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“Quand’è che una terra diventa nostra? La gente non spunta come i fiori dal terreno: ci spostiamo per trovare la nostra casa. Se onori la terra in cui vivi, se onori la gente che vive accanto a te, diventa casa tua”

Cosa vuol dire sentirsi a casa? Quali sono le mie radici?

Con Dove l’aria è più dolce, pubblicato in Italia nel 2017 da Nuova Editrice Berti, Tasneem Jamal prova a dare una risposta a quelle domande che tutti, almeno una volta, si sono posti. E lo fa raccontando della sua famiglia, delle sue radici: nata a Mbarara, in Uganda, da una famiglia di origini indiane, vive in Canada dall’età di tre anni.

È il 1921 quando Raju decide di lasciare l’India per l’Uganda, in cerca di un futuro migliore per sé e la sua famiglia. Anni più tardi, viene raggiunto dalla moglie Rehmat: inizia così la loro storia, che segue parallelamente quella del paese in cui vivono. Prima la fase coloniale, poi l’indipendenza nel ’62, fino al vortice di caos e violenza negli anni ’70 con il colpo di Stato del generale Idi Amin. Sotto la sua dittatura si stima siano stati uccisi circa trecentomila ugandesi, tra contestatori, intellettuali e oppositori politici. Ma non solo. Le violenze etniche e le persecuzioni delle minoranze Acholi, Lango e Indane furono alla base della politica di Amin fino al’72, anno in cui decretò l’espulsione della comunità asiatica dall’Uganda, sostenendo in pubblico di aver ricevuto l’ordine in sogno direttamente da Allah. La storia di Raju e della sua famiglia è la stessa di cinquantamila famiglie di origine indiana costrette ad un esodo forzato con l’accusa di mancanza di patriottismo, di sfruttamento delle risorse ugandesi e di razzismo. Prima espropriati di tutti i loro beni, umiliati ed emarginati, e poi l’ultimatum: novanta giorni di tempo per lasciare il Paese, la propria casa, costretti verso la Gran Bretagna o il Nord America.

Per diversi anni l’immagine del generale Amin è stata di un uomo eccentrico e logorroico, quasi comico. Dai media occidentali veniva rappresentato come la caricatura di un buffone, un saltimbanco nel consesso internazionale. Si deve aspettare il 1977 perché la violenza del suo regime venga rivelata, quando il Ministro della sanità Henry Kyemba, temendo per la sua incolumità, approfittò di un viaggio istituzionale per rifugiarsi in Inghilterra: da qui scrisse State of blood, romanzo che ha reso pubbliche tutte le atrocità del dittatore africano, nonché testo di riferimento per la stessa Jamal. Quel momento storico esaurì del tutto la carica umoristica di Amin. E sono proprio i personaggi dell’autrice a svelare progressivamente la natura più autentica del generale, a restituirci lo spirito brutale e sanguinario di quel periodo. C’è chi, inizialmente, ritiene Amin pittoresco, del tutto innocuo; un visionario che cambia troppo spesso idea per andare realmente fino in fondo nelle persecuzioni, per essere realmente temuto. Ma c’è anche chi, invece, lo teme sin dall’inizio. Come Mumtaz, ad esempio, la nuora preferita di Raju, che in un insostenibile crescendo drammatico sembra l’unica a prendere reale coscienza del pericolo imminente.

È lei ad opporsi ai tentativi del marito di rimanere in Uganda: lasciare la loro casa è l’unico modo per riappropriarsi delle loro vite, della libertà. Ma se Mumtaz capisce di non poter cambiare il corso della storia accettando il fatto di doversi radicare in un altro luogo, Jafar, suo marito, rimane aggrappato il più possibile a quello che considera il suo posto nel mondo, a costo di mettere in pericolo la sua stessa famiglia. Jafar il suo posto nel mondo l’ha conquistato e non lo vuole abbandonare: nato e cresciuto in Uganda, è l’Africa la sua casa. Per la donna invece, è diverso: cittadina britannica, nata in Kenya e poi trapiantata in Uganda, la sua casa è la sua famiglia, i suoi figli. E una volta in Canada è nell’evoluzione del rapporto tra Raju e Mumtaz, da come l’uomo mette da parte le sue convinzioni per prendersi cura di lei, dei nipoti, che la donna ritrova una sua dimensione.
Una quotidianità e una stabilità familiare tali da farla sentire nuovamente a casa.

