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Non mi abituerò mai: entro col mio mazzo di chiavi e la casa è allagata, vorrei salvare qualcosa ma cose non ce ne sono. Allora trascino i piedi dentro la palude e le scarpe si riempiono, si inzuppano i calzini.
Oggi ho la stessa sensazione anche senz’acqua come in un sogno ricorrente. È stata nel Verso per ore. Si toglie il casco e si getta sfinita sul letto giapponese che assieme all’armadio è uno dei pochi arredi del bilocale. «Sembra il motel di un assassino» le faccio e sorride, facendo con l’indice vieni qui. Fossi in lei mi annoierei a morte, tutto il giorno là dentro. Ci lavora come designer d’interni, contratto da stagista, anche se tra di loro si chiamano Architetti. Non mi avvicino, l’aspetto in piedi con in mano una tazza di camomilla. Quindi si tira su chiedendomi da quant’è che la busta è in infusione. Ha una teoria su questo: superati i cinque minuti l’effetto si inverte. Cioè non è che diminuisce, o cambia, si inverte. Allora mi sto zitto e controllo il timer sul telefono.  
La casa non ha porte e quindi la osservo mentre si lega i capelli con lo spazzolino in bocca. Specchio, lavandino, cesso, bidet, piano doccia. «Hai tolto il mobiletto ad angolo?» Chiedo. «Not auoued» fa, con il dentifricio schiumato. La casa è allagata perché lo vuole l’azienda. Seduti a terra con una Peroni in due e bicchieri di carta, undici mesi fa: «senti qua, “Linee guida per architetti virtuali”» sul display del telefono, «la casa ideale è svuotata di tutto come la mente dell’A. La sua immaginazione deve essere incondizionata». Una stanza di Motel eccetera per la prima volta, facendo cincin, sembrava felice. E poi, con tono cupo, qualche giorno dopo: «alle volte mi sveglio e vorrei tornarci, nel Verso, quando questo (toccava il pavimento) non mi riscalda i piedi».
La camomilla ancora bampa e non ho dove poggiarla. Mi fa di metterla pure a terra. Io eseguo e vado a letto, svestendomi e indossando la maglietta e i pantaloncini che la settimana prima avevo lasciato sotto il cuscino. Mi sdraio sopra le lenzuola e tengo in equilibrio la mia tisana alla canapa sul bordo del letto. Mi richiede entrando notizie dal mondo ma non ne ho. Non ha i giramenti: è quasi mattina, è l’alba, il sole è alto da dietro le grate alle finestre e l’ombra a scacchiera ora è sul letto, dall’armadio. Le prime volte così a lungo nel Verso ne usciva con una sensazione come quando ci si sveglia dopo un sonno di pomeriggio. E faticava ad addormentarsi, i pensieri le correvano di fronte agli occhi, li sentiva fisicamente sulle palpebre come dita. Ripeteva questo: «come dita». La mattina provava nausea e disorientamento, dopo qualche tempo ha cominciato a ripetermi dipendesse dal fatto che non ha confini.
Ogni volta che le chiedevo spiegazioni rispondeva a memoria, con un sorrisetto: «le possibilità attive dell’A. non hanno confini, infatti nel Verso i confini non esistono» e poi: «il paesaggio esteriore è lo specchio di quello interiore». Non capivo, cercavo di farla parlare. Dopo qualche tempo mi ha dato in mano il casco, facendo: «tiè», così «è più semplice». Lo rigiravo tra le mani con diffidenza, tastando i cuscinetti attorno alle orecchie e agli zigomi. Mi sono seduto sul suo cuscino da lavoro, a gambe incrociate, lei ha poggiato di fronte a me un bicchiere con una pastiglia effervescente. Ho impostato un timer di cinque minuti. Mi raccomando, «quando senti la sveglia rimuovi il casco e bevi un lungo sorso» e ridendo: «camomilla mia».

