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Le spugne di mare sono tra le più longeve specie d’invertebrati. Il loro nome scientifico è poriferi, perché sono formate da pori e canali attraverso cui l’acqua, scorrendo, depone cibo. Al posto dei tessuti, le spugne hanno cellule che rigenerano il proprio corpo in caso di perdita di massa.
Sollevo lo sguardo dall’articolo che sto leggendo verso la figura femminile il cui largo cappello di paglia mi sovrasta in controluce, e che mi ha appena salutato; cerco di proteggermi dal riflesso del mare con il palmo aperto, l’ombra sussulta, ride, e parla ancora.
Michele? Mick Testa Rossa, sei tu? Alzati, fatti vedere, sei tu davvero. Che cosa ci fai qui?

Il primo bagno con Livia lo avevo fatto in uno di quei mari inquieti che la tempesta ha dissodato, dove macerie di schiuma spingono a riva legni ritorti e aghi di pino. Aveva un costume fucsia a frange larghe, la pelle abbronzata, scurissima, con almeno un mese di vantaggio sulla mia, che invece era lattiginosa e spruzzata di efelidi. Dopo essersi tuffata scalciò nella mia direzione, una verticale storta mi fece franare addosso le sue gambe segnate da cicatrici gibbose. Riemergendo mi fissò attraverso gli oblò appannati della maschera e disse: Hai la faccia piena di sabbia. Passai una mano sulla guancia sinistra, poi su quella destra, le onde mi spingevano di nuovo al limitare della battigia. Non è vero, le risposi. Ma sì, fece lei. E me ne lanciò una manciata dritto sul naso. Alla fine del pomeriggio la nonna mi ripescò per il tallone durante una gara d’apnea, Ti sei fatto un’amica, la sentii dire al di sopra dell’asciugamano con cui mi frizionava i capelli. Guardai Livia mentre scrutava l’orizzonte, una mano le ombreggiava la fronte, l’altra poggiata sul fianco impugnava il retino come una spada. Forse, risposi. Mi feci comprare maschera e boccaglio: il giorno dopo Livia aveva promesso di portarmi a caccia di ricci e anemoni di mare.

Non so dire quanti pomeriggi fossero seguiti a quel primo. I piedi si tagliuzzarono nelle spedizioni tra gli scogli, per poi ispessirsi in nuove callosità. Assaporai la metamorfosi animale che da bambino d’asfalto mi mutò in bambino d’alga e di sale sotto gli occhi fondi di Livia, e quelli sornioni dei suoi cugini. Erano tre, due più grandi e uno più piccolo di noi: Raffaele detto il Trippa, che cercavamo di seminare dopo essere stati seminati dai fratelli maggiori a nostra volta. Raffaele era infame oltre che lamentoso, e aveva preso a dire cose false sul conto mio e di Livia, cose d’amore, mentre tra noi da subito si era instaurata un’amichevole gerarchia corsara. Con la bandana storta sull’occhio sinistro e un pugno di posidonia fresca appollaiata sulla spalla come pappagallo, Livia avanzava tra noi con passo azzoppato, imitando l’andatura di Long John Silver, e portava alla bocca ossi di seppia da cui tirava aggressive boccate di fumo. Ogni tanto avvistavamo oggetti degni di conquista – taniche di benzina abbandonate, grovigli di escrescenze marine non meglio identificati, sandali spaiati, salvagenti sgonfi, copertoni – e gridavamo: Yo Ho! Yo Ho! Oppure: Corpo di mille balene! Banchettavamo sugli avanzi delle mareggiate, stillanti catrame, crema solare e guano d’uccello.
Suo zio, il padre dei tre cugini, pescava da solo dietro l’insenatura. Diceva che lì c’era il pesce migliore, oltre alle belle ragazze in topless sulla scogliera vicina, naturalmente. A quella battuta solo il più grande dei figli, Tommaso, ridacchiò, increspando i baffetti appena abbozzati, d’un biondo tiepido. Livia mi aveva raccontato che quell’estate spariva di frequente nella cabina dei pescatori, non voleva essere seguito, e quando riappariva aveva il fiato corto e la faccia più gonfia. A me non m’importa, disse un pomeriggio, basta che continuiamo a giocare insieme. Stava disegnando forme astratte con un bastoncino sulla sabbia bagnata ed era concentratissima.

