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Era il lontano giugno del 2017 quando ho conosciuto Hisham Matar. Neppure tre anni fa, ma la velocità estrema con cui gli eventi ci hanno travolto fino alla battuta d’arresto inaspettata di ormai due mesi fa, cui è seguito invece l’inizio di un periodo lungo e lento, fa sembrare quel tempo ormai così remoto. Dall’isolamento casalingo ripenso con un misto di nostalgia e fantasticheria agli incontri della mia vita, agli sguardi, a parole scambiate in corsa che pure rimangono indelebili. Si dice che si ricorda davvero solo ciò che si è amato, par coeur in francese, e in effetti tutte le letture che mi tornano in mente in questi giorni tra il divano e la mia libreria sono le tappe che hanno costruito il mio percorso di lettrice. E una di queste riguarda proprio Hisham Matar, che pochi mesi prima del nostro incontro aveva vinto il premio Pulitzer con Il ritorno e che oggi mi fa compagnia con il suo ultimo libro uscito per Einaudi A month in Siena, tradotto con Un punto di approdo (Einaudi 2020, traduzione di Anna Nadotti). Ho avuto l’occasione di andarlo a prendere all’aeroporto di Firenze e accompagnarlo al suo hotel nel cuore della città per il Premio Gregor von Rezzori, di cui era ospite. Un uomo dolce, appassionato della vita, con un’aria di immediata confidenzialità, così ho letto la sua espressione quando mi ha salutato e ringraziato di essere lì per lui. Nel breve tragitto in taxi ha voluto sapere qualcosa di me, io studentessa universitaria in quel momento alle prese con la letteratura tedesca, lui che aveva appena pubblicato il suo nostos in Libia alla ricerca della memoria del padre scomparso. Qualche scambio di opinione sulla letteratura, qualche consiglio sulla città di Firenze, poi un rapido saluto prima che lo inghiottisse la fitta timetable degli eventi tra incontri e interviste. Dopo il Festival mi sono dimenticata di lui, sia della sua scrittura che del nostro incontro quel giorno tra l’aeroporto e il taxi. Solo oggi che lo riscopro e ordino il suo ultimo libro è tornato il momento di ritrovarsi ancora.

A month in Siena – il titolo originale rende sicuramente più giustizia al libro – racconta semplicemente il mese passato da Hisham Matar alla scoperta dell’arte senese, eppure è così pieno di grazia che ogni parola sembra intimamente connessa con quei quadri di pittura gotica raccontati e sapientemente intervallati nel libro al testo. Dunque approda a Siena accompagnato dalla moglie Diana, a cui dedica il libro e che riparte dopo pochi giorni, si sistema in un appartamento e passa le giornate tra le strade labirintiche della città e la Sala dei Nove presso il Palazzo Pubblico, dove può ammirare l’opera di Ambrogio Lorenzetti. Lo stesso di fronte alla Madonna dei francescani di Duccio di Buoninsegna alla Pinacoteca, dove le custodi gli offrono una sedia per rimanere, perché osservare un quadro a lungo è un po’ come pregare. La visione di queste opere sa di qualcosa di desiderato a lungo, qualcosa che aveva solo bisogno di verificarsi davvero, di essere vissuto con il corpo più che con la mente. Nel mese di Hisham Matar a Siena c’è una necessità di silenzio, solitudine e spiritualità e allo stesso tempo di ritorno a ciò che si ama, di pienezza, di comprensione di sé e del mondo che si misura nel continuo rapporto con l’arte, con la letteratura, con le persone amate.

Quasi miracolosamente – e questo libro non è distante da un piccolo miracolo nelle nostre giornate casalinghe – un capitolo viene dedicato alla Peste del 1348 e a come questa abbia profondamente mutato non solo le vite ma anche la concezione dell’arte dei pittori dell’epoca e a seguire.

Quello che è certo è che la Peste Nera del 1348 è stato l’evento più devastante della storia umana. Quello che ha mietuto il più alto numero di vittime e ha plasmato il nostro atteggiamento verso la morte e il morire e, di conseguenza, verso la vita e il vivere. Il Rinascimento e il Barocco fiorirono nella sua ombra. Michelangelo, Rembrandt e Verneer ne furono più volte minacciati. (…) A molti artisti, la rappresentazione della morte cominciò a sembrare un rito di passaggio, un duro addestramento alla mortale fragilità della vita umana, una finestra sulla fuggevole transitorietà dello spirito.”

