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Freedom just around the corner for you,

but with the truth so far off, what good will it do?

Bob Dylan, Jokerman

Memori di echi montaliani (e gucciniani) potremmo essere tentati di leggere Loving Vincent, film del 2017 diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, alla luce di ciò che non è invece di quello che è. Perché questa pellicola non è un dipinto, non è un film con attori in carne e ossa, non è un cartone animato, non è un giallo, non un percorso, non una biografia, non un documentario né un dramma, non è una riflessione concettuale o un viaggio puramente estetico. Forse è un po’ di tutte queste cose, ma propriamente sfugge a ciascuna. Come l’esistenziale non siamo dei due poeti italiani, la natura molteplice e sfuggente del film si smarca dal concetto di categoria per andare a concludersi come negazione di tutti i piani fuorché di quello – innominabile – dell’ontologia.

Prodotto anche grazie a una campagna su Kickstarter, Loving Vincent si presenta come un montaggio di tele realizzate da centoventicinque diversi artisti, con uno stile che ricalca quello di Van Gogh. Personaggi, ambienti, scenari, tutto si immerge in pennellate potenti, colori vivi, mai stiracchiati, un senso estetico di incessante inquietudine e di ricerca di una direzione.

Lo stesso intreccio alimenta questo spaesamento; Armand riceve dal padre Joseph – postino che ha consegnato tutte le lettere della corrispondenza tra Vincent Van Gogh e il fratello Theo – l’ultima lettera scritta da Vincent prima di morire. Armand la dovrà consegnare a Theo. Così il giovane viaggia, cercando di ricomporre le ultime settimane di vita di un uomo di cui non gli importa niente, parlando con le persone che l’hanno conosciuto e andando a visitare i suoi luoghi.

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È una ricerca quasi pirandelliana, una raccolta di testimonianze che non si incastrano, di una verità fattuale che sfugge, tra colori e memorie, mosaici di ricordi di diversi personaggi che vanno a comporre un quadro schizoide, teso tra diverse visioni e diverse realtà; l’imprendibile certezza sfugge tra contraddizioni e mezze verità.

Rimane un sapore caustico di nichilismo, come se uno dei più grandi pittori della contemporaneità non potesse essere ricostruito in alcun modo, come se le immagini che abbiamo in mente degli altri non corrispondessero che a una parte minima – se non falsa – della loro vita. Non c’è verità sulla vita di Van Gogh, solo possibili interpretazioni; i fatti stessi si fanno sfilacciati davanti alle prospettive. In questo contesto il film sembra quasi suggerire, al posto di una negazione del concetto di verità, la sua esplosione in infinite direzioni; tutte inverificabili, tutte plausibili, e quindi tutte vere.

Oggi viviamo gran parte della nostra vita su internet. Internet è il regno delle verità a metà, il paradossale mondo della non memoria. Potenzialmente può contenere ogni cosa; è strumento onnipresente del ricordare, ma i suoi canali di accesso principali (social, notizie, motori di ricerca), vivono l’ossessione dell’attimo. Il passato viene relegato a sottofondo, alle ultime pagine di ricerca, al fondo dell’eterna cronologia dei nostri post su Facebook, e la percezione si concentra tutta su quello che accade ora. Storie di Instagram, notizie lampo, ultimora, piatti in attesa di essere mangiati, A cosa stai pensando?, Come ti senti?. Ciò che appartiene a ieri è già vecchio, quello di ora già s’appanna. Le notizie di una settimana fa sono già storia. Quelle di due, già dimenticate. Proviamo a pensare ad almeno tre notizie di due settimane fa. Difficilmente riusciremo a ricordarcele. Sostituite da altre notizie, altre immagini, morti, polemiche, idiozie. Questo è il grande paradosso di internet: c’è posto per tutto, ma tutto viene divorato.

L’ossessione del presente annega parimenti il passato (i nomi degli ultimi cinque Presidenti del Consiglio? Quando è stata l’ultima guerra combattuta in Europa? E continuando a sfilacciarne i suoi fili: di chi è la responsabilità storica delle condizioni dell’Africa? C’è stato davvero l’olocausto?), e il futuro (Ci sarà un cambiamento climatico? Come farò a guadagnare abbastanza? Come farò a prendermi le mie responsabilità? Cosa farò davanti alla morte?). Sostituisce tutto con la sua patina  colorata di hic et nunc, andando a rimuovere il dovere (civile, politico, morale) di conoscere il proprio passato per capire il presente e plasmarlo ricercando un futuro.

Scrive Guido Ceronetti:

«Più una società è illiberale e meno si ritragga dall’accennare al suo destino di morte, più ferocemente rimuove il tragico e la morte, tanto più si spoglia della realtà stessa della condizione umana. Questo è madornalmente tragico: si rinnega la verità della condizione umana per negare senza timore, vergognosamente, a chi ne ha uno straziante bisogno, il dono della compassione».

