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Lo avevo visto da lontano, mentre mi avvicinavo al campo da beach volley. Ci conoscevamo da così tanto tempo che potevo riconoscerlo a distanza, senza gli occhiali – che non portavo mai nonostante i miei occhi non riuscissero bene a mettere a fuoco. Per me Marco era fatto di pochi dettagli: i capelli ricci, gli occhi che piegavano leggermente verso il basso quando sorrideva, la mandibola squadrata, i quadricipiti forti, le mani curate, il naso piccolo e preciso. Ora che ci pensavo, mi rendevo conto che quello era un naso rotto; chissà come o perché, non me lo aveva mai raccontato. “Ci si può ancora baciare?”, gli avevo chiesto allungandogli il braccio oltre la spalla, senza davvero aspettare la sua risposta. “Per me va bene, vedi tu”. Un sorriso. Nessun odore. Ogni cosa era sovrastata dalla sabbia e dal mare. Era invecchiato. Per la prima volta avevo registrato una leggera pinguedine. Non era più nervoso come lo ricordavo, nel corpo. Era più solido. Il cambiamento posturale riverberava nei muscoli del suo viso, nell’ampiezza dello sguardo, come se una mano invisibile lo avesse piegato in avanti accompagnandogli la nuca, riducendo il suo intero campo visivo. Percepivo un’ombra davanti ai suoi occhi chiari. Dicono che è impossibile conoscere davvero qualcuno e a me per iniziare a capire Marco erano serviti vent’anni, due età della vita. Anno dopo anno, le rare volte in cui ci riuscivamo a incontrare – tra le mille promesse non mantenute e irrisolte – avevo raccolto i suoi pezzi come indizi per cercare di rimetterli insieme e comporre un’immagine. Dietro i suoi occhi azzurri, al di là dei cliché, c’era davvero un mondo incastrato nel ghiaccio, un mondo a cui ogni tanto mi permetteva di avvicinarmi. A volte me lo mostrava lui stesso, perché sapeva che non avrei cercato di distruggerlo – l’avrei osservato e basta, con la meraviglia distaccata che si riserva a certi giocattoli minuti, composti a regola d’arte da minuscoli ingranaggi. Non avrei mai dovuto cercare di toccarlo, lo sapevo: si sarebbe rotto. Ma non mi avrebbe mai detto niente di simile apertamente, non ancora. Marco aveva imparato fin da bambino a non scoprire le sue carte. Mentre gli circondavo il collo con il braccio e sentivo il suo respiro contro la guancia lui rimaneva fermo. Qualcosa, molto in profondità, si ritraeva. Era da alcuni anni che non eravamo più stati tanto vicini. “Allora ci vediamo”, avevo detto mentre mi allontanavo lungo la passerella verso il mare. “Sì”. Avevo paura non gli piacesse essere preso alla sprovvista e invece, poco dopo, un suo messaggio mi aveva tranquillizzata. “Scusami, non mi aspettavo di vederti”. Sapevo che non c’eravamo mai salutati in spiaggia, davanti a tutti. Avevamo sempre tenuto segreta la nostra amicizia, senza sapere bene il perché; adesso, però, qualcosa era cambiato.

I genitori di Marco erano molto anziani e molto ricchi. Lui era figlio unico e aveva sempre sentito il peso della condanna alla vita. Pensare di doverli accudire, quando il tempo avrebbe lasciato il suo segno tranquillo ma definitivo anche su di loro, lo spaventava. Lo avevo capito da come rispondeva ogni volta al telefono, quando sua madre lo chiamava di sera; o da come si infastidiva quando il padre, già anziano, si ostinava a fare le sue regate di vela. Il padre di Marco era feroce con lui, gli invidiava la giovinezza, o forse l’amore della moglie. Come se ormai fosse troppo anziano per ricordarsi cosa significasse avere una mamma. Marco, dal canto suo, gli criticava una certa libertà, la capacità di andare incontro al suo desiderio come fosse qualcosa da biasimare, una sconsideratezza. Per far fronte agli attacchi di suo padre, Marco aveva sviluppato un’intelligenza feroce, un nichilismo equilibrato, impegnato a recidere in modo sistematico qualsiasi legame emotivo tra sé e la realtà. Il suo ottimismo serviva solo a consolare gli altri.

Il Lido, fin da quando eravamo bambini, aveva impresso su di noi una malinconia a tratti insopportabile, eppure eravamo sempre ritornati. Ci rendevamo conto che era ridicolo da ammettere, ma in fondo quel posto era rimasto la nostra unica certezza anche da adulti. Lì tutto era sempre stato perduto, dimenticato, spezzato, lì avevamo visto un anno alla volta infrangersi i nostri sogni, e forse per questo ci sentivamo così tranquilli, al sicuro dalle vite in cui eravamo rimasti incastrati. I nostri incontri radi ed estemporanei si erano trasformati col tempo in una sorta di ricorrenza. Certa nell’intenzione, casuale nei modi. Un punto fisso senza pretese, intriso di tempo ammazzato, ferite di famiglia, cose che sarebbero potute andare diversamente – magari meglio, forse anche molto meglio. Io e Marco non avevamo niente di cui lamentarci, ma volevamo comunque scappare, e scappare per noi significava tornare al Lido. Il nostro era un incontro clandestino, tra espatriati. Circondati da persone che non avrebbero potuto comprenderci, perché parlavamo un’altra lingua: segreta, nostra, fatta di esperienze, segreti e ricordi. Se da bambini non ci eravamo potuti mostrare le conchiglie trovate sul bagnasciuga e i quaderni dei compiti delle vacanze, ora ci scambiavamo gli aneddoti che il caso ci aveva offerto nel corso dei mesi, e tutto diventava racconto perché il mare accoglieva ogni cosa, perché era un mare qualsiasi, né bello né brutto, senza alcuna caratteristica memorabile, e per questo ideale, assoluto.

