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Erano seduti sulla panchetta a strisce gialle e rosse, sotto i platani nudi, e il viale del giardino si allungava dinanzi, allagato dal sole, tra due file di statue sulle basi delle quali l’edera si abbarbicava. In fondo, la montagna tutta candida di neve, come una campana di zucchero. Uno era piccolo, giallognolo, con un collare di barba bianchissima; teneva una fascia di lana sulle spalle e le mani appoggiate al pomo d’avorio antico di un grosso bastone. L’altro era robusto, rosso nel viso tutto sbarbato e liscio malgrado l’età: il colletto della camicia si abbatteva sul bavero della giacca di panno grossolano, mostrando a nudo il collo bronzino. In mezzo a loro, due soldati che parlavano in dialetto. Il grande vecchio gettava di tanto in tanto delle occhiate timidamente curiose, esaminando le ghette di tela che ricoprivano gli scarponi, i pantaloni filettati di rosso, le stelline del bavero, la sciabola-baionetta… Dall’altro lato, il piccolo vecchio, si passava a momenti una mano sulla bocca, tossiva, si guardava intorno, come preparandosi a dire qualche cosa e non sapendosi decidere.

Rannicchiatosi meglio nel suo angolo, chiese finalmente:

«Lor signori sono continentali?»

I soldati continuavano a parlare, come non fosse.

Dopo un poco, egli tossì di nuovo, più forte, e riprese:

«Di che paese sono lor signori?»

«Mi sun mudnes» rispose il soldato che gli stava vicino, e riattaccò discorso col suo compagno. Il vecchio parve meditare un poco quella risposta; cavò di tasca un fazzoletto a scacchi rossi e neri; si soffiò il naso scuotendo il capo, rimise in tasca il fazzoletto dopo averlo piegato accuratamente, e ripigliò:

«Quanto hanno ancora da stare sotto l’armi?».

Il soldato chiese, bruscamente:

«Cuss l’ha dit?».

«Dico, se tornano a casa presto?»

«Minga adess!» e si mise a ridere.

L’altro vecchio stava a sentire, guardando discretamente.

Pel viale, a quando a quando, una carrozza sfilava, al passo; dei ragazzi si rincorrevano, sotto gli occhi delle governanti. Come i soldati si alzarono, una balia venne a prendere il posto nuovo. Il bambino girava intorno gli occhi senza sguardo, col braccio disteso annaspando.

Il piccolo vecchio riprese ad armeggiare, cercando di attaccar discorso. Sorrise al piccolino e gli mise sotto il naso il manico d’avorio del suo bastone. «Bellino!… Bellino!… Come si chiama?»

Quello fece una smorfia e scoppiò in pianto.

«La ninna, Ninì; bello Ninì…» ripeteva la balia, sballottandolo.

«La ninna di mamma tua…»

Ma come il vecchietto gli mostrava ancora il pomo d’avorio, il bambino ripigliava a piangere. Della gente si fermava; due seminaristi che si tenevano per mano ridevano.
Esaurito ogni tentativo, la balia andò via. I pretini sedettero al posto lasciato vuoto. Si cavarono entrambi i tricorni, posandoli sulle ginocchia, e avvicinate le teste tonsurate, cominciarono a parlottare.

Il vecchietto esclamò:

«Bel tempo!…». Poi, rivolgendosi ai seminaristi: «Avete la passeggiata tutti i giorni?».

«Tre volte la settimana» e non gli dettero più retta. Allora egli si mise a scavare la terra con la punta del bastone, masticando a vuoto; e come i pretini se ne andarono via anch’essi, tenendosi sempre per mano, egli si trascinò lentamente, senza alzarsi, verso il grande vecchio, in modo che nessuno potesse sedersi più in mezzo. Arrestandosi a fianco del vicino, guardò per aria e disse:

«Bella giornata!».

L’altro rispose, con tono di deferenza:

«Bellissima giornata, sissignore!».

«La neve è a Nicolosi» e additava la montagna. «Nicolosi è qua; lì c’è Trecastagne… Dall’altra parte, se uno scavalca il Mongibello, trova Bronte. Ci siete stato a Bronte?»

«Io, nossignore.»