Mancanza di memoria è disumanità, allontanamento dal vero. L’ossessione del presente, del sé, trasforma gli internauti da esseri umani a non esseri virtuali; non c’è accettazione del tempo, di passato e futuro, vengono evitate le profondità emotive, tragedia e dramma (se non nella sua versione pop-patinata), schifate tanto la felicità più profonda quanto compassione e comprensione. Internet si presenta come mondo in cui gli sconosciuti reagiscono tra loro privati di qualsiasi filtro sociale. Come viaggiare su un’autostrada: gli altri sono automobili, non persone. In auto ci sentiamo liberi da ogni giogo socio-culturale; possiamo insultare, augurare la morte, arrivare alla violenza solo per un sorpasso azzardato. Non c’è empatia, non c’è spazio per domande, per chiedersi se al posto dell’altro avremmo fatto lo stesso o contemplare la possibilità che l’altro sia effettivamente in un’emergenza. Lo stesso su internet: le persone diventano avatar, l’altro non esiste, viene espulso dal mondo virtuale perché di troppo; l’altro è estraneo, mai simile.

L’incapacità di accettare una linearità del tempo a favore del punto, del nunc, va quindi di pari passo con la visione del sé, l’hic, come oggetto dominante del mondo virtuale. Se, come scrive Ceronetti, la perdita di memoria è la morte dell’unica verità possibile (l’empatia, la compassione, la somiglianza di tutti noi come esseri umani), allora ciò che non ha memoria non può partorire il vero. La democrazia del web, all’insegna dell’orizzontalità pluralistica e dell’istant messaginghic et nunc – sacrifica la verità sull’altare di una libertà già bell’e pronta. Abbiamo totale potere su questo mondo, possiamo entrarci e uscire a piacimento, modificarlo, far sapere la nostra opinione, insultare, possiamo far crollare tutti i vincoli socio-culturali, abbattere le nostre ritrosie e paure sociali, l’impersonalità ci fa da scudo, l’avatar è il nostro volto, fittizio per sua stessa definizione. Possiamo fare tutto, ma non sappiamo che farcene. La mancanza di verticalità, di profondità temporale e concettuale su internet, regala una libertà monca, non incastonata in un paradigma culturale. Mancando memoria e prospettive, la cultura non può continuare a vivere, e la libertà così costituita manca di scopo e direzione.

Nel buco vuoto scavato attorno a sé dal presente, l’incertezza del sapere diventa il dogma. Se l’altro non esiste più, se il mondo si limita a quello che percepisco in questo momento, allora non può esistere un sapere unico; non possono esistere fatti, ma solo percezioni, che hanno tutte lo stesso peso proprio perché supportate dalla democrazia del web, orrenda degenerazione senza radici.

Quella verità moltiplicata, polverizzata, che sentiamo snodarsi dai personaggi di Loving Vincent, è oggi esplosa in infinite direzioni, piccoli fuochi che invece di utilizzare la forza di passato e futuro utilizzano semplicemente il loro hic per continuare a bruciare. Questo vociare continuo senza direzione è la postverità.

Ma l’eco di Guccini a Montale (Non siamo) che riecheggia nel finale di Loving Vincent è l’unica salvezza di fronte alla distruzione della complessità del reale. La tentazione di una lettura basata sulla postverità sfuma nel momento in cui dalle possibilità si cade nella più potente e assoluta negazione. Una negazione che non dà alternative, che distrugge parimenti hic et nunc e ristabilisce l’ordine del tempo sottoponendolo però a un vincolo terribile: i fatti possono esistere, la verità no.

È il Pirandello di Così è se vi pare, dove le visioni contrastanti della signora Frola e del signor Ponza hanno un esito non nella terza via ideale della sintesi, ma nel decretare come unica via verso la comprensione umana la negazione di ogni verità possibile.

L’esito a cui la splendida pellicola di Kobiela e Welchman giunge è similare. Armand accetta la resa alla ricostruzione della verità, perché capisce che è proprio nell’arrendersi che può comprendere appieno l’uomo Van Gogh. È in quelle lettere che suo padre ha consegnato per tutta la vita (e, forse per questo, era l’uomo che lo comprendeva meglio?), è in quelle pennellate di tormento e speranza, nei colori intensi e sfibranti in cui – senza accorgersene – lui stesso è immerso, nel trepido equilibrio tra caldo e freddo, tra luci e scuri, che tutti dobbiamo imparare per sopravvivere. Come se l’unica verità possibile fosse un concetto più vicino all’arte che alla logica.

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