Lo zio c’invitava spesso a giocare nella cala dove pescava: ci procurava secchielli dove sequestrare granchi, paguri e meduse (che avremmo liberato pieni di sensi di colpa poco dopo, per poi cacciarne di nuovi: ci piaceva il momento dell’avvistamento e della cattura, non la prigionia), e rastrelli con cui perlustrare i confini melmosi tra terraferma e bassa marea. Aveva cominciato a raccontarci anche delle avventure di Achab, il cacciatore di balene: Livia si faceva zitta come non mai e si vedeva che moriva dalla voglia di sapere come andava a finire.
L’acqua quel giorno era immobile, la luce dritta del mezzogiorno sciabolava il fondale: avevamo appena catturato un polpo dai riflessi lividi. Un giorno ti porto a vederlo, Li’, le disse lo zio, liberando le dita dalle ventose. Che cosa?, rispose lei, riprendendo a scavare il fossato che circondava lo scoglio di nostra proprietà. Il Trippa piangeva e batteva i piedi a terra, perché gli avevamo detto che doveva cercarsi un altro scoglio e che su quello mio e di Livia non c’era più spazio. Il relitto, rispose lo zio. Non è come quello distrutto dalla balena bianca, ma è comunque molto, molto grande. Là, disse, mentre indicava svogliatamente un punto vago oltre gli scogli. Poi guardò la nipote con un’intensità trasognata, il mozzicone di sigaretta fiammeggiava tra le labbra socchiuse. Però ti devi fare più grande, disse. Più robusta, perché c’è da nuotare, c’è da andare lontano. Livia si voltò con una faccia che non le avevo ancora mai visto, era una faccia diversa, con gli occhi più stretti e gli zigomi più pronunciati. Guarda che lo sono già grande, gli disse. Allora il Trippa interruppe per un momento i singhiozzi, prese fiato e correndo dal padre gridò con foga che lui il sangue tra le cosce, a Livia, glielo aveva visto, era lei che non lo diceva perché si vergognava, ma ce lo aveva, e macchiava il costume, l’asciugamano, tutte le cose. Livia scattò in piedi gridando: Non è vero, bugiardo schifoso, ti darò in pasto ai pescecani, a te e alla tua stupida lingua da cesso, quando la mano del padre colpì così forte il Trippa da sbilanciarlo di lato, da farlo saltellare una, due, tre volte sul piede. Io mi alzai di scatto perché non avevo mai ricevuto una sberla in vita mia e l’immagine m’impresse uno strano bruciore addosso. Guardai spaesato Livia. Lei rimase immobile senza aggiungere altro, poi riabbassò la bandana sull’occhio, prese il secchiello e si allontanò zoppicando verso la spiaggia. Si voltò un attimo solo per chiamarmi: Ammiraglio Mick Testa Rossa? La seguii. Lo zio parlava ora al figlio, piano ma abbastanza forte da farsi sentire, gli diceva: Vedi Raffaele, alle signorine si porta rispetto, e tua cugina è diventata signorina, queste cose non le devi dire, hai sentito a papà? Hai sentito bene? Voltandomi vidi che ci stava ancora guardando mentre riavvolgeva la canna da pesca, facendomi un saluto appena accennato col capo.