Del resto ho perso il treno da tempo, decidendo di rimanere in Città. «Che deve morire», mi diceva Emma al telefono, «sotto le bombe» facendomi il verso. Io scuotevo la testa perché lei non mi vedesse, «rasa al suolo».
Sì, radere al suolo la città, ricostruirla dalle fondamenta. «Ma cosa dici? Sei ironica, ma non capisci?» chiedevo. «Io devo rimanere, ho un compito qui, qualcuno deve pure portarti notizie dal mondo». Dal balcone vedevo tre ciminiere buttare un fumo grigio, anche di notte e le chiedevo, continuamente: «stai fumando?» Non rispondendo significava sì ed era notte. Capisci che io non posso andare via?

Cosa avrei dovuto dirle dal balcone o molto più tardi sul cuscino mentre bevevo un sorso dell’acqua pasticcata. Non riesco a continuare, forse. Più semplicemente: «non riesco». Lei mi fa: visto? E sorridendo mi tira via il casco dalle mani e lo poggia sulla console.         
«Mi ha fatto strano» le dico e lei Dici? con le sopracciglia.           
«Sì, a parte cosa dovevo fare».  
«Te l’ho detto, quello che vuoi», si alza in piedi, «Tipo?» 
«Tipo non lo so, camminare».    
«E ho camminato, l’ho fatto e non sapevo verso dove». Bravo. «Bravo cosa», stropicciandomi gli occhi?
«È quello il punto» taglia.

Usciamo per un caffè. Le tengo il portone pesante e all’esterno c’è la solita polvere e le solite biciclette llatriate. Macchine che non fanno rumore, innaturali. È un viale alberato da poco, piante basse e recintate con spago sottile. Andiamo nella direzione dell’Azienda, si vede tra i palazzi liberty al centro della prospettiva, al punto di fuga, una struttura maestosa in vetro trasparente. Mi stringe la mano perché al primo incrocio compare la prima camionetta. Una donna in divisa militare fuma l’elettronica, il collega è all’interno seduto a girare del tabacco. Rispondo alla sua stretta accarezzandole il palmo col pollice, sorride per il solletico e mi dice: «non esco se non ci sei tu». Le dico non è vero. So che non è vero ma c’è uscire e uscire, essere sereni. Al cambio di luce di mezzogiorno le vengono gli occhi verdi come l’insegna al neon del Caffè Rio nella parte esterna della corona. Così accelero per entrare, lei rimane ferma un secondo sull’uscio. «Un secondo», dammi un altro secondo, tira un respiro e mi raggiunge, sono già seduto.

Ordina un cappuccino, io un espresso, più due cornetti vuoti. A quest’ora, con l’aumento della temperatura, comincia ad alzarsi la polvere dagli infissi, sembra che fumino. «Così così», mi risponde. «Non è che mi diventi come Inception», le faccio, mentre si toglie la mascherina. Lei mi sorride, dice: «no», e la sua voce non è più ovattata. Cerca di afferrarmi la mano ma la ritraggo, istintivamente, per il sudore, colpisco la piantina grassa al centro del tavolo. «Pensavo fosse finta», così va per toccare la terra umidiccia che si è riversata sul tavolo. Viene il cameriere per darci il foglietto che riepiloga l’ordine e dice che tornerà subito a pulire. Lei dice «no, lascia pure.»

