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Quello della sciampista è un bel mestiere, almeno per me. È un lavoro che mi permette di pensare ai fatti miei. Penso mentre scelgo lo shampoo – normale o per capelli secchi, ristrutturante, arricchito con cheratina. Penso mentre sistemo l’asciugamano sulle spalle delle clienti e poi sento la temperatura dell’acqua e la bocca dice troppo calda o va bene così? senza che la mente dica niente, silenzio. Soprattutto penso mentre massaggio la testa delle persone, che è una cosa che non mi stanca mai. Posso andare avanti per tutto il giorno a spingere, sfregare, affondare le dita sulle tempie e lungo il collo, circumnavigare orecchie, spostare catenine d’oro. Ho scoperto che è qualcosa che fa star zitta la gente, perciò ci metto molto impegno, perché se c’è una cosa che proprio non mi piace è parlare con gli sconosciuti. Uno può pensare che allora ho sbagliato mestiere, ma in realtà basta saper lavare bene una testa per farla tacere. Cedono anche i più ostinati, se insisto. Prendo una ciocca tra le dita e tiro lentamente. Gratto, affondo, scavo. Loro socchiudono gli occhi o addirittura si addormentano, gli si addormentano i pensieri. L’unica eccezione è lui. Esattamente lui. Tuo fratello. Un paio di volte l’anno si presenta qui. Guarda il soffitto per tutto il tempo, le finestre in pvc dove passeggiano i piccioni, le nuvole, e alla fine si passa una mano sul retro del collo, soddisfatto. Gli occhi non li chiude mai.

Prima che imparassi a massaggiare stavo per perdere il lavoro. Il mio titolare, Carmelo, mi sgridava perché stavo sempre zitta e non sorridevo alle clienti, non ricordavo il loro nome né quello dei loro nipoti o dei loro cani. Poi ho scoperto di saper fare quella cosa con le dita e la gente ha iniziato a chiedere a Carmelo di farsi lavare i capelli da me. Lui all’inizio non capiva, era anche un po’ sospettoso, ma poi la cosa è andata avanti al punto che ha iniziato a farsi pagare. Ha messo un cartello davanti alla cassa con scritto “Sciampo + massaggio di Arianna, 8 euro per 15 minuti”. L’anno dopo ha cancellato otto e ha scritto dodici, ma la gente veniva lo stesso. Io e Carmelo siamo diventati amici, mi ha promosso full-time, ha smesso di dirmi parla e sorridi e ha iniziato a dirmi «fai come ti pare». La sera spazziamo insieme i capelli per terra, passiamo il Vetril sugli specchi e ascoltiamo Venditti, oppure Renato Zero. Poi Carmelo abbassa la saracinesca e accende una canna, me la passa mentre conta i soldi in cassa e io lavo il pavimento. Ogni tanto riattacca con la zolfa del fidanzato: chiede perché non me ne faccio uno, io rispondo che non lo voglio e lui non se ne fa una ragione, dice che la solitudine è una cosa brutta. Sempre uguale. Allora mi dice che dovrei trovarmi almeno qualcuno su internet per passare una notte e si mette lì a farmi vedere i suoi match, mi chiede un parere. Io dico solo sì, no, assolutamente sì, assolutamente no. Lui scorre e appaiono facce, cuori, età. Alcuni sono bellissimi, altri hanno un’aria di autocelebrazione disperata che mi fa soffrire.

Dopo che abbiamo chiuso il negozio, un attimo prima di separarci per andare ognuno alla sua macchina, Carmelo mi lascia un’altra canna dentro un pezzo di plastica, un piccolo grumo di hashish da scaldare e sbriciolare nel tabacco. Ha iniziato a farlo qualche mese fa e io gliene sono grata. «Per le tue occhiaie» ha detto, e non mi ha mai chiesto niente in cambio, né spiegazioni né soldi. Forse pensa che abbia bisogno di fare la stessa cosa che fa lui quando va a casa, e che magari abbia problemi a procurarmi la mia medicina. Credo sia il suo modo di occuparsi di me, in un certo senso. 