Ho sepolto l’episodio lasciandolo insieme ad altre confusioni alla fine dell’infanzia; ora Livia è davanti a me, e l’immagine riaffiora con una brutalità ingenua. La scena a cui avevo assistito suggeriva come sarebbe proseguita quella storia? Forse no; o forse, negli anni, ho taciuto a me stesso molte più parole di quel che credevo. Guardo questa donna sconosciuta in piedi davanti a me, in attesa, ancora, che io formuli quella domanda, in attesa di cercare, ancora, la stessa risposta che non ci siamo mai dati. Non insieme, almeno. Livia indica un polverone che si alza a pochi metri da noi, due bambine stanno giocando a rincorrersi e in mezzo a loro vortica una palla, non le avevo notate. Sono sporche di terra e i denti risaltano bianchissimi. Più tardi mi libero delle bestie, dice, le lascio ai nonni. Oh, certo, rispondo, sono le tue, dai nonni, sì. Piego un ginocchio, poi l’altro. Livia sorride e le si forma una fossetta sulla guancia sinistra, Senti non so se, magari hai altri impegni, dice, ma potremmo non so, berci qualcosa, verso le sette e mezza se per te va bene?

La guardo, la guardo meglio, ora sono più alto di lei, non oso sbirciarle le ginocchia per vedere se le cicatrici sono al loro posto, osservo il cappello di paglia, così diverso dalla bandana gialla calcata sugli occhi. Il pugno appoggiato sul fianco con fierezza, quello sì, lo riconosco. Sette e mezza, certo, rispondo. È perfetto.

Il pomeriggio in cui Livia sarebbe sparita dietro il promontorio roccioso pinneggiando dietro lo zio, il mare s’era fatto d’un colore cattivo. L’indaco intenso s’increspava in crateri di luce, secondo la geometria complessa che il cielo imprime all’acqua nei cambi di stagione. Era fine agosto, quando sulla costa imperversano i capricci del vento e delle correnti. Lo ricordo così bene perché io, quel pomeriggio, mi rifiutai di seguirli. I cugini erano andati a non so più quale festività insieme alla madre, per cui a scorrazzare lungo la scogliera eravamo solo io e Livia. Stavamo costruendo un fortino con fronde d’albero e pietre laviche quando lo zio s’avvicinò. Aveva riposto la canna da pesca e teneva in mano boccaglio e maschera. Livia si era pasticciata il viso con la sabbia nera fingendo fosse polvere da sparo. Io mi sentii in imbarazzo perché avevo sul petto l’impronta delle sue mani, piccolissime. Allora, lo vuoi vedere il relitto?, le chiese. Livia mi guardò, guardò suo zio, guardò il mare, riguardò me e disse: Vieni anche tu?

Non mi mossi dal fortino. Dissi solo che non mi andava di nuotare così a lungo, non ero abbastanza bravo, il che era vero. Livia prima d’immergersi si voltò ancora una volta verso di me, strizzò gli occhi da dietro la maschera come la prima volta che ci eravamo parlati, urlò qualcosa che io non sentii. Il rumore della risacca trascinava via ogni suono, alzai la mano in un debole saluto, poco piratesco. Lei si tuffò dietro lo zio che l’aspettava, paziente, gli occhi a pelo d’acqua. Rimasi seduto finché non scomparvero alla vista, poi sentii freddo e m’infilai la maglietta.

