I cori sono divisivi e rivendicano. Si cantano per affermare quello che è giusto (noi) e condannare quello che è sbagliato (loro, e chi se no?). E chi li canta sa, più o meno consapevolmente, che quello è un atto dovuto non per le parole che bisogna cantare e nemmeno per i valori o le istanze che rivendicano, è dovuto per contesto (una curva, una serie di gradoni, una piazza) in cui quei cori vengono intonati. Nello specifico faccio riferimento a quel coro che afferma che c’è
/ un capitano / c’è solo un capitano / un capitano / c’è solo un capitano.
Ecco quel coro io non sono mai riuscito a cantarlo, o se l’ho fatto era più consacrare un momento, magari dopo un gol, un gol decisivo, in cui intorno a me cantavano in settantamila quello stesso coro e che anche se non condivido in pieno, canto lo stesso perché lì, al gol, la voce viene prima della parola.
Quello che afferma che /c’è solo un capitano/ riferito, per chi segue la Roma, negli ultimi 25 anni a Totti, mi ha sempre fatto pensare a: e allora Di Bartolomei? E allora Giannini? E poi quando ce l’ho avuto davanti: e allora Giacomo Losi? Giacomo Losi è stato il capitano della Roma degli anni Sessanta per 299 volte. E lui stesso mi ha detto che tutti lo chiamavano ancora Capitano. «Le vecchie glorie mi chiamano ancora così, tutti mi chiamano Capitano».
L’ho incontrato qualche anno fa, quando il Collettivo Fx aveva voluto disegnare un suo gol sulla parete di uno spogliatoio dell’ASD Nuova Valle Aurelia, scuola calcio di cui il presidente onorario era proprio Losi e che che ogni anno organizza il Torneo Core de Roma a lui dedicato, anche se era nato a Soncino e a Roma ci era arrivato a sedici anni. «Walter Chiari mi ha chiamato Core de Roma in una trasmissione al Sistina» aveva raccontato Losi. «Ogni anno c’era la serata giallorossa e invitavano tutti i tifosi e Walter Chiari disse: “Vi presento il core de roma”. E da lì diventai il Core de Roma».
Quando ci siamo incontrati Giacomo Losi, “il Capitano”, “Core de Roma, “Mino”, o “Omino”, era arrivato prima di tutti al campo, prima ancora degli autori del murales e prima di me che lo avrei dovuto intervistare. Quando siamo arrivati il figlio di Losi ci aveva detto che aveva trovato un tifoso che lo aspettava da due ore per farsi autografare delle foto. E Giacomo Losi era lì, con una camicia a quadri azzurrini, con i primi due bottoni slacciati, pantaloni lunghi blu, curioso del disegno che gli stava facendo il Collettivo FX: il gol della vittoria che fece l’8 gennaio 1961 contro la Sampdoria. «Facevo entrate in spaccata, io quando entravo mettevo le gambe dappertutto. Mi ero strappato all’inguine e all’epoca i cambi non esistevano. Avevo un bozzo così. Allora sono andato a fare l’ala. M’hanno lasciato libero sul dischetto del rigore, tanto dice “È zoppo, dove va questo qua”. Sono saltato su una gamba e quel gol è passato alla storia».
Finita la risata del racconto, Giacomo Losi ha cominciato a parlare di Soncino e di quando era piccolo, e della Roma, e della guerra. Un racconto lungo che più o meno è stato questo.