Carmelo però non sa niente. Non immagina che, avvolto in quel pezzetto di plastica, per me c’è molto più di un rimedio per il sonno. C’è infatti un biglietto per venire a trovarti, là dove ti trovi, in quella casa sperduta in mezzo alle montagne di Gran Canaria, in un posto che si chiama El Risco. Scaldo, rollo, aspiro e tu ti manifesti. Attraversi tutti i recettori sparsi nel mio corpo, nel cervello nei muscoli nel midollo nei polmoni nel fegato nel cuore. Seduta al tavolo della cucina guardo i tetti delle case basse su cui affaccia la finestra. Mi piace che la mia casa sia rivolta al contrario, non sulla strada ma sulle corti interne dei miei vicini, quadrate; piccoli giardini che non deve vedere nessuno, dove si pranza in tre o quattro d’estate, tra intimi, e dove più spesso si accumulano secchi, scope, biciclette, cassette di patate.

Fuori vedo l’albero di limoni e quello di cachi, smosso dal saltabeccare dei merli che se ne stanno lì tutto il giorno a giocare e spolpare i frutti maturi. Penso alle tue gambe lunghe sopra il tetto della casa davanti quando ci salivi sopra per staccare i cachi – rubarli – e io ti urlavo di scendere da lì, non potevo guardare, avevo paura che cadessi da quel secondo piano pericolante. Invece te ne tornavi col cesto di vimini pieno, la bocca sporca perché ne avevi già mangiati un paio, quelle felpe gigantesche in cui le tue mani sparivano fino alle nocche tutte schizzate di gocce arancioni. Mentre scavalcavi la finestra per rientrare già mi dicevi «accendi», e l’erba allora passava dalla mia bocca alla tua in nuvole enormi, magnifiche. Sedevamo qui, proprio a questo tavolo, a fumare e guardare i due alberi fuori, tutti allegri in mezzo ai tetti. A volte seccavamo le foglie di limone per fare infusi; quelle fresche le usavamo come segnalibri. Il limone non lo tagliava mai nessuno e i rami, dalla casa di sotto, arrivavano fino al terrazzino della mia cucina. Erano due ciuffi d’albero in mezzo ai tetti del quartiere, nient’altro, eppure ci sembrava di essere in campagna, oppure in un posto tropicale, una giungla.

Tu di piante t’intendevi già allora. Se i tuoi non ti avessero costretto a iscriverti a medicina credo che saresti diventato un agronomo o qualcosa del genere. In ogni caso leggevi, compravi libri di botanica. Sapevi di quanto sole avevano bisogno, come bisognava curarle. Quando passeggiavamo da casa mia verso il distributore automatico della tabaccheria, di sera, lasciavi addirittura dei bigliettini dentro la cassetta delle lettere della gente, e c’era chi ti dava retta: il suo albicocco è ammalato, serve il verderame, e a qualcun altro: non si lasci convincere a potare quel tiglio, il prossimo anno andrà meglio.  

Più di tutto, ti sono sempre piaciute le superfici delle cose, i tessuti, ciò che trasporta informazioni. Così quando il fumo ci entrava dentro tu prendevi a raccontarne l’intero viaggio. Descrivevi il sistema nervoso centrale, le cose che avrebbe fatto, gli organi che sarebbero stati raggiunti. Arrivava un momento in cui non sapevo più se le cose stessero accadendo per via dell’erba o perché tu lo dicevi, ma di fatto il corpo ti stava dietro, si distendeva quando dicevi che lo avrebbe fatto, le parole diventavano appiccicose e noi avevamo molta voglia di mangiare frutta e poca di parlare, però ci piaceva ridere, soprattutto senza motivo, per il solo gusto di sentirci al sicuro nella mia stanza. 