Non ti facevo un tipo da vino, dice, guardando con sarcasmo il mio bicchiere di rosé. E come mi facevi?, le rispondo io, toccando il bordo del suo boccale di birra in un brindisi impacciato. Da rum, naturalmente. Mentre lo dice il sorriso sulle labbra si stropiccia, s’avvita intorno a un pensiero, appassisce dietro gli occhi che dai miei scivolano in basso, lungo il bordo del tavolino a cui siamo seduti. Naturalmente, ripeto io. Livia…, ma lei m’interrompe, Non mi hai mai scritto in questi anni, dice, perché? Prendo una pausa. Ti ho pensata molto. Ma avevo tante cose per la testa, e poi i miei, te li ricordi, si sono separati. Nonna è morta quello stesso anno, e non sono più sceso. Bambino di città, irrecuperabile, fino ad ora. Fino ad ora, ripete lei.
Ci guardiamo attorno, osservando gli ultimi bagnanti abbandonare la spiaggia a piedi scalzi e quelli che si stanno già recando al ristorante. Il maestrale strattona le persone, i vestiti, i panni stesi ad asciugare. Che cosa fai quindi nella vita, bambino di città? Chimica, rispondo. Analisi di laboratorio. Non mi stupisce neanche un po’, dice. Eri un bambino così noioso prima d’incontrarmi, per forza diventavi scienziato. Tocca a me ridere. Abbastanza vero, sì.
Si è accesa una sigaretta, tira boccate lunghe, profonde: percepisco il fumo vibrarle tra i polmoni. E tu invece? Esploratrice? Cartografa? Educatrice, risponde sbuffando, sottopagata, ma non mi lamento. Scommetto che i bambini stravedono per te. Sì, è così in effetti. Scommetti bene, scienziato.
Mi ha fatto molto male, sai? Riprende a parlare dopo una sorsata, posando il bicchiere. Per come poi è finita, quell’estate. Si massaggia l’anello che porta al dito.
Livia, io non ho… Mi fermo, cercando le parole che non ho mai trovato.
Non ho mai capito se…
Mick.
Si sbilancia con il peso in avanti, schiaccia il mozzicone al centro del portacenere.
Non potevi, davvero.
La cenere sembra sabbia e il vento la disperde.

Quando abbandonai il fortino non erano ancora rientrati. Sentii l’eco della voce di nonna che chiamava, Michele, Michele, per cui afferrai un bastoncino e scrissi sulla sabbia, davanti a quella che doveva essere la porta d’ingresso: Domani mi racconti Capitano!!

Il giorno dopo Livia non si presentò in spiaggia. Non arrivò neppure il pomeriggio, fatto straordinario che mi spinse a strisciare timidamente vicino all’ombrellone della madre, chiedendo di lei. Livia oggi ha male, mi rispose, con la voce impastata dal caldo e dal dialetto, non si è alzata dal letto che non sta bene, ma domani torna, sta’ tranquillo. Mi allontanai, stendendomi poi a leggere Topolino accanto alla nonna, che ne approfittò per spalmarmi la crema ancora una volta. Anche senza la tua amica puoi andare a farti un giro, mi disse. Puoi andare a controllare il fortino, scommetto che le farà piacere. Ma l’idea di ritrovarmi da solo, tra il mare, le rocce e lo zio, mi procurava spiacevoli contrazioni allo stomaco, per cui rimasi l’intera giornata a pancia in giù, leggendo fumetti con la testa incassata tra le spalle.
Quando Livia ricomparve quattro giorni dopo, notai subito che non aveva portato con sé la maschera, la bandana e il retino. Con il cuore che mi batteva forte mi avvicinai, forzando un entusiasmo con cui di solito era lei a contagiarmi. Capitano! Capitano! Lo sguardo di lei, affilato come i cocci di vetro tra la sabbia, la bocca insistentemente chiusa. Un dolore, rotondo, lanciato al centro del petto. Le ginocchia mi cedettero, ed ebbi la sensazione improvvisa di galleggiare sulla terraferma.
Si legò i capelli in alto, disse: Io mi vado a fare un bagno, se vuoi venire vieni. Si avvicinò alla riva, s’immerse poi nuotando a rana, smosse appena appena l’acqua. La seguii con la sensazione di avere sbagliato qualcosa.
Da quella volta cominciò a evitare i cugini, e anche me. Provai più volte a chiederle di riprenderci il fortino, le dissi che avevo trovato una mappa segreta (disegnata da me al tavolo della cucina di nonna la notte prima) che ci avrebbe portati dritti dritti al tesoro. Mentre parlavo mi guardava con fastidio, diceva che ormai l’estate era finita e doveva fare i compiti, oppure ostentava uno sbadiglio dicendo di non scocciarla, aveva le sue cose e voleva solo riposare.
Da dietro il promontorio spiccava sempre la canna da pesca dello zio, sottile come l’antenna di un insetto.
Quando ci salutammo, due settimane dopo, Livia mi consegnò un foglio a quadretti dove con una grafia ingarbugliata aveva segnato il suo indirizzo. Così ci prepariamo per la prossima estate, mi disse, titubante, e anche se mi stava di fronte sentii un vuoto spaventoso alla bocca dello stomaco. Livia era in piedi, davanti a me, e mi mancava. Ci abbracciammo, lei in costume fucsia e io vestito, stavo già regredendo come sotto un incantesimo verso il bambino d’asfalto che ero, i talloni sbucciati stretti nelle scarpe da tennis, la polo con il colletto abbottonato fino in cima. Sei mesi dopo, la nonna morì per un arresto cardiaco. Mi dissero che l’avevano trovata seduta davanti alla finestra aperta: guardava il mare.