«Io ci sono stato molto tempo, dopo il sessanta, un affare di ventisei anni addietro… misuratore del catasto, che non era una cosa liscia… Bisogna sapere, già, prima di tutto, che coi Brontesi non si scherza… a segno, che successero i fatti del sessantuno…» Fece una piccola pausa, aspettando di essere interrogato; come l’altro lo guardava rispettosamente, pendendo dalle sue labbra, riprese:

«Io glie l’avevo detto, in Casino, ai signori, proprietari, civili, che il popolo non mi andava, e guadagnava la mano ogni giorno di più. A chi dicevo, a questo bastone?… Avevano il capo alla politica, che doveva arrivar Garibaldi, e i borbonici se ne stavano rintanati nelle loro campagne. Ma badate che la mala gente va attorno!… Che tiene consiglio nella taverna di Piede di Banco!… Che un giorno o l’altro non potremo più scendere nelle vie!…».

«Giustamente!…» approvava l’altro, chinando il capo.

Il vecchietto si crogiolava dentro il soprabito, si adattava meglio la fascia al collo, si tirava le maniche sulle punte delle dita e riprendeva:

«A chi dicevo, a questo bastone? Niente!… Invece, davano loro fucili, polvere e palle, col pretesto della rivoluzione; come se non fossero bastati i temperini lunghi così, che ognuno di quegli amici portava alla cintura!… Ma tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe! E lascia fare oggi, e lascia fare domani, finì col sacco e fuoco…».

«Madonna del Carmine!»

«Il pretesto erano le tasse, che l’annata era stata cattiva e l’esattore succhiava il sangue della povera gente. Ma la vera tassa era la vendetta, e il denaro del prossimo. Voi mi avete fatto un torto? Io venivo a casa vostra, a farmi giustizia con le mie mani, sfondando, bruciando, ammazzando…»

«Ma i civili, niente?…» chiese l’altro, passandosi una mano sul mento.

«I civili?… Volevano scendere in piazza: non mandarono a chiamare anche me? Fossi stato pazzo! Quando lo dicevo io, che si poteva mettere un riparo senza ammazzare una mosca, nossignore: Questa è polvere! Questi son quattrini… Abbasso Francesco!… Ora che il popolo si scatenava contro i cappelli, bisognava andare incontro a morte sicura; che prima di scendere in istrada dovevate confessarvi e comunicarvi!… Com’erano curiosi! Pelle una ne abbiamo, e pelle per pelle, sapete come si dice, meglio la tua che la mia!…»

«Eccellente!… dice bene vossignoria!…»

«Se dico bene! Dio ci liberi a furore populi!…»

Allora il vecchietto si mise a sentenziare, con un’aria di beatitudine, alzando un dito per aria: «Il popolo è come una bestia di cavallo, generoso, che si fa caricare come un asino, ma guai a toccargli la coda. Così sentite i giornali pigliarsela col governo, perché intasca le tasse. Io vorrei dir loro: O bestie, se pagate le tasse non avete il gas, e ferrovie e le scuole gratis?».

«Sissignore! Tal’e quale!»

Il grande vecchio approvava sempre, deferentemente, tutti gli argomenti dell’altro che citava la gazzetta e vantava la propria esperienza.

«Io ne ho visto di tutti i colori, e mi fanno ridere, quando dicono!… Questi che adesso vedete consiglieri e commendatori, prima erano borbonici più di Satriano. E non parliamo di chi mise fuori una bandiera al 48 o al 60! Invece chi ha fatto il suo dovere!…»

Com’egli si fermò un momento, piegando il capo a destra e a sinistra, l’altro che si grattava un orecchio volendo parlare anche lui e non osandolo interrompere disse:

«Anch’io ho vista la rivoluzione».

«Sì? O quando?»

«A Leonforte, nel quarantotto… Ecco qua: io ero a Caltanissetta, col mio padrone, l’intendente Ramondino, il prefetto di quei tempi. Un giorno, arriva un galantuomo da Leonforte, in carrozza, con una bandiera a tre colori; ma non diceva niente. La popolazione, come le mosche. Che si fa, che non si fa, l’intendente lo manda in fondo a un carcere… Tutt’in una volta arrivano quelli di Palermo: Se gli torcete un capello, qui non resta pietra su pietra; ci sono ventimila palermitani pronti a marciare! Voci, grida: Viva Palermo; e il galantuomo è liberato, che mentre si parlava di morte, festa e quarantore! L’intendete, visto come si mettono le cose, mi chiama e dice: “Calogero, io son padre di famiglia“ dice, “e me ne vado a Napoli: tu fai quel che ti piace: ma se vuoi venirtene a Napoli, ti raccomando di portarmi la roba…“. Allora, c’era la bella gioventù, e la gioventù non conosce pericoli. Nientedimeno, me ne andai dal mio padrigno che era una bestia, senz’anima, più di me. Dico: “Il padrone vuole che gli porti la roba a Napoli; che cosa debbo fare?”. “Portarla“, dice; “il padrone è un brav’uomo, tu sei giovane“; poi, dice, “carcere, malattia, necessità, si conosce l’amnistà. Sia fatta la volontà di Dio; metto la roba in tredici carri, e lo!“ Basta, come Dio vuole, cinque nobili, gran signori, cacciatori, mi mettono in mezzo, per accompagnarmi a due miglia fuori il paese; una folla, gran quantità di torce, fucili e pistole, le donne alle finestre: l’inferno! Il cavaliere mi tira per il soprabito e ci perdiamo in mezzo alla gente. Cammina, cammina, entriamo in una farmacia; il cavaliere mi raccomanda allo speziale e se ne va. Resto tre giorni chiuso; al terzo giorno, so che la roba è partita per Troina. Scappo, di notte; raggiungo la roba e la carrozza con la serva, e arrivo a Troina. Appena arrivo, viene uno, armato come un porcospino, e domanda: Che roba è questa? Quella bestia della donna non risponde: È la roba dell’intendente? Come se fossero tempi! Ma quello, vedendomi tramutato in faccia, dice: “Denari ve ne trovate?”.»