I punti di forza del testo sono tanti: dalla scrittura asciutta e reale, alle dinamiche familiari presentate senza filtri né giudizio. E nonostante il romanzo si basi su fatti realmente accaduti e nasca da un lavoro di indagine tra i ricordi dell’autrice, quindi da una ricerca del tutto privata, astraendo il racconto dal suo contesto è possibile arrivare a nuovi significati.

Se si elimina l’intenzione della scrittrice, la sua presenza, come consiglia Roland Barthes con il suo La morte dell’autore, esiste solamente il tempo della narrazione, il qui e ora del testo e del legame diretto che crea con il lettore. Si arriva così a vedere che oltre a mettere in luce una vera e propria pulizia etnica, poco nota al mondo occidentale e poco indagata sui libri di scuola, il romanzo offre l’occasione per riflettere sul significato di ‘casa’, sul bisogno dell’essere umano di sentirsi al sicuro. Ma anche su quella che oggi viene definita ‘migrazione economica’. Perché se è vero che Raju e la sua famiglia dall’Uganda sono stati violentemente sradicati, dall’India, invece, il capostipite ha scelto volontariamente di andare via. Siamo ormai abituati a un tipo di retorica che volge a giustificare e comprendere solamente gli spostamenti da paesi in conflitto o sotto regime dittatoriale: se non per scappare da una situazione di pericolo, perché mai lasciare il proprio Paese? Perché dovrebbe essere concesso? Come se alla base dell’esistenza umana non ci fosse la spinta al miglioramento, alla ricerca di un posto in cui poter sviluppare appieno il proprio potenziale.

Quando Raju, per le strade del Canada, si trova a spiegare alla nipote Shama le motivazioni che l’hanno spinto tanti anni prima a lasciare Gujarat, la sua città natale nell’India del nord, le dice che l’India sì lo sfamava, che sì “avevo la pancia piena, ma facevo la fame”. Quella che Raju descrive, e che poi trasmetterà a figli e nipoti, è la spinta al miglioramento che trascende anche l’aspetto economico. Che sia determinata da una condizione esterna, come nel caso di conflitti o persecuzioni, o da una spinta interna, come una volontà di autodeterminazione, la partenza è vissuta comunque come una costrizione. Perché anche nel secondo caso si tratta di una ricerca orientata non solo alla soddisfazione dei propri bisogni, ma verso la realizzazione della propria identità, che non può essere ignorata o sedata. Una tendenza inconscia che spinge al cambiamento e che passa, a volte, anche attraverso la rottura con la condizione di partenza. Una tendenza che Raju alimenta nella nipote, insegnandole l’importanza di conoscere più lingue, di essere istruita così da essere “figlia della terra” e “sentire che il mondo è casa tua”. Un invito a seguire quell’impulso, senza limiti e senza opposizioni, così che il mondo diventi più piccolo e ci sarà sempre un posto dove andare, “dove l’aria è più dolce e tutto è ok”.

Inoltre la Jamal ordina certo i suoi personaggi all’interno di un impianto storico preciso e determinato, ma occorre notare come il romanzo emerga per la sua universalità. In un contesto come quello attuale, la semplicità con cui il lettore è guidato nell’immedesimazione è da considerarsi rivoluzionaria. Senza retorica spiccia, giri di parole e patetismi inutili, è molto facile rintracciare tra le pagine la propria storia. E quindi capire che un agricoltore è costretto a spostarsi “quando la terra smette di dargli quello che gli serve per vivere”, che la linea tra ciò che è giusto e sbagliato non è poi così semplice da percepire, e che ogni azione porta con sé delle conseguenze incontrollabili. Non c’è un inizio e non c’è una fine, perché è la storia di tutti, di chi c’è stato e di chi ci sarà, la piccola parte di un momento che rappresenta il tutto. Il ripetersi di ciò che muove l’esistenza umana, delle domande che stanno alla base delle sue azioni: cosa vuol dire sentirsi a casa? Quali sono le mie radici?

 

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