Potevamo passare ore così, a girare canne e guardare i due alberi fuori, poi più tardi a leggere a voce alta o ascoltare musica, cucinare una zuppa, dormire. C’era quel gruppo che ti piaceva, i due bambini che cantavano con l’ukulele, una cosa strana. Non ricordo come si chiamassero, qualcosa come Isac e Nora, sì, ecco, Isaac con due a, Isaac et Nora, la bambina con gli occhi a mandorla e la voce piccola.
«Se tu avessi un bambino» dicevi, «vorrei che fosse così, come Nora. Un bambino per farci insieme qualcosa di bello. Altrimenti non vale la pena farli, i figli. Vorrei che dormissi fino all’ora che vuoi la mattina. Che non dovessi mai vivere per qualcun altro.»

«Io la mattina lavoro, mica dormo.»
«Il lavoro è roba tua.»
«Ah, sì. Questo è poco ma sicuro.»
Dei bambini che non volevi tu non parlavamo mai, ma la verità è che nessuno dei due aveva alcun desiderio di cambiare lo stato di cose. A venticinque anni eravamo già adulti così, senza bisogno d’altro. Eravamo anche d’accordo sul fatto che la specie non si sarebbe estinta per la mancanza del nostro contributo, mentre non potevamo essere certi del contrario. Eppure in te questa logica aveva inciampi, e ogni tanto capitava che ti si aprisse una voragine in fondo agli occhi, un buio, e arrivavi a chiedermi se non sentissi quella cosa, il desiderio di ospitare la vita nel mio corpo. Me lo domandavi con freddezza, come se ti preparassi a schivare il mio cambio di rotta come un colpo in faccia. Io però non ho cambiato idea. Nel mio corpo non ho mai voluto ospitare niente, né te né un altro né un figlio. Soprattutto non quello che sarebbe venuto. 

Con l’avvicinarsi della tua laurea avevi iniziato a sparire per settimane per preparare gli esami, poi la tesi, e io allora non parlavo proprio con nessuno, però le foglie di limone le staccavo lo stesso, le conservavo per te. Provavo anche a leggere i libri che mi lasciavi sulla sedia al posto tuo, ma mi scoraggiavo perché erano tutti tristissimi. Sarah Kane, il teatro di Sartre, i saggi di Edward Said, roba che a leggerla col cervello allentato si corre il rischio che il seme della tristezza si innesti a tradimento e senza scampo. Poi finalmente riapparivi con un esame in meno alle spalle. Anatomia, istologia. Per raccontarmi cosa avevi fatto per tutto quel tempo ti bastava spiegarmi l’etimologia del nome. Anche il nome era superficie, perciò ti interessava, volevi toccarlo con la lingua. Del mio, Arianna, dicevi che era greco e significava “casta, pura”.

Ora fumo da sola e i cachi li mangiano i merli. Facevo la sciampista allora e la faccio anche adesso, come sempre. Ciò che è cambiato è che le mie dita sono diventate più agili e ho imparato alcune teste a memoria. Credo che potrei riconoscere molte delle persone che frequentano il negozio senza guardarle in faccia, solo accarezzandogli la nuca. C’è una donna, ad esempio, che ha certi capelli scenografici: rossi, fitti. Le scendono sulla schiena in riccioli grandi, giù fino alla vita. La superficie della cute, però, è completamente irregolare. Piatta sul retro quasi l’avessero piallata, cava sul fondo. È impossibile immaginarla senza metterci le mani, perciò solo io che la tocco so com’è fatta davvero. È una specie di segreto a cui ho accesso una volta a settimana, e mi piace.