«Meglio!» e il vecchietto strizzava un occhio, con aria d’intelligenza. Adesso anche il giardiniere si era avvicinato, e tutti restavano in ascolto come dinanzi al cantastorie della marina.

«Meglio difatti! Mi restavano, di denari, trent’onze, delle cinquanta che mi aveva consegnato il padrone; ne do dieci: “Bastano dieci onze?”. Dice: “Vedremo quel che si può fare“. E mi nasconde in un magazzino. Torna un giorno dopo: “Bisogna aspettare“, dice; “denari che ne avete ancora?“… A farla corta, tutte le trent’onze se ne vanno, a poco a poco. Allora faccio una pensata, di scrivere al padrone… Che padrone e padrone! Il povero signore era scappato, di nascosto, fino a Trapani; si era chiuso, lui, sua moglie e i bambini, dentro la stiva di un bastimento francese, ed era partito per Marsiglia…»

«Oh che storia! Che storia!» esclamò l’altro, ricavando di tasca il suo fazzoletto e portandoselo al naso.

«Aspetti, ancora non è niente! Arrivo, con la grazia di Dio, a Messina. Senza danari come si fa? Vendo la carrozza, che era costata trecent’onze… bisognava vederla! La vendo per quarant’onze, a Litteri, dirimpetto l’ospedale. Vendo un asino, di tredici onze, per quaranta tarì…»

Il vecchietto era rimasto col naso fra le dita e il fazzoletto pendente, immobile nella stupefazione.

«E mi imbarco con tutta la roba. Da Messina, il bastimento fa cinque miglia e torna indietro. Una tempesta dell’inferno, che le budella uscivano di bocca. Stiamo la carrozza con la serva che fanno quattordici, e me ne vado per CastroGiovanni. Arrivo a Leonforte. La piazza, piena come un uovo, e appena mi vedono: Questa è roba dell’intendente; diamola al fuoco! viene uno e m’afferra pel colletto: “Tu ora vai fucilato!“.»

Il narratore s’era alzato, facendo il segno, con le braccia un po’ tremanti, di sparare un fucile; l’altro, ammutolito, spingeva gli occhietti curiosi sul compagno ancora imponente malgrado la curvatura dell’età. «Immaginate un po’ che spavento!»

«Cose viste con quest’occhi; non racconto favole! Dunque, Beppe Franco, non so se vossignoria l’ha sentito nominare, un pezzo di giovanotto alto così, punta il fucile e dice: “Carogna, sei morto!…“. Frattanto, diciamo che il padrone, prima di partire, mi aveva consigliato: Fatti una coccarda coi tre colori; se mai, ti potrà servire. Io avevo fatto la coccarda, e la tenevo sotto il ferraiolo, che non si vedeva. Allora, come Beppe Franco fa per sparare, io apro il ferraiolo e mostro i tre colori… Se no, ero spacciato! Ma andiamo che la popolazione gridava sempre: A morte!… Fucilato!… e i carrettieri che tremavano come foglie! Viene quello, e dice: “Consegniamolo al comitato!“. Mi tirano al comitato, che appena entriamo il portone si chiude dietro. Chi parla di qua, chi parla di là, e non si sapeva di che morte dovessi morire. Al comitato, c’era il cavaliere, il cavaliere San Vincenzo; e come mi vede, che ero stato anche al suo servizio, viene a dirmi: “Chi diavolo ti porta qui?“ Io gli racconto tutta la storia, che venivo con la roba di Ramondino, e non sapevo niente. Frattanto il presidente mi domanda: “Di che paese siete?“ Io dico: “Eccellenza, sono di Girgenti“. Voleste vedere? Il cavaliere mi butta le braccia al collo: “È di Girgenti! Il primo paese che si è ribellato! Viva Girgenti! Viva la libertà!…“. E così il mio paese porco mi salva la vita…»

«Oh! Oh! Oh!»

