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Protagonista assoluto di Manodopera è il supermercato, scintillante nella sua materia plastica e organica, perennemente avvolto in una pellicola che non argina il disfacimento delle carni e dei corpi, immerso nel rumore bianco della produttività fine a se stessa. Chiara allegoria del Cile drogato dalle siringhe del neoliberismo, il supermercato panottico della scrittrice e attivista Diamela Eltit si stacca dallo sfondo in questo suo visionario romanzo – pubblicato da Polidoro editore nella traduzione di Laura Scarabelli, autrice anche dell’illuminante postfazione – per diventarne il centro al contempo magnetico e respingente.

La trama, divisa in due filoni, costruisce un’oscura parabola di vita lavorativa, che inizia col borborigmo mentale di un dipendente senza nome, che seguiamo per tutta la prima metà del libro mentre si aggira tra gli scaffali in uno stato allucinato, svolgendo compiti ripetitivi e alienanti – «Ordino a una a una le mele. Ordino a una a una le mele. Ordino a una a una (le mele)» – e termina con le vicende di un gruppo di impiegati del supermercato che convivono in una casa malmessa, arrabattandosi per resistere alle costanti ondate di licenziamenti, avviliti da una promiscuità che non li rende affatto più solidali.

Il narratore e protagonista della prima parte ha interiorizzato a tal punto il ritmo produttivo da versare in uno stato di catalessi, che ne altera la percezione spaziotemporale. Il mondo esterno gli è precluso e, al solo pensiero di trovarsi lì fuori, lo adombra la fobia dell’assenza di controllo:

«Ma quando sono fuori dal supermercato, lontano dagli sguardi che potrebbero giudicarmi, mi vergogno. La verità è che non sono fatto di ferro e l’oscurità realista della strada mi sembra terribilmente inquietante»

Ciò che esula dalle logiche del supermercato è percepito come il caos dell’improduttività, un residuo inestinguibile di irrazionale che non deve in alcun modo inquinare la logica ferrea delle merci.

Oltre a un rigido controllo dello spazio, i dispositivi del supermercato impongono anche una distorsione del tempo («Il tempo ora stritola il supermercato come se lo tenesse in pugno»): espropriato e asservito ai ritmi di arrivo e di sistemazione dei prodotti, si dilata all’infinito nei turni irreali ed estenuanti cui è costretto l’anonimo dipendente, precipitando la narrazione in un incubo senza coordinate.

Naturalmente, l’apoteosi del soggetto alienato, che non può sfuggire al suo contesto, consiste nel morire martire, sepolto sotto le merci, annullandosi in esse:

«Il mio desiderio (il mio ultimo desiderio) è di crollare in mezzo a un frastuono più che irriverente e trascinare con me una fila interminabile di scaffali, permettendo finalmente alle merci di lapidarmi»

E chi sono i clienti? L’umanità descritta nel delirante monologo è confusa, muta e scomposta, quasi ritornata a una dimensione primigenia e cacciatrice, nella quale la distruzione e la ferocia consumista sono una danza macabra necessaria al soddisfacimento dei propri bisogni («Ballano i nomi, la sofferenza, i volti, il denaro, le ossa, i genitali esausti, la memoria»). Una coazione che non risparmia neanche bambini e anziani, che però, in quanto incarnazioni dell’improduttivo, rappresentano una resistenza, sia pur casuale e istintiva, all’impero del consumo: gli uni attentando di continuo all’integrità delle merci, gli altri producendosi in chiacchere sterili che rallentano l’efficienza del supermercato.

Nella torma che saccheggia il magazzino, nella marcia ironicamente rivoluzionaria del consumatore verso il prodotto, è riconosciuto dunque l’aspetto «sovversivo di una massa umana all’attacco, come se fosse un unico corpo irrispettoso, esteticamente dispiegato alla presenza di una gestualità ultramoderna che, a tratti, sembra assolutamente arcaica». Ma alla fine la rivoluzione si presenta per quello che è: un meccanismo già previsto, pronto a essere inglobato e funzionale al sistema.

Con l’inizio della seconda parte si ha l’illusione che si possa aprire una breccia nel supermercato. Ma il “noi” che si appropria della narrazione è altrettanto avvinto nei propri loop mentali, e ci accorgiamo presto che Eltit, dopo aver mostrato le conseguenze dell’individualismo e del consumismo più sfrenati, si accinge ora a denunciare lo svuotamento di ogni coscienza di classe.

La casa in cui vive il gruppo di dipendenti si rivela essere un’estensione del supermercato, un suo effetto collaterale (un’esternalità, per l’appunto), che assume senso soltanto nella misura in cui è necessaria ad alimentare la fame di corpi del sistema («La casa ormai era priva di senso. Non era. Non ci conteneva»).

Non vi è dunque azione se non all’interno di questi imprecisati confini tra luogo di lavoro e dimora. In questo spazio sospeso osserviamo il declino struggente della bella Isabel, costretta a concedersi ai supervisori per garantire a sé e ai coinquilini il posto di lavoro, cui fa da contraltare l’ambizione “verticale” di Enrique, presunta guida del tetro gruppo perché «un po’ più bianco di tutti noi» – a dimostrazione che la disuguaglianza non esiste soltanto tra classi diverse, ma anche e soprattutto all’interno di esse – il quale tradirà i colleghi per salvarsi il posto.

È una gabbia senza vie di fuga, che Diamela Eltit realizza anche sul piano stilistico, attraverso le soluzioni del monologo allucinato e del noi spersonalizzante. In entrambi i casi la prosa s’incarica di mimare le ossessioni dell’alienato, rendendo conto dell’oppressione dei corpi e del loro decadimento. La molteplicità degli impulsi contrastanti che si contendono ciascuna voce è ribadita attraverso una lingua continuamente sottoposta a smottamenti di registro e al ritorno ossessivo di alcuni concetti sotto forma di parentesi martellanti, che complicano costantemente la costruzione di senso. In ultima analisi, il soggetto/i soggetti che si esprimono nel romanzo sono parlati da un discorso che non gli appartiene, o che comunque non controllano, in cui vengono a cozzare l’interiorizzazione assoluta del modello consumistico – segnalata dalle tipiche espressioni del lessico produttivistico –  e la carica aggressiva che deriva da una quotidiana oppressione.

Lo sforzo di problematizzare la materia su più livelli impone talvolta all’autrice di sacrificare la tensione narrativa sull’altare della denuncia sociale, ma l’operazione tutto sommato riesce nella misura in cui l’obiettivo non è una verosimile caratterizzazione del soggetto alienato. Pur messi in condizione di esprimere il proprio disagio, i protagonisti di Manodopera, incapaci di autodeterminarsi, rimangono ombre; eppure il loro andirivieni incessante riporta alla coscienza una verità vecchia quanto il capitalismo, che forse a noi occidentali è venuta a noia, ma che è ancora l’unica lettura possibile del nostro modo di produrre e accumulare.

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