Ogni tanto penso anche che avrei potuto studiare. Capita soprattutto sotto le feste, quando l’orario di lavoro si allunga e mi viene il mal di schiena. Di solito mi ricredo in fretta, comunque. Il fatto è che proprio non mi piace sentirmi dire cosa devo infilare nel mio cervello, come occupare la mia memoria. Quello voglio deciderlo io. Così alla fine sono rimasta qui, in questa casa che m’è toccata in sorte a diciannove anni dalla nonna che non ho conosciuto e che però ha deciso di farmi un gran regalo. Mi è piaciuta subito per via delle finestre e dei soffitti alti, che mi fanno respirare. Ogni anno aggiusto qualcosa, ridipingo una stanza; mi sforzo di dimostrare gratitudine a questo posto, o forse a mia nonna, anche se poi non ho avuto molti visitatori, a parte te. Un paio di colleghe, mia madre, ogni tanto un fidanzato che durava poco, questo perché non ho mai avuto voglia di fare granché di avventuroso, tipo lunghi viaggi oppure cene con gli amici del calcetto. Già allora, quando sono entrata qui, era tutto storto, così almeno dicevano i miei e gli altri della vita di prima. Per me era anche tutto in equilibrio, però, come la Torre di Pisa che pende senza cadere. Il miracolo del bilanciamento naturalmente era dato dalla tua presenza. Io lo sapevo e mi andava bene. Certe cose stanno in piedi anche se gli altri distolgono lo sguardo.

Non che ci fossimo scelti, noi due, almeno non in un primo momento. Ci avevano solo messo nella stessa stanza alla scuola materna un giorno in cui tutti avevano la varicella tranne me e te. Avevano detto “giocate” e noi avevamo giocato. Eravamo entrambi grassottelli, ci piaceva mangiare tanto, troppo, e se ci prendevano in giro tu li picchiavi. Picchiavi per tutti e due, perciò ci mettevi una forza doppia e facevi male. Nemmeno il giorno in cui hai fratturato il dito a quella bambina hai chiesto scusa. Mi aveva tagliato i capelli da dietro il banco per l’ennesima volta e io non avevo detto niente, ma tu sì. 

Più avanti, verso la seconda media, sei cresciuto di colpo. Sei diventato enorme, alto, ti è sparita la pancia e ti sono spuntati i baffi. Io invece sono rimasta piccola e rotonda fino alla fine del liceo, quando abbiamo scoperto il fumo e abbiamo smesso tutti e due di mangiare. Le ragazze allora ti schifavano per quell’aria un po’ cenciosa, ti eri fatto i rasta e te ne andavi in giro con lo zaino penzoloni su una spalla che non serviva a niente; era mezzo vuoto e lo è rimasto anche negli anni dopo, quando ci infilavi dentro i libri sfasciati di medicina. Era il periodo in cui suonavi l’hang, quella specie di pentolone d’acciaio cosparso di cavità melodiche, e il suo suono, come il fumo, si spandeva per l’intero organismo di casa mia, la faceva vibrare. 

Di tanto in tanto accadeva che qualcuna si innamorasse di te. Erano quasi sempre fricchettone piene di problemi esistenziali che passavano da casa mia – che poi era anche tua – come folate di vento, affascinate dalla tua intelligenza fumosa ma appuntita e dai tuoi occhi gialli, per poi andarsene tendenzialmente in lacrime accusandoti di non volerti impegnare, oppure di essere innamorato di me, cosa che non è mai stata vera. 