Il vecchietto si dimenava sulla panchetta dal piacere, dalla meraviglia. Un piccolo cerinaro si era fermato lì innanzi e stava anch’egli a sentire.

«Allora il comitato dice: Facciamolo accompagnare a due miglia di via e se ne vada dove gli piace. Prima, vogliono le chiavi delle casse per vedere se c’era niente. Io dico: “Le chiavi non ve le posso dare per la ragione”, dico, “che le ha il padrone”. Un altro caso del diavolo due giorni a Messina, e mettiamo una settimana per arrivare a Napoli. A Napoli arrivo il 14 maggio, giusto in punto per vedere il 15. Vossignoria sa che cosa fu il 15 maggio?»

«Sicuro, sicuro!» ma il misuratore del catasto non levava gli occhi dal vicino, aspettando curiosamente.

«Il 15 maggio era tutta Napoli in fuoco, con la rivoluzione che pigliava piede, e la truppa sotto l’armi: reggimenti della guardia, reggimenti svizzeri, battaglioni cacciatori; che il giovane del caffè Benvenuti si metteva ogni giorno alla finestra, col fucile, per sparare addosso a Ferdinando, se si affacciava. Io ero dai parenti del padrone, che stavano chiusi in casa, dalla paura; ma, quanto a me, potevo andare dove mi piaceva, che i siciliani erano trattati come signori. Quarantamila siciliani c’erano in Napoli, e quelli che non trovavano alloggio se li prendevano nelle case, a tre e a quattro per volta, come fratelli, viva la libertà! Ma se i realisti vincono, mi dicevano i parenti del padrone, tu vai fucilato! Ora, la notte del quattordici, vennero a picchiare all’uscio, cercando legname per barricate: vossignoria, conosce, la strada murata…»

«So bene, so bene; per sparare al sicuro…»

«Giustappunto. Allora, fatte le barricate, la mattina alle undici e un quarto prima di mezzogiorno cominciò il fuoco. Sa com’era il fuoco? Ha sentito i mortaretti, per Sant’Agata? Più forte, e fino alle cinque di sera, senza cessare un momento. Il comandante di Sant’Elmo – che la famiglia reale, se perdeva, doveva calarsi nei trabocchetti – aveva l’ordine di tirare cannonate sopra Napoli, che è tutta di sotto, come la palma di una mano; ma bisogna esserci stato, per averne un’idea… Il comandante, invece, tirò tre sole cannonate, a polvere. Ma fino alle cinque, i realisti perdevano. Alle cinque vengono fuori il primo e il quarto reggimento svizzero; e, Madonna del Carmine! Succede una carneficina; case sfondate, bruciate; uomini, donne e bambini: un macello, che nella notte Ferdinando fece nascondere tutti i morti, per non farli contare…»

«Lo credo bene!»

«Ma se non erano il primo e il quarto reggimento svizzero, glie ne toccavano di quelle da dirle al medico. Il secondo e il terzo reggimento erano pronti a venir fuori, ma non ce ne fu bisogno… Andiamo intanto che in casa non c’era né pane né acqua, e la signorina era ammalata! Viene sua madre e si butta alle mie ginocchia: “Calogero, bisogna che tu vada a comprar la medicina!…”. Vado fuori, a Dio la sorte, e trovo uno speziale, alla Carità; ma mentre faccio per picchiare, una pattuglia esce da San Libario, e spiana i fucili… Madonna del Carmine! Questa volta non c’è scampo!… Il sergente dice: “Inginocchiati!…”. Come se le gambe mi reggessero! Io mi inginocchio più morto che vivo. Dice: “Grida viva lo Re!”. Io non avevo più fiato in gola; dico: “Viva lo Re!”. E così sono salvo…»

A un tratto il misuratore del catasto si alzò, incappucciandosi meglio nella sua fascia di lana; il sole era declinato e un brivido freddo passava per l’aria.

«Tanti guai per la roba del padrone!» esclamò, sul punto di andarsene. «Se ero voi, dico la verità, la roba l’avrei spedita, ma io me la sarei battuta!»

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