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In Italia (di altri paesi non saprei dire) c’è la tendenza a spedirti dalle stelle alle stalle in un battito di ciglia, un’abitudine politica sembrerebbe; se parliamo di figli d’arte il problema neanche si pone, dritti alle stalle. Ma non sta a me fare l’apologia di Maria Castellitto, o confermare o meno (non sono così bravo) ciò che Marsilio scrive sulla copertina del suo esordio, menodramma, «un giovane talento della narrativa italiana». Vorrei, però, sottolineare che, a parer mio, sono almeno due le intenzioni che vale la pena portarsi a casa del romanzo di Castellitto. La prima, la ricerca euritmica; il termine, com’è noto, dal greco, significa “giusta apposizione”. Leggendo menodramma è impossibile non notare un’architettura linguistica affascinante, un ritmo sincopato, una sintesi sovraestesa, che descrive un mondo diffuso, corpuscolare e interattivo. Se originale vuol dire “a modo tuo”, Castellitto “il suo modo” l’ha trovato, e come spesso capita a chi è sulla buona strada per fabbricare la propria voce, questa si amplifica, si sdoppia, triplica, fino a sembrare un coro, generazionale, in questo caso spietato, con gocce di romanticismo, un’eco (involontaria) alla famosa scena di Jerry Maguire del 1996, in cui Tom Cruise, Jerry, si dichiara a Renée Zellweger, Dorothy, «Mi manca mia moglie. Viviamo in un mondo cinico». La seconda, la natura palindroma del libro. Questo romanzo, se lo leggi al contrario, funziona, se avvolgi.

Infatti, nonostante sia una storia ricca spazio-temporalmente, una grandezza fisica è sospesa, quella del calore, l’unica prova che il tempo è passato, solo la morte imbroglia questo meccanismo, e di conseguenza diventa una singolarità, che si impone. Insomma, un’intuizione, questa del viceversa, che meglio di altri restituisce un’emozione con cui estimatori e detrattori faranno i conti: quella delle prime pagine de Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, 2009), quando il protagonista arriva a Trieste col treno, si sveglia e si addormenta, confonde verità, realtà, sogno. Ecco, Castellitto, ha antropizzato la formula di Del Giudice, e, almeno secondo me, ha tenuto a mente una vecchia convinzione del compianto Philip Roth in Pastorale Americana (Einaudi, 2013): «capire bene la gente non è vivere» – soprattutto oggi.
Proprio dalle idee di euritmia e palindromia, parte la mia chiacchierata con Maria Castellitto, che ringrazio.

«Euritmia» e «palindromo» sono due parole cruciali nel tuo romanzo. Mi racconti perché «è brutto essere palindromo», e se questa storia, in che misura, è la ricerca (generazionale) di “una buona armonia”, di una danza?

Riguardo il termine “palindromo”, si tratta di un discorso contraddittorio: essere quello che si è ed esserlo sempre, che è anche un’idea orrenda al contempo, perché la quotidianità è leggibile, prevedibile. E a pensarci, il mio romanzo ruota attorno alla ricerca, la richiesta di un imprevisto (sentimentale, violento), la volontà, cioè, di voler scappare da una vita che si ripete, anche se ciò è inevitabile.
Invece, per quanto riguarda “euritmia”, è una parola che lessi tempo fa in una poesia e che mi annotai, e in effetti credo sia legata alla mia narrazione sincopata, che mi sembra rispecchi come vedo le cose attorno, di questi tempi, con frasi brevi, trap come ha detto Marcello Fois, anche se io scrivevo in modo molto inconscio, naturale, senza chiedermi come incastrare le frasi – forse ciò è dovuto anche all’ironia, che è sempre una sintesi.

Vado al titolo del tuo esordio, tranchant, univerbato, menodramma, che mi fa pensare a un pezzo citatissimo di P. Seghal del 2022, che tratta proprio dell’abuso del trauma in letteratura. Il tuo titolo è un invito in questo senso?

Penso che l’abuso di cui parla Seghal sia innegabile, non solo in letteratura, ma anche nel cinema, per esempio, anche se poi tutto dipende da come le racconti le storie, e la capacità dell’autore o dell’autrice di limare, di avere un certo pudore mi permetto di dire. Il senso del mio titolo va in questa direzione, risponde al tentativo di voler escludere ogni afflato sentimentalista, ogni retorica del dramma, della vita dolorosa, bulimica di un pathos artefatto.

Nel tuo romanzo, il tema del trauma è legato a quello della morte, per omicidio o suicidio; la tua citazione di Woody Allen è catartica, «anzitutto bisognerebbe morire». Ti domando: come si racconta della morte senza dramma? Aggiungo: ne discutevo di recente con Natalia Guerrieri, l’autrice di Sono fame (Pidgin Edizioni, 2022), la morte è il davvero grande rimosso della società capitalista (l’idea di Byung-Chul Han quindi), di cui la Londra del tuo romanzo è una delle tante rappresentazioni?