Non che noi due non ci amassimo, per carità. Ci amavamo come si amano un fratello e una sorella, senza il minimo dubbio e senza allusioni. Che poi io non facessi sesso nemmeno con altre persone era un problema mio, magari etimologico. Non aveva niente a che fare con te. Semplicemente, nessuno mi voleva, oppure io non volevo nessuno. Immagino fosse perché avevo un’aria un po’ triste, anche se in realtà non lo ero, o almeno non sempre. Una sera, dopo l’ennesima uscita infruttuosa con un tizio conosciuto al supermercato a cui poi davanti a un pub avevo detto che era meglio non rivederci, mi hai detto che alcune persone nascono con un senso di colpa congenito, irriducibile. «Ci si può sentire in colpa per il solo fatto di essere al mondo» hai detto, e credo stessi parlando di me, di una cosa che avevo da qualche parte dentro e non conoscevo. Non abbiamo mai provato a capire insieme cosa fosse, non ci siamo psicanalizzati né abbiamo tentato con la meditazione, lo yoga, l’ayahuasca, l’ipnosi regressiva. Piuttosto, ogni tanto scherzavamo sul fatto che il destino delle cose stia nel loro nome, tutto qui. Arianna significava casta, lo sapevamo. Una superficie è sempre la superficie di qualcosa e sotto la buccia del mio nome c’ero io, il contenuto di quella castità nominale. Così abbiamo solo continuato a fumare, mangiare cachi e ascoltare musica. Eravamo perlopiù felici, di quella felicità di cui non si ha contezza ma che basta a non far crollare le torri pendenti, per intenderci.

La sera adesso è vuota ma non mi annoio. Accendo, inspiro, espiro e poi da capo. Le stelle non si vedono, ma si vedono le luci gialle delle case sopra i cortili, i bagni, le cucine. Sulla destra sono nate due gemelle, sai? Non fanno che piangere per tutto il tempo e credo che dormano in camera con la nonna, una tipa di una settantina d’anni che si chiama Marta. La vedo uscire sul terrazzo ogni notte, pure se fa freddo. Fuma erba. Si appoggia sulla ringhiera del terrazzo con tutto il peso, soffia fuori e guarda davanti. Se mi vede mi saluta. Vorrei dirle di venire in negozio da me, una volta o l’altra. Potrebbe sciogliersi i capelli e lasciar andare tutto nell’acqua per un po’, ma mi sembra troppo stanca anche per questo. La coppia di fronte invece continua a lasciarsi il venerdì sera e a rimettersi insieme la domenica. Qualche volta saltano, ma solo se vengono amici a trovarli, per carineria. Sarei curiosa di sapere come si chiamano, se rispondono anche loro a una storia, magari uno di quei poemi epici con guerre che durano cent’anni.

Io ho ricominciato a fumare cinque anni fa per tenere compagnia a mio padre. L’erba era l’unica cosa che gli alleviava i dolori del cancro, ma aveva paura a farlo da solo, così mi sedevo accanto al suo letto e condividevo finalmente qualcosa con lui. La verità è che anche io avevo paura a farlo da sola. Dopo che te ne eri andato avevo smesso di colpo. Temevo che abbassando la guardia la nostalgia mi avrebbe ucciso, e infatti mi uccide ogni notte, un terzo di grammo alla volta. Fumo e penso al sistema nervoso centrale, l’ippocampo, il cervelletto, i gangli della base, il midollo spinale, i luoghi che mi hai insegnato. Penso al fumo che mi entra nella bocca e va a cercare questi benedetti recettori, queste serrature da aprire. Poi inizia il gioco del telefono senza fili dentro al corpo e il fumo viaggia, distende muscoli, si trasmette bisbigliando, arriva fino alla costa occidentale di Gran Canaria e si srotola lungo una valle stretta che parte dal mare e si stringe salendo. Si arrampica tra le montagne, nella vegetazione brulla, su fino a una cascata nascosta, verde, che quando piove si ingrossa e cade nel vuoto. Arriva al El Risco, dove vivi tu, nella tua casa che ho visto solo su Google Earth e nelle guide turistiche che ho acquistato, e finalmente si lega alle tue cellule. Fumo e non ti vedo da otto anni. Il limone non significa più niente, i cachi ancora qualcosa solo perché sopra c’è la vita dei merli. Nemmeno il mio nome ha più senso e forse sei scappato proprio per quello.