Era una notte fredda e non mi ero vestita abbastanza, non mi ricordavo più quanto potesse essere umido il vento sull’Adriatico dopo ferragosto. Marco aveva portato due birre ma non aveva l’apribottiglie e non riusciva più a stapparle sul bordo del lettino, come faceva sempre quando eravamo all’università – anzi, quando io ero in quinta liceo e lui stava per laurearsi. Era stanco. Stanco e in ritardo. Era stato sgarbato, sembrava non volesse essere lì con me. Sembrava volesse dimostrarmi qualcosa. Di avere un’intelligenza brillante, di piacere alle donne e di essere simpatico, ma soprattutto di aver capito il mondo. Quello che aveva capito, però, andava nella direzione opposta alle decisioni che avevo preso io negli ultimi anni, come ad esempio fare un figlio, Tobia. Ne avevamo parlato e volendolo o no mi aveva fatta sentire stupida. Per la prima volta da anni mi era sembrato del tutto separato da me, quasi un estraneo. Glielo avevo detto, e per farsi perdonare mi aveva chiesto di rivederci il giorno dopo. E quello ancora dopo, pomeriggio e sera. E quello dopo, ancora. Era tornato quello di sempre e un minuto alla volta lo avevo raggiunto.

Attraverso le sue iridi mi sembrava di osservare il fondo sassoso di una cala; altre volte, invece, mi sembravano composte da tante schegge d’acqua cristallizzata in mille gradazioni diverse, che per impazienza non avrei saputo definire – azzurro molto chiaro, a volte quasi bianco. Non ricordavo di averlo mai guardato così tanto e così a lungo, come se cercassi di scavarci dentro, attraversarlo per prendermi qualcosa. Anche se eravamo amici da sempre avevo la sensazione che non ci fossimo mai guardati davvero, come se non fossimo mai stati l’uno di fronte all’altra, e in quel momento avrei voluto saccheggiarlo, portarmi via qualcosa di incondivisibile e fondamentale. Di solito quel modo di guardare gli uomini tendeva ad allontanarli da me, a farli sentire troppo esposti, mentre Marco restava lì, senza alcuna forma di paura. Quando in macchina, davanti a casa, mi aveva detto che l’unico momento in cui si sentiva davvero felice era quando girava il pomello della porta per chiudersi nel suo appartamento, lo avevo baciato.

L’ultima sera eravamo finiti in una sala giochi deserta. Troppo distratti per scegliere qualsiasi cosa, finivamo dove capitava, parlando, fermandoci di tanto in tanto lungo la strada per baciarci. Pioveva. Il giorno dopo Marco sarebbe tornato a Verona e io e Tobia a Torino. Gli avevo chiesto se il mese dopo sarebbe venuto a trovarmi per una replica del mio spettacolo. Marco aveva sorriso e aveva guardato in basso, come ogni volta che mentiva: “Perché no!”. Avevamo bevuto un ultimo gin tonic, poi lo avevo lasciato andare via da solo; non avevo voglia di tornare a casa, anche se ormai era troppo tardi e avevo sonno. Le grandi gocce d’acqua che si abbattevano al suolo attraversavano le chiome dei pini marittimi, quasi a piegarle, come scure nuvole verdi. All’interno della sala giochi, appoggiata al flipper, sentivo una qualche forma di pace, la stessa che mi aveva dato la bocca di Marco in quei giorni. Era sembrato tutto così giusto, finché lui non si era allontanato sotto la pioggia, diventando sempre più piccolo fino a scomparire. Le facce dei personaggi delle giostre per i bambini avevano un’aria grottesca. I loro sorrisi sgargianti, colpiti dalla luce al neon, erano macabri, fissi, non guardavano da nessuna parte. Nemmeno loro mi vedevano. La notte mi sarebbe passata addosso e domani ci sarebbe stata la sabbia dura e battuta, grigia. Il cielo, attraversato dalle nubi e dalla luce che segue i lunghi pianti, mi sarebbe stato insopportabile. Forse sarebbe andata così, o forse no. Verso ora di pranzo Marco sarebbe apparso in spiaggia, come al solito. Avrebbe raggiunto l’ombrellone dei suoi amici e, cercandomi con lo sguardo, mi avrebbe fatto un cenno di saluto, come tra due uomini che si incontrano da opposte direzioni su un sentiero in alta montagna. Marco aveva avuto un sacco di occasioni e le aveva lasciate andare tutte, una dopo l’altra. Ma forse per lui assomigliavano a delle trappole. Il temporale aveva fatto saltare la linea elettrica che alimentava i lampioni e seguiva la ferrovia. Le strade della costa, quella sera, erano più buie del solito. Mentre guidava Marco ascoltava sempre compilation degli Smiths. Le teneva nella sua vecchia macchina, la stessa che tutti quelli che lo conoscevano gli dicevano di rottamare, perché sapevano che ormai poteva permettersene una nuova, molto più bella e sicura. Mi sembrava fosse stato bene con me, più che bene; avevo la presunzione di credere si fosse sentito al sicuro, ma in realtà ero io quella che si sentiva al sicuro insieme a lui. Forse era solo molto più stanco di quanto non mi fosse mai sembrato, o forse, per quanto mi sembrasse assurdo, la nostra idea di felicità non combaciava, non rientrava neanche lontanamente tra le tante cose che avevamo in comune. Per stare bene, Marco doveva stare solo.


Foto di Mehdi Messrro / Unsplash.

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