin dei conti, a desacration of silence – cosa c’è di più mistico, e di più ascetico, di questa affermazione? Solo che qui l’arte, la narrativa ha sostituito Dio – o, perlomeno, non hanno saputo trovargli un’alternativa altrettanto valida.

Emil M. Cioran, immagine modificata IA

Gli esistenzialisti. Questi filosofi, questi scrittori, questi filosofi-scrittori vengono a comporre ciò che benjaminamente avrebbe a definirsi “costellazione”. Da una prospettiva antropologica, quale fu quella magistralmente adottata da Ernesto de Martino nel suo altrettanto incompiuto La fine del mondo, gli esistenzialisti incarnano perfettamente e altrettanto diffusamente esprimono il crollo delle certezze, dei rituali, dei simboli stessi, nel secolo della secolarizzazione. A prescindere da ogni analisi, da ogni interpretazione, gli esistenzialisti hanno tracciato una delle esperienze letterarie più autentiche di tutta la storia della narrativa occidentale.

Con gli esistenzialisti, non solo la scrittura arriva al “grado zero”, stilisticamente parlando, ma subentra una nudità della pagina, una genuina autoconfessione che, riallacciandosi idealmente ai tanti monologhi interiori che almeno da Seneca in poi, per non dire da Sofocle, hanno costellato la letteratura occidentale – riallacciandosi anche all’ontologia inaugurata da Parmenide e rigenerata da Heidegger — ha raccontato dal di dentro il Novecento. Molto più di qualunque cronologia storica, molto più di qualsivoglia sociologismo, i romanzi e i racconti degli esistenzialisti raccolgono tutto l’humus di un secolo.

Tratteggiare i caratteri generalissimi e nascosti dell’esistenza umana, tradurre fedelmente lo spirito del tempo, di un tempo: dev’essere stata qui la grandezza dell’esistenzialismo letterario, deve conservarsi qui la sua attualità, i motivi di un ininterrotto interesse. L’esistenzialismo segna proprio il momento in cui la letteratura occidentale abbandona ogni idea di destino e si apre definitivamente, complice il modello di Joyce, a una struttura più aperta e libera; da questo punto di vista, è l’esatto contrario del tragico. Non basta questo essenziale cambiamento strutturale a rendere l’esistenzialismo un’autentica rivoluzione copernicana nella percezione occidentale non solo dell’arte narrativa, ma della vita stessa?

Henri Matisse – Le Bonheur de vivre

Per concludere, ci affideremo a un quadro, a un’immagine. In fondo, la letteratura, è ciò che va sempre ecceduto, superato – e il cinema, è ciò che va ancora precisato. Ci accontenteremo della pittura – momentaneamente -, e ci rivolgeremo a Henri Matisse, un pittore francese che ha terminato la sua vita proprio mentre l’esistenzialismo letterario e politico impazzava nel suo paese, e che negli ultimi anni della sua vita fece parte della stessa cerchia di Camus, Sartre, Simone de Beauvoir e Merleau-Ponty, quella cerchia che, tra cafè e riviste di rango, cercava di salvare l’umanesimo dalle minacce di chi, dopo Auschwitz, bandiva la poesia.

Rispetto agli esistenzialisti, inclini al pessimismo non meno che alla ribellione, i quadri di Henri Matisse hanno sempre trasudato un inguaribile ottimismo, una felicità piana e sudaticcia che neanche la Seconda Guerra Mondiale riuscì a scalfire. Ne sono testimoni i suoi due quadri più celebri del suo periodo d’oro, Le bonheur de vivre, del 1906, e La Danse, del 1910. Noi non ci rivolgeremo tanto a La gioia di vivere, ma a una tavola che rappresentava uno studio preparatorio per quel quadro tanto celebre, e che risale al 1905, un anno prima dell’opera più nota. Questa seconda tavola, doppio della prima, è nota anche come Paesaggio a Collioure, uno dei più graziosi comuni della Francia meridionale, giusto al confine con la Spagna.

Osserviamo il Paesaggio a Collioure, allora. Tutto, nella tavola, sembra oltremodo invitante, abbandonato, languido, è un po’ un canto delle Sirene non meno di altre opere, più celebri, di Matisse. Solo dopo qualche minuto di contemplazione un piccolo brivido ci corre sulla schiena: a differenza che ne Le bonheur de vivre, in questo Paesaggio a Collioure sono completamente assenti le figure umane; solo un albero lascia adito al sospetto di essere anche un uomo, ma poco importa.

L’inferno, sono gli altri, di Sartre, non è una frase da cui si possa tornare indietro. Kafka e Beckett, superfluo inserirli in lista. Lo Straniero e La Peste si completano a vicenda nell’immaginare la prospettiva dell’ultimo uomo sulla Terra – perlomeno, dell’ultimo uomo pensante, vigile, cosciente di sé, e capace di narrare tanto il suo distacco dalle cose quanto l’invisibile catastrofe generale che ha colpito il mondo intero.

A poco a poco, risaliamo abbastanza a fondo, nei non-detti della cultura francese, per ritornare a Cartesio e ai suoi dubbi metodici, iperbolici. Non solo quello del Dio malvagio, che, superato, accantona silenziosamente e goffamente la gnosi, ma anche un altro, forse più comune: e se fossi io l’unico soggetto pensante in un mare di simulacri? Se fossi io l’unica autocoscienza? Questo dubbio Cartesio lo supera, ma appunto lo oltre-passa, o almeno ci passa vicino – e in un certo senso torna a bussare alle porte della cultura francese in pieno Novecento, come un fantasma irrisolto, attraverso figure come quella dello Straniero, autistica, ancor più che solipsistica, nella sua visione del mondo. 

Queste sono le evidenze: l’esistenzialismo, “semplicemente”, quanto più approfondiva le sue tematiche, i suoi interrogativi stringenti, quanto più cercava di dimostrare, in primis a sé stesso, di essere davvero un umanesimo, come disse Sartre nella celebre conferenza del 1946, tanto più si sentiva il terreno crollare sotto ai piedi. E ritornava, per la via inversa, al cospetto di quegli unici momenti di angoscia che colsero Cartesio, nel costruire il suo limpidissimo sistema.

Al fondo della loro interiorità, i mistici dell’Occidente trovavano Dio, e all’improvviso si illuminavano capendo come diventare Dio, per parafrasare lo Pseudo-Meister-Eckhart. Al fondo della loro individualità, gli esistenzialisti si scoprivano unico io narrante, errante, solipsista. Unico io, nell’assenza di Dio.

Un mondo senza umanità; osservato, a debita distanza, da un’individualità sola: fosse stato questo, e sin dall’inizio, il vero obiettivo, nascosto, dell’esistenzialismo letterario? Matisse, sornione, sembra assentire. La vita, non è solo una danza: è anche questa oscura, luminosissima contemplazione. La vita come danza e l’esistenza come contemplazione, come theorein? Può darsi, ma non è tagliando in quattro le parole che arriveremo al succo delle cose.

Henri Matisse. Landscape near Collioure (study for The Joy of Life). 1905

L’immagine, è sempre assassina. Ma allora l’esistenzialismo non è un umanesimo – o se lo è, il fallimento dell’esistenzialismo – e qui ci riferiamo all’esistenzialismo francese, l’unico che abbia voluto scagliare un messaggio morale – ci dice qualcosa di chiaro sull’umanesimo tutto. E Matisse, sullo sfondo, continua a ripeterci che la felicità esiste anche al di fuori dell’umano – soprattutto al di fuori dell’umano, dove non c’è nessuno ad accorgersi di lei — che fortuna.

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