La castità se l’è presa tuo fratello un giorno in cui è venuto a casa mia a cercarti, ma tu eri a dormire da una ragazza del terzo anno che viveva in collina e io non avevo idea di dove mandarti a cercare. Si è guardato intorno in questo casino di oggetti mezzi miei e mezzi tuoi e gli ha fatto schifo. Ha dieci anni più di te e ha aperto tutte le mie stanze con le mani, senza chiedere il permesso. Era la prima volta che veniva qui. Non ha visto il cuore che hai dipinto sul muro del bagno con delle frecce a indicare ogni parte: aorta, atrio, ventricolo, valvola mitrale. Non ha annusato l’olio di mandorle delle saponette che abbiamo messo a riposare nello stampo, non si è fermato a guardare le due piante fuori dalla finestra, la loro felicità. Ha visto solo una ragazza rachitica e quasi trentenne con gli occhiali, che non si degnava di essere la fidanzata di suo fratello e nemmeno di andarci a letto, però se lo teneva in casa per la maggior parte del tempo, ci guardava insieme i film e mangiava dal suo piatto e questo era strano, puzzava di fregatura, e la vostra famiglia di casini ne aveva avuti già abbastanza con te che ti comportavi come il figlio di nessuno e giocavi a fare il randagio. E poi per cosa, una sciampista? Sciampista. Nella sua bocca suonava peggio di trafficante di organi. Forse c’era qualcosa in questa miseria che ti eccitava, tu che eri nato ricco e te ne vergognavi. O magari c’era qualcos’altro, qualcosa di ancora più contorto. Io non ero mai stata con nessuno, vero? Chiaro. Chi mi avrebbe voluto? Bingo, c’era arrivato. Era questo che ti affascinava: la purezza. D’altronde, mai una volta che ti piacesse qualcosa di normale, qualcosa che piaceva a tutti. Solo cose rotte, per te. Tanto c’era lui a riaggiustarle e le avrebbe aggiustate anche adesso. Zac. 

Arianna è passata alla storia per aver dato il filo rosso a Teseo e averlo fatto uscire incolume dal labirinto del Minotauro. Si parla poco, però, del fatto che Teseo, non molto tempo dopo, l’abbia piantata in asso su un’isola in mezzo all’Egeo. Di sposarla non voleva più sentir parlare. Tu questa parte della storia non me l’hai raccontata, altrimenti sarei arrivata preparata a un abbandono, lo avrei atteso come il resto del mio destino. Oltretutto pare che Arianna e il Minotauro fossero fratellastri, eppure lei lo ha consegnato a Teseo per amore, sapendo che lo avrebbe ucciso. Io invece tuo fratello non ho voluto che lo uccidessi nemmeno quando sei rientrato, quel pomeriggio, e hai scoperto per caso che era metà uomo e metà bestia. Forse se ti avessi lasciato fare senza mettermi in mezzo sarei stata di nuovo Arianna; avrei salvato l’involucro che per te è tanto importante, con dentro la mia storia.

Lassù, al Risco, coltivi erba. Lo fai alla tua maniera: metà professionista, metà alchimista. Scendi al paese due volte a settimana a comprare provviste e per il resto te ne stai lassù, con le mani nella terra e non sui tessuti. I tuoi campi, visti dall’alto del GPS, sembrano disegnati con il righello, sono perfetti. Chissà se i tuoi recettori funzionano ancora o se li hai strinati, ormai. Forse sono stanchi anche loro, rammolliti. Le poche cose che scopro di te me le dice mia madre quando incontra la tua, altrimenti non saprei nemmeno dove vivi, sarei qui sola, senza coordinate. Sei scappato e non ti ho visto più, non ti ho più sentito né ho ricevuto una tua cartolina, una mail. Nessuno sa niente di quel giorno, solo io, tu e tuo fratello, che poi è l’unico a non aver paura di niente, nemmeno di morire di dolore, nemmeno di venire a farsi lavare i capelli da me per ricordarmi chi ha vinto e chi ha perso.  

