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Un capitolo di Tecnocina. Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi di Simone Pieranni, uscito a settembre dell’anno scorso per add aditore, si chiama così: «I nerd al potere». Di primo acchito, risulta spiazzante per due aspetti opposti.

Il primo, perché, secondo vulgata, scienza/tecnica da un lato, e politica dall’altro, viaggiano in compartimenti stagni, classi diverse di un treno che, come lo Snowpiercer di Bong Joon-ho (o Le Transparceneige come da titolo originale della graphic novel di Jacques Lob e Benjamin Legrand, dipende da quanto siete nerd), procedono in fila e creano una realtà ordinata, senza punti di contatto. Il secondo perché, l’abbiamo recentemente sperimentato durante le fasi emergenziali della pandemia di Covid-19, se qualcosa non accade nel reame della scienza e del suo avanzamento, allora la colpa è degli scienziati, e siamo autorizzati a prendercela con loro, soprattutto su Facebook o al bar con gli amici. Come se il potere, insomma, ce lo avessero sempre avuto.

Entrambe sono, evidentemente, riduzioni semplicistiche. Come lo è pensare che i paradigmi diversi da quelli occidentali per la gestione della conoscenza tecnologica e scientifica “manchino il bersaglio”. Dato un certo set di dati, in fondo, ci sono molti modi per elaborarlo, interpretarlo, e usarlo per creare qualcosa. Lo sa chi smanetta, chi è un “nerd”, appunto.

Lo sa Pieranni, perché un po’ nerd in fondo ammette di esserlo. Giornalista, autore, fondatore di China Files (Associazione di Promozione Sociale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici), responsabile della redazione Esteri del Manifesto dal 2014 al 2022 (prima, dal 2006 al 2014, ha vissuto in Cina) e, oggi, parte di Chora Media, per cui si occupa di podcast riguardanti quella parte di mondo che chiamiamo Oriente. «Quando sono arrivato a Shanghai nel 2006 una delle prime cose che ho cercato è stato un hacklab, un posto dove potessi incontrare coder e smanettoni cinesi», si legge nella postfazione al volume. Eppure, «in Cina la mia ricerca si è infranta ben presto di fronte alla necessità primaria di capire dove fossi, di situarmi in una realtà in cui ogni giorno accadeva qualcosa, dove ogni giorno dovevo processare quantità impressionanti di informazioni nuove. […] Quello sguardo sugli aspetti tecnologici non si è mai sopito […] anziché cercare la realtà underground, che con il tempo ho imparato a riconoscere, ho dovuto affrontare l’enorme materiale ufficiale, giornalistico e del Partito, per capire come il Paese nel quale avevo deciso di vivere stesse elaborando i tanti cambiamenti repentini che potevo osservare ogni giorno».

La parola-chiave, infatti, è ufficialità. Non solo perché è una cultura di cowboy come quella espressa dagli Stati Uniti a creare impresari alla conquista del West come Elon Musk, eroi solitari contro tutti. Ma anche perché, a voler collocare nel tempo e nello spazio il pensiero di un futuro distopico, governato dalle macchine e dal controllo istituzionalizzato a mezzo Intelligenza Artificiale, è probabile che non penseremo al cortile di casa. Immagineremo, forse, un Est indefinito, oppure proprio lei, la Cina, che, tornando alla cultura da cowboy, caduto il primo nemico, URSS, è diventato il rivale per eccellenza della sfera occidentale.

L’associazione nasconde un’intuizione – sempre a rischio stereotipo – inconscia: se qualcosa succede a Est, innovazione compresa, è perché lo Stato lo permette, perché ne riscontra un tornaconto immediato. Per esplorare quanto la credenza veleggi tra realtà e sentito dire, è bene non fermarsi alla superficie, e un’ottima strada maestra per sollevare il velo della doxa può essere proprio il nuovo saggio di Pieranni, che allo statalismo tecnologico (o alla tecnologia statalista) ha dedicato capitoli che prendono il via nel 1949 – anno in cui il Partito Comunista, al seguito di una guerra civile, si impose sul più moderato partito nazionalista (Kuomintang) e fondò la Repubblica Popolare che tutt’ora conosciamo – e approdano ai giorni nostri. Dunque, da Mao a Xi Jinping.