Vorrei dire a questa donna sconosciuta che mi dispiace. Mi dispiace averla lasciata sola, non essere andato con lei verso un relitto che non è mai esistito, per custodire un fortino disabitato. Mi dispiace non aver saputo, dopo, immergermi con lei, fino a toccare il fondale con i piedi le mani la pancia e restarci fino a quando non fanno male le orecchie: forse, lì, non ci sarebbe stato bisogno di parlare. Invece ero rimasto a galleggiare, in superficie.
Mi ritrovo a balbettare, ad arrossire, a ripetere solo mi dispiace, Livia, mi dispiace tanto, avrei voluto fare qualcosa per, anche se io non. Allora lei preme la sua mano sopra la mia, la tiene lì e Ammiraglio Mick Testa Rossa, dice, e so che se la guardassi in questo momento avrebbe una benda nera da pirata calata sull’occhio sinistro, e un pappagallo verde seduto sulla spalla, Non ricordi? Il giorno della tua partenza, eravamo al largo e cercavamo di raggiungere la boa rossa. Io ero distratta, nuotavo peggio di te quel giorno, mi sentivo affondare a ogni bracciata. Allora tu sei venuto da me, mi hai raggiunta e hai detto Fa’ come i pesci, sbatti la coda e vattene, la maschera ti si è appannata mentre parlavi, poi sei sparito sott’acqua tornando indietro verso la spiaggia. Io sono rimasta lì. Per un momento ho pregato che una piovra o uno squalo m’afferrasse da sotto e mi trascinasse giù con sé. Poi però ho anche pensato ai pesci, e a come a colpi di pinna riescono quasi sempre a salvarsi, nonostante tutto. Ho nuotato verso riva il più velocemente possibile, ma tua nonna mi ha detto che eri già salito a prepararti, e che i tuoi stavano venendo a prenderti.

Si è fatto più buio intorno a noi. Sono gli ultimi giorni d’estate, quelli in cui la sera diventa notte quasi di nascosto, e i lampioni si accendono in ritardo. No, le dico. Ricordo ogni cosa, ma questo no, non lo ricordavo. Ricambio la stretta della sua mano, sono io ora a tenerla nel palmo della mia. Ma sono felice di avertelo detto. Scoppiamo a ridere in una specie di singhiozzo condiviso, le mani si lasciano, riprendiamo spazio tra noi spingendo lontano le schiene contro le sedie. Respiriamo.

Forse è questo il sollievo che provano i cetacei quando salgono in superficie, penso. Il mare è piccole creste che s’alzano e s’abbassano, vicinissime. In questo momento, da qualche parte lì sotto, le spugne stanno ricreando il proprio corpo. Quando Livia mi propone di fare il bagno, sempre che non sia troppo tardi per uno scienziato noioso come me, le dico di sì, e iniziamo a correre.


Foto di Oliver Sjostrom / Unsplash.

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