Io invece ti scrivevo molto, specie nei primi anni. Ti raccontavo dei nostri alberi, se sfiorivano o crescevano, del gatto che avevo chiamato Zymil, come il latte che mi avevi insegnato a bere quando mi era esplosa l’intolleranza al lattosio e che piaceva anche a lui. Ti scrivevo che la superficie è sempre la superficie di qualcosa e sotto la pelle c’ero ancora io, avevo ancora lo stesso significato e avevo bisogno del contrappeso della tua mano per non cadere a terra. Alcuni, ti dicevo, si sentono in colpa senza nemmeno sapere per cosa.  

Oggi tuo fratello è venuto ancora in negozio, ma è successa una cosa. Per qualche ragione Carmelo mi ha fatto uscire dal lavatesta e si è messo a insaponargli i capelli con le sue mani. Da quando lavoro lì non l’ho mai visto fare una cosa del genere, e infatti ricordava a malapena dove teniamo i prodotti. Io allora mi sono occupata della signora con la testa strana perché non sapevo bene cosa fare. Alla fine lui ha pagato lo stesso la mia tariffa e se n’è andato, ma non so se tornerà. Carmelo non gli ha detto niente, però credo che gli abbia tolto qualcosa, un gusto.

Quando è finito il turno e sono rimasta sola con lui ho sentito il desiderio di dire qualcosa, un desiderio nuovo, ma poi sono rimasta zitta. Passavo il Vetril, Carmelo faceva le cose di sempre, fumava e guardava il telefono. A un certo punto ha detto: «Io vorrei veramente conoscere quello che s’è inventato la storia che dobbiamo essere felici per forza. Devi volerti bene, devi lasciar andare, devi perdonare. Ecco. Io vorrei conoscere questo tipo e lo vorrei picchiare. Uno potrà decidere di stare male per quanto tempo gli pare, nella vita, oppure no?», e io allora mi sono avvicinata e l’ho baciato sulla bocca. Ho sentito per la prima volta che profumava di deodorante al sandalo, gel per capelli e vaniglia e ho pensato che avrei dovuto dire grazie. Invece l’ho baciato di nuovo e sono uscita, con lui che sorrideva. Magari adesso sarà in qualche posto con uno dei suoi match a fare l’amore. Lo spero per lui.

Io qui guardo la finestra. I cachi sono tornati, e con loro i merli, che oggi sono più di sempre. Stamattina, per la prima volta, ho dormito a lungo e ho sentito il mio corpo. È un corpo rosa, morbido, abbastanza caldo, asimmetrico come tutti i corpi, ma in modo più evidente nel viso, dove un occhio è un po’ più grande, la bocca più allungata sul lato destro. Dentro si muovono cose vive, il cuore irrora il sangue in ogni angolo, le pupille vedono, i capelli crescono, lo stomaco rumoreggia per la fame. È un buon corpo e mi pare persino agile, adesso, mentre scavalco la finestra come un tempo facevi tu e allungo le gambe per passare da un tetto all’altro, fino alle fronde dell’albero di cachi. Nel tragitto ho staccato una foglia di limone e l’ho annusata, ho sentito il suo profumo di sole. 

Avrei voluto anche io un filo per uscire dal labirinto, o magari un paio, uno per ciascuno di noi. Credo che sarebbe stato sufficiente chiederlo. Bastava dire «dateci un filo, per favore». A quanto pare niente esiste finché non lo pronunci, né un Minotauro né un dolore. Così da tanti anni non posso raggiungerti perché hai dimenticato il mio nome, io non so più dire il tuo. Eppure tra un passo, vedrai, sarò anch’io un uccello, una creatura tutta nuova da battezzare, e verrò fino al Risco per volare sopra i tuoi campi e dirti in segreto chi sono, chi sei. 

Sarò un merlo dei più felici. 


In alto: foto di Antonella Vilardo / Unsplash.

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