Consiglio prima di iniziare la lettura, per mettersi subito nel giro di idee giusto, di stamparsi in fronte questa frase: «Mao riteneva che la teoria della relatività di Einstein potesse costituire la base scientifica per il suo materialismo dialettico, per le sue teorie sulle contraddizioni». In altre parole, un’idea sarebbe stata adottata solo quando strategicamente (o ideologicamente) conveniente. Un esempio: se credere in una teoria (errata) e non in un’altra (corretta) avesse significato mantenere i rapporti con l’alleato-URSS, si sarebbe creduto nella prima, e a chiunque l’avesse confutata sarebbe stata revocata la cittadinanza cinese.

Si delinea così una storia parallela, che aiuta a inquadrare meglio alcune iniziative del Governo cinese particolarmente discusse in Occidente – come la politica di controllo delle nascite, spoiler: c’entra la cibernetica – e che porta alla ribalta nomi meritori ma nascosti dalle sabbie del tempo o del trionfalismo tipico di ogni nazione, quando si tratta di celebrare “i propri” e mettere in ombra gli altri. Conosciamo Zhang Lizhu, “madre” della fecondazione in vitro in Cina, che nel 1988 fece nascere la prima bambina ottenuta attraverso quella tecnica. Con dieci anni di ritardo rispetto ai colleghi occidentali, certo, ma il divario risulta del tutto esiguo se si tiene conto del fatto che, con l’arrivo della Rivoluzione Culturale nel 1976, il laboratorio di Zhang fu chiuso, e lei spedita nelle campagne. Oggi, con il suo procedimento, in Cina «nascono più di 200.000 bambini all’anno, il numero più alto nel mondo». O Qian Xuesen, considerato il capostipite del programma missilistico statunitense. Ma si scopre anche che, nei dieci anni circa prima della morte di Mao, il mondo si era ribaltato, e promuovere le teoriche fisiche dello stesso Einstein, che Mao aveva un tempo sfruttato per avallare la sua visione del mondo, avrebbe potuto portare, come descrisse il romanzo Il problema dei tre corpi di Liu Cixin, alla morte (fuori di metafora e non) del malcapitato scienziato.

E i nerd? Be’, a loro spetta, come dicevamo, un posto del tutto particolare. Il nome di spicco è quello dell’ingegnere elettrico Jiang Zemin, scelto da Deng Xiaoping come suo successore a Segretario del Partito Comunista nel 1989 in quanto ritenuto affabile, non divisivo, giusto insomma a subentrargli senza generare spaccature tra le fazioni interne ai ranghi della politica cinese. Jiang divenne così non solo il capo dei nerd, ma anche la testa di ponte della rivoluzione di internet verso la Cina, visionario e incredibilmente in sintonia con la sua epoca oltre i confini nazionali. Fu sotto di lui che Titanic divenne il film occidentale di maggior incasso di sempre in Cina: ritenuto promotore di un modello negativo di capitalismo, funzionari e non furono incoraggiati a recarsi in sala proprio per capire quale non sarebbe stata la via cinese al mondo globalizzato. Sotto di lui venne implementato quello che Wired definì il Grande Firewall, “scudo” per setacciare internet ed espellere tutti i contenuti non grati alla visione del Partito.

Ma le cose cambieranno ancora con l’avvento dei successori di Deng, e Xi Jinping soprattutto…

In un movimento che Pieranni descrive come “a fisarmonica”, insomma, la politica e la tecnologia della Cina (o forse meglio, in Cina) si giurano odio o amore a seconda della convenienza sullo scacchiere internazionale. Perché anche di politica estera si tratta, dell’immagine di sé proiettata verso l’esterno. Il rischio, per chi osserva, è rimanere incantato dal dispiegarsi e rattrappirsi della fisarmonica, perdendo di vista il punto focale del discorso: perché ci ostiniamo a trattare la Cina come un attore di secondo livello? Perché non siamo pronti a dar ugual peso alla “loro” tecnologia rispetto alla “nostra”, e la consideriamo sempre “copiata” senza mai indagare il contesto in cui quella tale tecnologia vive e si sviluppa?

La lettura di Tecnocina ha proprio questa funzione di cannocchiale rovesciato: riporta la prospettiva dalla parte del soggetto, e non dell’oggetto, del discorso. E mostra come, tanto nelle lune di miele che nei periodi di conflitto, in un certo senso avremmo da imparare dall’importanza che scienza e tecnologia rivestono nella Weltanschauung cinese. Perché, se la scienza è ritenuta tanto potente da poter plasmare le idee delle persone (e non solo il conto in banca delle aziende con questa o quella invenzione in meno, in più), allora forse sì, che vorremmo più tecnocrati – pardon, nerd – in Parlamento. Chissà che non possa fare bene, quando le aule della politica, dalle nostre parti, sembrano interessate soprattutto a perpetuare loro stesse.

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