Siamo rientrati a casa poco prima di mezzogiorno, lasciando cadere le chiavi a terra perché non c’è uno svuotatasche, e sopra le chiavi butto il cappotto. Effettivamente potrei prenderne uno, fa. Poi, notando la mia fretta, mi chiede: «che hai?» Il caffè, dico. «Ah il caffè», sorride. Allora scatto e lei: «tipo questo, questo sì che è un gioco a perdere. Nel Verso non ho un capospalla, non ce l’ho, non mi serve e il capospalla serve sempre, non devo buttarlo in terra né appenderlo» e anche «nel verso i Caffè sembrano aule professori, poi».
«Ah, vero!» dico, pensando a quella volta che mettendomi un visore mi fa di venire, di riprovare. E mi trovo dentro una bolla, sono disorientato, c’è anche lei il suo avatar verosimile come di plastilina, sento un formicolio alle estremità, le dita i piedi. «Tieni, hai bisogno di qualcosa di familiare», un fuoco prospettico, porgendomi in mano un bicchiere di plastica che dal vapore dovrebbe dare l’impressione di essere caldo.
«Quando il fumo finisce sai che sono passati cinque minuti», e mi fa fare il tour.          
Il bagno senza porta s’affaccia sull’entrata, lei va in camera, continuando a blaterare. Io faccio sì con la testa e ogni tanto verbalizzo, «sì», mentre guardo il cellulare che mi tira via. «Ma non hai tolto il cappotto?» le chiedo ma non risponde. Alzo la testa ed è lì lì per uscire. «Ma…», faccio e la porta si richiude. Concludo in fretta la conferenza e vado a cercarla.       

«Ti sembra normale?» L’ho persa, sono tornato in casa ad aspettarla e ora rientra come nulla fosse, la sento dalle chiavi nella serratura. Sta architettando qualcosa perché trascina i movimenti, l’aspetto a letto.
«Ma cosa?» con voce distante. «Sono uscita un attimo, sarò libera di farlo».
Non so: ora si sta truccando, la donna allo specchio sembra un mimo. «Hai un appuntamento?» con ironia, tenendole i capelli che ha dimenticato di legare.   «No», mi fa disinteressata. Così mi allontano, vado in camera. In mezzo alla stanza, tra il letto e il tappeto con la piattaforma virtuale c’è un tavolino vintage, del Duemila o giù di lì, su un tappeto Ikea monocromo. Fisso la sansevieria che c’è sopra, sull’etichetta c’è scritto che è della famiglia delle dracene, che purifica l’aria assorbendo le polveri sottili. È ancora dentro la busta biodegradabile, schiacciata.
«Purifica l’aria», dice, comparendo dietro di me.     
«È una cosa tipo la camomilla?» le chiedo.    
«Nono».         
«Come nono, qual è la bugia?»  
Non risponde. «Tutto bene?»     
Sìsì con la testa, mentre si passa il lucidalabbra: «sto pensando», si gira e mi abbraccia il busto fin dove arriva.
«Nel Verso non c’è freddo, non dovresti muovere i piedi come fai».    
«Non ho freddo», dico, «ho i brividi». E quindi, come un’intuizione: «notizie dal mondo! Sai», le faccio, «hanno scoperto una riserva infinita per sfamare l’Africa». E lei mh, mentre si poggia sulle palpebre dei dischetti cotonati imbevuti di camomilla. «Non ci crederai, è al pollo sud».          
Si tira su di netto, fa parte del gioco, gli cadono le monete dagli occhi. Non sorride ma va bene, va bene mi dico.     
Sì, deve per le undici, un po’ più tardi. «Io parto presto, comincio prima a scuola».           
«Ok», sospira, «dovrò rifare la cucina, domani. Mettere un bel tavolo, magari semitrasparente. Sedie di design, un bell’orologio da parete». «Allagheresti comunque la casa», le faccio.     
Lei continua: «mettere le porte, montare una libreria, potresti aiutarmi». Sono confuso, glielo faccio capire, «cosa è cambiato?».   
Dice: «un caminetto o una stufa a caminetto, che tra un mese verrà un po’ di freddo, finalmente, verrà l’inverno»… «Tempo», riprende, «Ci sarà tempo dal calore del forno, o dal rumore in sottofondo del frigo».
«Vuoi che rimanga?» Le chiedo. Lei risponde: Dove? 


Foto © Charlota Blunarova / Unsplash.

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