Totalmente. Credo che sia stato solo il covid a riavvicinarci un po’ alla dimensione della morte. E, per rispondere alla prima domanda, soprattutto se fai la scrittrice o lo scrittore, penso sia impossibile non entrarci in relazione, almeno per me è così. Fin da piccola, tutto quello che ho scritto, anche se ho pubblicato un solo romanzo, ha sempre in qualche modo riguardato la morte. Se così non fosse, mi sembrerebbe di scappare da quella che è la natura della vita; che, va bene, in sé è una tragedia, ma può anche far ridere, credo. Nel mio romanzo, non so se sono riuscita a scrivere della morte senza dramma, non so proprio in generale se sia possibile; di sicuro, però, c’è il lutto ma non ci sono le lacrime, come alla morte di uno dei personaggi. Quando ci rifletto, non so perché, penso a quell’idea di Dostoevskij dell’eccitazione se una tragedia capita a qualcun altro e non a te1In Memorie dal sottosuolo (Neri Pozza, 2021).

Nel romanzo a un certo punto citi Schopenhauer, «molta gente accetta di vivere solo perché non ha il coraggio di suicidarsi». È davvero un romanzo nichilista come hanno scritto il tuo?

In realtà, nel mio romanzo il suicidio credo ci sia finito per caso. Forse per motivi personali, anche se fino a ora ho detto il contrario; forse era il dialogo più potente che potevo avere e di cui potevo scrivere. A un certo punto della mia vita ho conosciuto la depressione e quindi, in un certo senso, magari questa cosa me la porto dietro da tempo, anche se non mi ci sono mai confrontata direttamente come invece fa Duna, la protagonista del romanzo, con ironia, perché mi fa ridere questa idea di scherzare sulla morte, come accade a un certo punto del romanzo, tra due personaggi che si inventano la morte drammatica dei loro rispettivi fidanzati.

Il tentativo di ridicolizzare la morte, il dramma…?

Sì, qualcosa del genere. Duna, a un certo punto, ammette persino che forse alla fine il suo grande trauma è quello di non avere grandi traumi, uno degli effetti della società del trauma che esperiamo, in cui è molto facile uscire traumatizzati senza sapere bene da cosa. Ciò, fra l’altro, sono convinta immobilizzi molte persone: vedo molta incapacità di scelta, di muoversi, un enorme senso di paura e inadeguatezza causato dalla sensazione che ci aspetti una fine ineluttabile, dall’idea, questa di Bauman non mia, che l’esclusione dalla società dei consumi è fatta passare per una scelta individuale, un suicidio, quando in realtà è a tutti gli effetti un’esecuzione sociale. Però forse questi sono anche pensieri a posteriori, un’esegesi desiderata ecco.

Quest’idea di una società traumatizza è molto interessante. Brutalizzo: se siamo tutti un po’ malati stiamo tutti un po’ meglio?

Secondo me è così ed è dannoso. Anche perché poi questa iperpatologizzazione caratterizza ogni giorno nuove malattie/sindromi ridicole, pretestuose a parer mio, in cui tu puoi identificarti e sentirti un po’ meglio, senza però risolvere nulla; non è che un modo per apparire, un tentativo di appartenenza. Poi, va detto, magari a qualcuno aiuta, ma a me non ha mai rassicurata, anzi. Come, d’altra parte, non ci riesce il tentativo di normalizzare ciò che normale non è (penso magari ad alcune patologie psichiatriche); credo che ci sia una barriera che se la scavalchi c’è qualcos’altro. Mi sembra un tentativo di sensibilizzare senza cultura. Per esempio, un personaggio che mi è piaciuto molto scrivere è stato quello del pazzo, e non volevo farlo senza dire che lo fosse; d’altronde se entri in università con una mannaia forse qualcosa dev’esserti successo, ma va bene così.

Mi fai venire in mente una strofa di Cosa succede in città di Vasco che cita spesso mia madre: “il mal di stomaco ce l’ho io mica te o no?”; cioè: per quanto mi possa aiutare sapere che stai male anche te, al contempo non mi serve a nulla. Ma prima di andare oltre, insisto: nichilismo, morte, è un romanzo pessimista il tuo? «Sotto i pensieri e le emozioni non c’è nulla» come scrivi ripensando Nietzsche?

Mi viene da rispondere che se uno sostiene che c’è salvezza allora può anche smetterla di cercarla, di pensarla. Per continuare a farlo, invece, serve stare sul crinale. Poi io, scrivendo, sono andata verso una rinascita. Tant’è che di questa cosa del nichilismo non sono sicurissima: forse è una cosa che mi porto talmente dentro che tutti la vedono e quindi la devo accettare; però, nella mia idea, più che il mio romanzo, il mondo è nichilista, e quello che io ho raccontato sono le sue conseguenze, ossia che sì, sotto i pensieri e le emozioni non c’è niente, perché lo penso davvero, che sia tutto così fragile, anche i nostri pensieri più profondi, sotto è tutto molto friabile. L’impegno, tuttavia, è quello di uscirne interi, rompersi senza corrompersi, se si può dire.