L’ultimo capitoletto del libro, ormai lasciata Siena per New York, immagina il ricongiungimento degli uomini attraverso il dipinto di Giovanni di Paolo conservato al Metropolitan, Paradiso, dove quattordici coppie in piedi si stringono la mano nell’aldilà. Qual è il significato profondo di ogni ricongiungimento, si chiede Hisham Matar, e ce lo chiediamo tutti noi, ora distanti e separati. Come si evince dall’epistolario di Eloisa e Abelardo, gli amanti che potevano amarsi solo da lontano, il desiderio dominante nella separazione è quello di continuare a essere presenti, di essere ancora informati delle «tempeste» che investono l’altro. E ricongiungersi, allora, non sarà solo rincontrarsi ma  anche ricordarci di occupare lo stesso posto, nonostante il tempo e la distanza, nella vita di chi ci era caro.

In qualche modo anche Siena è per Matar un ricongiungimento, sebbene non ci sia mai stato prima. Quello con la pittura senese conosciuta a Londra da studente, quello con i propri ricordi rivificati dalla flânerie quotidiana, con la dimensione più delicata e fragile del proprio Io. Interrogare Siena come un «organismo vivente», la sua gente, la sua arte diventa allo stesso tempo un modo per interrogare se stesso. Davanti alla perturbante Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti, la voglia di vivere spregiudicata del bambino che guarda fuori dal quadro con aria maliziosa convive con l’espressione rassegnata del volto di Maria ed è un modo di parlarsi attraverso l’arte. Ogni dipinto è una nostalgia, il richiamo di qualcuno perso nel tempo, un sorriso strappato e, dunque, un ricongiungimento. Come se ogni opera descritta e presente nel libro divenisse, a mo’ di un romanzo di Sebald, parte integrante della trama narrativa, specchio autobiografico di chi racconta.

Quel giorno Siena mi appariva intima quanto un medaglione da portare al collo, e tuttavia complicata come un labirinto. Mi riparava completamente dall’orizzonte. La mia bussola poteva essere orientata solo da lei, dalle sue curve e svolte, dalle sue manovre e decisioni, dai suoi scopi e dai suoi gusti. Siena ha in se stessa la propria stella polare. (…) Quel giorno e in quel luogo ho pensato che avrei potuto vivere tutta la vita in quella città straniera dove, per così tanto tempo e per ragioni misteriose, avevo desiderato essere.”

Nella città labirintica toscana il tentativo di Hisham Matar è anche quello di perdersi, di sentirsi smarrito delle coordinate reali per ritrovarne altre inattese. Come l’incontro fortuito con Adam, un uomo di origini arabe che gli apre le porte della propria casa e della propria famiglia. Un’esperienza di condivisione forse più sconosciuta al mondo occidentale che gli permette di trovare un punto di riferimento proprio in una casa di estranei. In una cena e una serata consumata a parlare – a parlarsi davvero – il flusso naturale delle rispettive vite scorre come se si conoscessero da sempre e semplicemente riprendesse da dove si erano interrotti. Un «oggetto prezioso» definisce Matar quella sera, un ricordo, un’esperienza di cui, già nel presente, sa il valore che conserverà.

Per chi Matar se lo ricorda e lo ha conosciuto in Il ritorno, il doloroso ritorno nella sua terra d’origine che ha inghiottito il corpo del padre, rapito durante il governo Gheddafi, non è difficile pensare a questo piccolo libro come una naturale prosecuzione, se pure sia così diverso per ambientazione, tematiche e genere. Infatti, naturale è il bisogno di allontanarsi dal mondo dopo essersi fatto carico di una memoria privata che è anche così collettiva, che diventa storia grazie alle sue parole. E nel cuore di Siena può spogliarsi del suo ruolo sociale per condividere di fronte all’arte il proprio fardello di uomo come una religiosa confessione: «Mi è sempre sembrato un paradosso che nelle arti solitarie ci sia qualcosa di profondamente condivisibile».

Questo libro è insomma un breve cammino in una geografia reale, quella di Siena, ma anche in una dimensione allegorica, quella che l’arte e la solitudine propiziano, per approdare all’unico movimento che conti, l’essere a tempo con se stessi.  Un cammino che velatamente ci mostra quello che tutti cerchiamo in un libro o in un dipinto, ritrovare qualcosa che ci appartenga.

Io esisto per lo più fuori dal tempo. Solo in rari momenti – quando sono con le persone che amo o in periodi di grande vitalità, o quando sto scrivendo e il lavoro procede bene – mi sento a tempo, sento di essere dove volevo essere e non ho alcun desiderio di essere altrove. Per il resto interviene una discordanza, come se io fossi trattenuto e da qualche parte lì nei pressi, magari nella strada vicina, si stesse svolgendo un incontro o un evento che mi interessa e, dal quale, per caso o disinformazione o sfortuna, sono invece escluso. La cosa strana è che a Siena non mi è mai accaduto. Ogni giorno e per tutto il mese che ci ho vissuto mi sono sentito a tempo.”

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