«Io Soncino ce l’ho nel cuore, purtroppo non ciò più nessuno lì. Tanti anni che non vado e mi dispiace da morire. Soncino è un bel paese eh. C’è un castello, tutte le mura e i bastioni. Io lì stavo sempre a giocare a pallone. Noi avevamo i portici a Soncino dove al martedì e al sabato facevano il mercato. Poi levavano il mercato e noi mettevamo due cappellini in terra qua e due cappellini in terra lì e facevamo le porte e giocavamo cinque contro cinque, sei contro sei in mezzo del paese, per strada e la strada nostra non era con l’asfalto, a Soncino c’era il selciato e se c’era un portone lì c’era la porta. E giocavamo scalzi per non rovinare le scarpe, e molte volte non c’era il pallone e allora noi rubavamo i cappello al papà, ci buttavamo dentro gli stracci, li cucivamo e era una specie un rotolo di pezza. Poi c’era pure l’oratorio che era di terra battuta e facevamo le vie crucis in tempo di quaresima, alle sei di sera, che eravamo già tutti sudati perché giocavamo a pallone. Facevamo pure altri giochi: giocavamo alla guerra con le spade di legno guardando le figure, con le spade di legno: c’era Robin Hood, Ivanhoe e i libri di Salgari. Poi è venuta la guerra e mi ricordo gli americani che bombardavano e noi andavamo nelle gallerie. Tiravano le bombe sul fiume, l’Oglio, e non beccavano mai i ponti. Il paese mio era un paese feudale e sotto c’era tutte le gallerie. E durante la guerra mettevi giù la scale e sotto c’erano gli appartamenti. Soncino è un paese antico e era una zona di partigiani, che si nascondevano nei boschi perché i tedeschi se ti beccavano li mettevano a muro eh. Io ho visto anche gente fucilata che li mettevano al muro e li ammazzavano tutti. Noi da ragazzini raccoglievamo le schegge delle bombe per venderle a quello che vendeva il ferro perché costava eh. Con un pezzo d’acciaio ci facevamo la paghetta, pensa un po’. Però era bello al fiume perché facevamo il bagno nudi, anche se era pericoloso perché ci tuffavamo dagli alberi, come i pazzi. Le studiavamo tutte, eravamo sempre in mezzo al pericolo».
Così raccontava Giacomo Losi mentre scartava la posta che gli arrivava lì al campo dell’ASD Valle Aurelia. Quel giorno aveva in mano una busta da lettere bianca che arrivava da Varsavia, scritta in inglese, piena di sue foto di quando era giovane, dove gli si chiedeva di mettere un suo un autografo con tanto di busta per fargliele rispedire. Lui quelle foto se le era guardate, si era riconosciuto, aveva riconosciuto Nordhal e da lì aveva ricominciato a raccontare, con sempre più piacere a vedere noi che stavamo ad ascoltare e non fiatavamo.
«E poi mi ha preso la Cremonese in serie C, e poi Roma. È stato Bodini, l’allenatore della Cremonese, che aveva giocato con alla Roma a campo Testaccio, a segnalarmi alla Roma, ma mi hanno preso a scatola chiusa eh. E a Roma io sono stato due-tre mesi in primavera, e poi subito in prima squadra. C’era Mister Carver, un inglese. Poi è venuto Sarosi, un ungherese. Tutti mi amavano da morire perché dove mi mettevano stavo bene. Anche perché io giocavo in anticipo. Ho giocato con Charles, Sivori, Altafini, chi c’era poi? Vinicio. Tutti i grandi centravanti li beccavo io perché dicevano “Giacomo, tocca a te” e io gli ero sempre attaccato come una mignatta eh. Ero piccolo ma ero tosto. Anticipavo nel pensiero il passaggio che arrivava e arrivavo prima di loro sennò se la pigliavano loro non la pigliavo più».
L’unico momento in cui, in quella chiacchierata, era sembrato triste è stato quando ha raccontato della sua ammonizione, l’unica in 386 partite, alla sua ultima partita in serie A. Un’ammonizione, una sola ammonizione.
«A Verona, l’arbitro mi ammonì: avevo fatto due entrate con scivoloni a prendere o gamba o pallone. Ha detto “Giacomo ti devo ammonire”. Eh mi ammonisca, gli avevo risposto io». E quando lo aveva raccontato, per un attimo, era diventato triste. Quello, insieme alla nostalgia per Soncino, era sembrata la cosa che più gli aveva fatto dispiacere.
Il 4 febbraio 2024 Giacomo Losi è morto e sui social è iniziato il solito racconto collettivo della sua carriera, i numeri, i record, le sue foto, il soprannome che gli ha dato Walter Chiari, le maglie, quel gol contro la Sampdoria, il racconto di lui figlio di antifascisti che a dieci anni portava le munizioni ai partigiani, di sua madre che lavorava alla filanda, il saluto della Roma, e quello della FGCI e del presidente Gravina che lo eleva a “esempio di correttezza”, senza spiegare il perché: un’ammonizione in 386 partite è più una macchia per la sua FGCI che per la carriera di Giacomo Losi.
E allora, al di là dei tributi, più o meno sentiti, aldilà dei cori e dei soprannomi, se sarebbe bello che quell’ammonizione, quell’unica ammonizione presa contro il Verona, nella sua ultima partita, gli venisse cancellata dalla FGCI o dalla Lega Calcio o chi per loro. Sarebbe una cosa piccola, che forse vale quanto il coro per un capitano. Sarebbe da cancellare un’ammonizione, una sola ammonizione.