Torno brevemente alla produttività. L’incipit del tuo romanzo «Tu puoi fare tutto» sembra cozzare con l’ipercontemporanea «umanità dei non so» di qualche pagina successiva. Sono due forze in contrasto per te?

Sì. L’incipit volevo fosse oppressivo: oggi credo ci sia questa sensazione di essere in ritardo sulle cose della vita, indotta dalle mille possibilità che uno ha davanti. Anche Duna, infatti, non riesce a rientrare nei parametri che vengono imposti. Però, forse, si può scegliere di non voler partecipare a tutti i costi a una gara, e quindi prendere tempo, perdere tempo. Anche perché, come dicevo prima, temo che in una società che ha annullato le distanze, in cui si sono mischiati tutti i colori, la grande libertà di scelta provochi immobilità. Ciononostante, credo che chi può tornare all’umanità dei non so può sempre farlo.

Ho trovato il tuo romanzo quantistico e relativista, attento ai fenomeni su piccola scala e a quelli macroscopici. Volevo sapere come hai interpretato il tempo della narrazione in questo romanzo, in cui è avviluppato su stesso, inestricabile per certi versi, presentissimo.

Bellissimo quello che dici. Alla fine, il tempo per me, come dice Woolf, è sempre un protagonista. Nel romanzo, per esempio, senza accorgermene, ho raccontato molte cose del passato al presente, e poi ho insistito molto sul detto afgano “voi avete gli orologi e noi il tempo”. Ovviamente in sé la frase fa riferimento alle differenze tra oriente e occidente, ma mi interessava l’idea di usare il tempo per millantare una superiorità che uno sente di avere e che invece lo sta portando alla distruzione; come dice Duna, alla fine oggi è meglio avere gli orologi che il tempo.

L’altra grandezza fisica che va a braccetto col tempo è lo spazio. Nel tuo romanzo mi sembra si comprima, si saturi. «Il mondo sta esaurendo gli spazi» dici, siamo schiacciati dalla nostra massa. Lo dice anche una frase che in molti si saranno appuntati: «invece tu prova ad avere un mondo nell’ano». Ma torno romantico, e ti chiedo che spazi stiamo perdendo o abbiamo già definitivamente perso?

Non pensavo avresti mai citato quella frase (ride). In ogni caso, sì, ho questa sensazione, che nel mondo stiamo esaurendo gli spazi, anche se non so cosa sia conseguenza di cosa. Nel romanzo, i personaggi si conoscono su spazi virtuali, come avviene nella nostra società, proprio perché c’è una difficoltà di questo tipo. Certo, da un lato c’è la difficoltà a occupare certi spazi, ma dall’altro è tutto così dispersivo, nelle città ancora di più, se grandi come Londra ancora peggio, sentirsi parte di qualcosa è difficilissimo, il sentimento di alienazione (che in qualche forma c’è sempre stato) oggi è fortissimo. La prospettiva di sostituire l’uomo con la macchina fa parte di questo d’altronde, abitare nuovi spazi, non estesi.

Il tuo romanzo è zeppo di citazioni, dalla letteratura al cinema, alla filosofia. Quali autori ti hanno ispirata, quali senti più affini?

Sicuramente, se non avessi letto Estensione del dominio della lotta di M. Houellebecq e Le mille luci di New York di Jay McInerney scriverei diversamente. Poi, posso citarti anche Kerouac, Dostoevskij, Carrère, con il quale sono proprio fissata, ma anche DeLillo, sento che il mio gusto è proprio nel postmoderno. Tuttavia, quando scrivo, non penso a nessuno nello specifico, sono abbastanza libera.

Ti vorrei salutare chiedendoti proprio dell’epilogo del romanzo, di questa frase – «Chi è senza un futuro invidia chi si permette d’essere senza un passato per il solo gusto di pensarsi nuovo» – che in qualche modo mi ha ricordato la descrizione che spesso si fa delle generazioni più giovani, senza futuro e con poca memoria del passato.

Nel mio romanzo l’idea che tu ricordi, che c’è, è interconnessa all’ambiente universitario in cui si muovono i protagonisti. Nella mia testa, quella è una minoranza elitaria, a differenza della moltitudine senza futuro, che si può permettere il lusso di decostruire tutto, e quindi guardare anche al passato, che da un lato è anche questa una cifra della generazione dei più giovani, l’assenza di qualsiasi timore reverenziale verso le cose passate, belle o brutte, in fondo i trapper danno proprio questa sensazione, di non dover dare conto a nessuno ora che ci penso. Insomma, nel mio romanzo è più una scelta l’assenza di passato, della minoranza, che costruirà il mondo, anche se poi ovviamente non è così.

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